The Project Gutenberg EBook of Racconti e novelle, by Antonio Ghislanzoni This eBook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you'll have to check the laws of the country where you are located before using this ebook. Title: Racconti e novelle Author: Antonio Ghislanzoni Release Date: September 19, 2014 [EBook #46900] Language: Italian Character set encoding: ISO-8859-1 *** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK RACCONTI E NOVELLE *** Produced by Giovanni Fini, Carlo Traverso and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive)
NOTE DEL TRASCRITTORE:
—Corretti gli ovvii errori di stampa e di punteggiatura.
—Nel racconto "Se il marito sapesse" manca la numerazione del capitoletto VIII; tale anomalia è stata mantenuta.
—La copertina è stata creata dal trascrittore utilizzando il frontespizio dell'opera originale. L'immagine è posta in pubblico dominio.
A. GHISLANZONI
RACCONTI E NOVELLE
PROPRIETA' LETTERARIA RISERVATA
DI
ANTONIO GHISLANZONI
MILANO
EDOARDO SONZOGNO, EDITORE
14. Via Pasquirolo. 14
1874.
Lodi, Società Cooperativo-Tipografica, 1874
Poichè piace al mio ottimo amico Edoardo Sonzogno raccogliere in un solo volume e pubblicare queste mie Novelle da tanti anni disperse e vaganti, io profitto della occasione per sciogliere un debito di riconoscenza.
Desidero che i miei contemporanei siano informati, come e qualmente abbia esistito a Milano un esercente di Caffè-restaurant, il quale ad un giovane orribilmente compromesso nella opinione pubblica dalla sua duplice professione di giornalista e di poeta, per oltre un anno diede a credenza il pranzo e la cena, trattandolo con quella lautezza e garbatezza, che ordinariamente vien riserbata ai consumatori milionari. Questo esercente fenomenale si chiama Ferdinando Fumagalli—un vero galantuomo e gentiluomo—già proprietario del Caffè della Accademia, ed ora gerente cointeressato del Caffè Biffi nella Galleria Vittorio Emanuele.
A lui dunque io voglio dedicato il presente volume—a lui, che ravvivando nel 1854 con eccellenti costolette e squisitissimi vini la mia fantasia estenuata da lunghe inedie, fu in certa guisa mio collaboratore e ispiratore.
Questo attestato di pubblica riconoscenza e di cordialissimo affetto, ch'io porgo all'amico Fumagalli, animerà gli esercenti ad aprire, meno ritrosi che nol furono in passato, i loro libri di credito alla classe diseredata dei poeti.
Tutto sta che questi ultimi non si illudano di soverchio, e tengano ben in mente questa circostanza, per me favorevolissima, che il mio sovventore e creditore cortesissimo non era uno svizzero.
A. Ghislanzoni.
RACCONTI E NOVELLE
La neve cadeva a larghi fiocchi.
Franz e Joseph salivano il tortuoso sentiero della valle, conversando lietamente come due villeggianti che muovano ad una escursione di piacere in una giornata di bel tempo.
Franz diceva a Joseph:
Fra due ore avremo raggiunto il villaggio. Animo dunque! Siamo prossimi alla meta. Proseguendo di questo passo, prima di mezzodì saremo fra le braccia de' nostri cari. In casa nostra troveremo un buon fuoco, una buona zuppa e una gran festa.
—Sul fuoco, sulla zuppa quasi ci conto anch'io—rispondeva Joseph tristamente—ma un uomo che torna dall'America senza un quattrino nelle tasche, è assai difficile che trovi in famiglia una festosa accoglienza.
—Tu fosti sempre un benedetto figliuolo! Se avessi dato retta a' miei consigli, nei cinque anni che abbiamo passati laggiù, ti saresti indubbiamente arricchito. Non si può dire che la fortuna ti sia stata nemica. Hai guadagnato più di me; e, se oggi, tornando al paese, non hai la consolazione di portare alla tua famiglia un buon portafogli ricolmo di banconote, tu solo ne hai colpa. Per far denaro, ci vuole della economia, ci vogliono delle annegazioni e dei sacrifizi.—Quand'io, or fanno cinque anni, lasciava il villaggio, aveva detto a mio padre: tu presto sarai[8] vecchio, tu hai sposo una parte del tuo patrimonio per darmi una educazione; il paesello non offre risorse—io andrò in America ad esercitarvi la mia professione di medico-chirurgo, e il giorno in cui vi annunzierò per lettera il mio ritorno, voi potrete contare sovra un portafogli ricco di cinquanta mila lire che io stesso verrò a deporre nelle vostre mani, se il buon Dio mi farà la grazia di tornare sano e salvo al paese.—Il portafogli, come tu sai, lo tengo rinchiuso nella mia valigia, e alla somma promessa non manca un quattrino. Per non guastare il mio piccolo patrimonio, io ho perfino ricusato di mangiare una zuppa all'ultimo albergo dove abbiamo passata la notte, mentre tu—sempre uguale a te stesso—hai speso gli ultimi tuoi spiccioli per quattro belle grives che sentivano il ginepro a distanza di tre camere. Ah! il profumo di quei volatili mi tentava atrocemente! Eppure—fedele a miei principî—ho saputo anche stavolta resistere e il mio peculio rimase intatto. In America, segnatamente nei primi anni, io ne ho sofferti dei digiuni! Mentre tu banchettavi spensieratamente colle belle figliuole di Buenos-Ayres, io me ne stava rinchiuso nella mia cameruccia disadorna, a rosicchiarmi, pel mio pranzo, una mezza dozzina di datteri ammuffiti! Ed ecco di qual maniera è avvenuto, che, mentre io riporto al paese un capitale più che sufficiente per assicurarmi una esistenza agiata e tranquilla.... tu invece...
—Tu invece! tu invece!.... Queste prediche, mio caro Franz, cominciano a seccarmi... Eppoi—permetti che io te lo dica—non è ancor giunto il momento in cui ti sia lecito menar vanto del tuo sistema. Fatto è che, fino a ieri sera, io ho passato la mia vita più lietamente di te.... Tu non hai fatto che soffrire e tiranneggiare i tuoi istinti pel corso di cinque anni—io all'incontro, non ho a dolermi di essermi rifiutato verun comodo o diletto della vita. Se infino ad oggi io fui l'uomo più beato della terra, e tu fosti, per tuo proprio volere, il più travagliato e miserabile, non veggo ragione perchè io debba invidiarti, o perchè tu abbia a menar vanto di esser stato più saggio[9] di me. Quanto all'avvenire.... vedremo! In ogni modo, nessuno potrà distruggere questo fatto, che io ho passato assai bene i miei cinque anni di America.
I due amici camminarono alcun tempo in silenzio. Franz con voce pacata riaperse il colloquio.
—È vero... perdona se ti ho fatto de' rimproveri... Alla fine, non è detto che tu sia un uomo rovinato, perchè non hai saputo metter da parte un capitaletto per l'età dei reumatismi e della gotta. Tu sei ancora nel fiore dell'età—hai talento—hai pratica degli affari—e con queste belle doti si può far bene nel paese nostro come altrove.
—E ci conto seriamente.
—Tu hai dunque intenzione di riprendere fra noi il tuo commercio?
—Senza dubbio. Dopo cinque anni di esperienze fatte laggiù, fra quei bravi Americani, io spero bene di saperne tanto da menar a bevere questi piccoli negozianti del cantone che passano per onniveggenti, come i guerci nel paese degli orbi.
—Vuoi permettermi di darti un consiglio?
—Dì, pure.
—Per riuscire perfetto commerciante è necessario che tu badi a correggerti di un grave difetto....
—Sentiamo!
—Tu sei troppo tenero di cuore...
—Come a dire?
—Tu ti lasci, qualche volta, troppo spesso, dominare dal sentimento. Non vi è cosa più rovinosa per un uomo di affari. In presenza della speculazione il fratello, il collega, l'amico debbono sparire... Quando uno agisce nella sfera delle sue attribuzioni commerciali, deve quasi dimenticare di esser uomo. Da questo lato tu hai sempre dato prova di una debolezza imperdonabile. Ti ricorderò un fatto su mille. Allorquando, all'epoca della febbre gialla, per essere fuggiti dalla città quasi tutti i medici; io mi faceva pagare dieci ed anche venti dollari per ogni visita, sicchè in poche settimane io arrotondava la bella somma che oggi riporto al paese; che facevi tu, mio povero Joseph, per usufruttare i benefizi della situazione?[10] A quell'epoca, c'era grande ricerca di Melange e di Fernet—tu ne avevi colmi i magazzini.... Animo, dunque! Profitta del buon vento! Rincarisci sul prezzo! In luogo di dieci, domanda cento, duecento franchi per ogni bottiglia.... Ed ecco, in meno di un mese, tu hai realizzato un benefizio di centomila franchi.—Ma no! Il mio buon Joseph si lascia vincere dal sentimento.... Egli regala agli ospedali qualche migliaio di bottiglie, riduce i prezzi in favore delle classi meno agiate, dona gratis la merce a quanti gliela domandano nella lingua del paese... Infine....
—Infine.... doveva io, in mezzo a tanto disastro?...
—E qual'è di grazia la buona operazione commerciale che non abbia per base qualche disastro pubblico o qualche sventura privata?...
—Io doveva dunque, secondo il tuo avviso, lasciar perire tanti disgraziati?....
—Dal punto di vista commerciale, tu dovevi appunto....
—Lasciarli morire!!!... esclamò Joseph, arrestandosi e guardando l'amico con espressione di meraviglia.
—Lasciarli morire—rispose Franz pacatamente. Non ispetta il diritto di chiamarsi commerciante a chi, in presenza della speculazione, non sa dimenticare di esser uomo.
A questo punto, un sinistro rumore come di vento e di tuono fece ammutire i due viaggiatori.
Dopo un istante, Franz mandò un grido:
—La valanga! la valanga!
—Gettiamoci a sinistra! gridò Joseph a sua volta.
E tutti e due si diedero a correre verso un gruppo di roccie che, elevandosi a poca distanza dalla strada maestra, parevano offrire un baluardo contro l'impeto della massa ghiacciata. Poco dopo, all'immenso fragore successe un cupo silenzio—alla luce sottentrarono le tenebre—e i nostri viaggiatori si trovarono come sprofondati in una voragine.—Da una parte la roccia impraticabile, dall'altra una montagna di neve, e al disopra uno scarso lembo di cielo che[11] invano tentava proiettare, sui due sepolti, un riflesso de' suoi pallidi raggi.
Franz e Joseph rimasero per un istante come stupiditi dallo spavento.
—Non v'ha dubbio... siamo vivi! esclamò Joseph, rompendo per il primo il silenzio.
—Meglio esser morti,—rispose Franz cupamente. Se la valanga ci avesse schiacciati, tutto sarebbe finito... In quella vece avremo una lunga e dolorosa agonia di tre o quattro giorni.
—Non credi tu che i cantonieri si affretteranno a sgombrare la neve dalla via, ed a rimuovere l'intera valanga per iscoprire se vi siano delle vittime?
—Certamente; ma perchè coloro arrivino a diseppellirci, occorreranno non meno di sei o sette giorni,—e noi fra sei o sette giorni, saremo qui congelati dal freddo o stecchiti dalla fame. Ah! tu avevi ben ragione, mio ottimo Joseph...! A che mi valgono ora i miei cinquantamila franchi, radunati in America con tanto sudore.... con tanti sacrifizi? Tu almeno non avrai il rimorso di esserti privato di ogni cosa, quando eravamo in tempo di godercela... Ah! sono stato un grand'asino...!
—Via! non disperarti... esploriamo piuttosto, se ci vien fatto di scoprire qualche via di salvezza.... Chi sa? Forse, arrampicandoci su quegli scogli...
Joseph si avvide che al di là di un macigno si apriva una grotta.
Si inoltrò a tastoni. Avanzandosi, riconobbe che l'antro era spazioso e profondo... e poteva fornire un eccellente riparo contro i rigori del freddo.
Tornò sui propri passi—chiamò l'amico, e, ripreso da terra il suo sacco da viaggio—vieni! disse a Franz—dal gelo non si muore più.... Ho trovato una buona cameretta, dove tutti e due potremo alloggiare gratuitamente.... Le mobilie non si raccomandano per la loro eleganza, ma in compenso sono di una solidità a tutta prova.
I due amici si internarono nella grotta tenendosi per mano... Franz depose tristamente la sua valigia sopra un macigno, e vi si assise nell'attitudine disperata[12] di un delinquente che rientri nel carcere, dopo aver udita alle Assisie la sua sentenza di morte.
Se qualcuno in quelle tenebre fitte avesse potuto scorgere il volto di Joseph, certamente si sarebbe meravigliato della singolare espressione di gioia e di trionfo che brillava ne' suoi sguardi.
—Franz! mio buon Franz! sei tu già morto dalla paura?... Oh! voglio un po' vedere cos'è avvenuto di lui!
E così parlando, Joseph diè fuoco ad uno zolfanello, e, accesa una candela che aveva levata dal suo sacco, la piantò sovra un bel candelabro formato dalle stalagmiti nel fondo della grotta.
Nè le parole dell'amico, nè l'improvviso bagliore della luce valsero a riscuotere Franz dal suo letargico abbattimento.
—Povero amico! esclamò Joseph-senza quel cumulo di banconote che tieni rinchiuso nel portafogli, la disgrazia ti parrebbe forse men dura.... Eppure—chi lo sa?—a questo mondo è sempre bene l'esser provvisti di denaro.....
—Joseph! ruggì l'altro sordamente; risparmiami i tuoi motteggi... Noi siamo inesorabilmente condannati a morire... Domani... non più tardi di domani... la fame comincierà a travagliarci le viscere...
—Te fortunato! interuppe Joseph—tu non comincerai che domani a soffrire.... Io—vedi!—in forza della maledetta abitudine contratta fino dalla più tenera età, di cedere ad ogni menomo appetito di stomaco... io... già cominciò a sentire qua dentro un certo stiramento... un certo pizzicore...
Franz non dava più segno di vita. Il terrore aveva prodotto in quell'infelice una specie di letargo morboso... Egli giaceva rattrappito sulla sua valigia, colle braccia conserte alle gambe, col mento appoggiato alle ginocchia.... La sua fronte era livida, la bocca spalancata.
Joseph gli pose la mano sul cuore, e, sentendo che la pulsazione non era cessata, uscì dalla grotta, e si diede a passeggiare di gran lena nel breve spazio che gli era concesso.
Si vedeva, dalla contrazione della sua fronte, che egli stava dibattendo fra sè stesso qualche strano progetto.
Dopo un'ora, rientrò nella grotta. L'amico giaceva immobile nella posizione di prima. La candela era consunta per metà.
Si adagiò pacatamente presso un macigno che sporgeva dal terreno—distese sovr'esso a guisa di tovaglia un bianco fazzoletto, e, sciolto il nodo al suo sacco, ne trasse fuori un grosso involto di carta, e lo depose su quella mensa improvvisata.
Trascorsi due minuti, Franz cominciò ad agitarsi e a mormorare qualche parola appena intelligibile.—Poscia apri gli occhi.
—Santi del paradiso! non è dunque una visione? non è uno di quei sogni beffardi che si producono da un bisogno insoddisfatto....? Joseph! Mio buono.... mio ottimo amico... Tu stai mangiando, non è vero? Quello che tu hai d'innanzi...?
—Un bello... un grosso... un eccellente cappone che peserà quattro chili.... un cappone arrostito allo spiedo, che racchiude nel suo grembo un assortimento svariatissimo di castagne, di prugne, di pezzi di salsiccia e d'ogni ben di Dio...
—Un cappone di quattro chili....! un cappone ripieno!—gridò Franz alzandosi in piedi, e battendo le mani dall'allegrezza—ma noi siamo salvi!... Adagio, Joseph! Tu mangi con troppa furia.... Tu divori!.... Pensa che prima di cinque o sei giorni..... Ma, che vedo? Anche una ruota di pane comasco!
—Una ruota di pane comasco. Sicuro! disse Joseph, portando alla bocca una fetta che in quel punto aveva spiccata dal disco; tutta roba di cui mi ero provvisto per ammansare, rientrando al villaggio, le ire della moglie e dei parenti... Questo pollo, questo bel pane bianco, largo come una pietra da molino, erano destinati a mettere un argine alle maledizioni dei miei cari congiunti, al momento in cui avrebbero scoperto che io tornava ad essi dall'America senza la croce di un quattrino...!
—Ah! gridò Franz, levando gli occhi alla vôlta[14] della grotta—e poi vi hanno degli empi che osano negare la Provvidenza! L'inspirazione di comperare questa roba ti è venuta da Dio.
—Che Iddio sia mille volte benedetto! esclamò Joseph, biascicando una polpa di cappone. Con questo volatile, con questa ruota di pane, per sei o sette giorni la mia esistenza è assicurata!
Queste ultime parole colpirono profondamente l'animo di Franz. E, riflettendo che il compagno avea tardato fin là ad offrirgli di prender parte alla refezione, mille sospetti e terrori, di bel nuovo, lo investirono.
Joseph, senza badare all'amico, fece atto di ravvolgere nella carta i resti del cappone, e di volerli riporre nella valigia col pane sopravanzato.
Franz lo guardò fare per un istante—poi con voce commossa e coll'accento più amorevole e insinuante che per lui si potesse, gli parlò di tal guisa:
—Mio buono.... mio ottimo Joseph! No! io non sono tanto esigente da pretendere che tu mi offra di partecipare gratis alla piccola refezione, che potrebbe nelle attuali circostanze camparmi da una morte crudele. Io sono ricco... tu non possiedi che il tuo bel cappone arrostito e quest'ampia ruota di pane comasco a cui giustamente tu attribuisci un valore eccezionale.—Orbene: sentiamo! Io mi affido alla tua discrezione.—Quanto domandi per una coscia di pollo? quanto per una fetta di pane? Fammi un prezzo da amico... io sono disposto a comperare ed a pagare sul momento.
—Questo pollo, questo pane, rispose Joseph colla massima pacatezza, sono fuori di commercio. Calcolando a 7 giorni la nostra reclusione forzata, tu vedi, caro Franz, che qualora ti cedessi una parte di queste provvigioni, non farei che rischiare la mia vita, senza speranza di salvare la tua. Permetti dunque che io riponga questa roba.—Essa è destinata all'uso e consumo del mio individuo, nè io consentirei a privarmene, quand'anche tu mi offrissi tutto l'oro delle Indie. Ma via! sta di buon animo, caro Franz. Nel mio sacco c'è un'altro cappone, non meno bello[15] non meno grasso di quello che io riserbo alla mia mensa; c'è un'altra pagnotta comasca ancora intatta. Era appunto mia intenzione, tornando al paese, di aprire negozio di commestibili... Tanto fa che io cominci il mio traffico da questo momento... La bottega non è di lusso, ma in compenso l'affitto non costa nulla. Se gli affari andranno a seconda, ci metteremo più in grande. Questo macigno sarà il mio banco, questo sacco il ripostiglio delle merci, la mia cassa forte, il mio tutto. Non ti pare, caro Franz, che questa volta la mia impresa sia basata su quei principî di economia, che tu mi andavi predicando durante il viaggio?
Sul volto di Franz si disegnavano delle grinze spaventose. Quell'uomo tremava di indovinare... tremava di comprendere.
Frattanto, Joseph avea estratto dal sacco il cappone e la pagnotta, e dopo averli collocati in bella mostra sovra un sasso sporgente dal terreno, s'era messo a gridare allegramente: Avanti, signori! entrate nel restaurant americano! chi ha tempo non aspetti tempo! dejeuners... e pranzi alla forchetta al massimo buon mercato!
Franz fissava i commestibili con occhi da basilisco... Per qualche tempo egli non osò aprir bocca.
Alla fine, come uomo che si decide ad interrogare i misteri di un destino terribile, con voce concitata e cavernosa il povero affamato proruppe in queste parole:
—Eccole, signor trattore americano, un avventore che appetirebbe una coscia di pollo e una fetta di pane... Mi dica i suoi prezzi!
Joseph stette un istante sopra pensiero prima di rispondere. Indi, crollando la testa—mi spiace, disse a Franz, di non poter servire una persona così distinta e garbata. Nel nostro negozio non si usa vendere le merci in dettaglio.... Ella sa bene: pollo tagliato—pollo guastato, e così dica del pane. I compratori sono molto esigenti.... non vogliono saperne di avanzi... Il pane poi!... Si provi un poco ad esporre in mostra una pagnotta a cui manchi un morsello![16] Tanto basterebbe per togliere ogni credito al negozio.... Insomma...
—Insomma, interruppe Franz, ansioso di udire una volta la sentenza fatale; insomma, ella ha tutte le ragioni del mondo, signor trattore. Io dunque sono disposto, purchè nel prezzo si vada d'accordo....
—Oh quanto ai prezzi non la si dubiti... le faremo la maggior cortesia...
—Come dicevo, sarei disposto a comperare tutta intera la pagnotta, cedendo ad altri, più ghiotti o più ricchi di me, quel bellissimo pollo che davvero farebbe onore alla mensa di un principe.
—La signoria vostra non mi ha compreso, od io non mi sono spiegato bene, disse Joseph dopo un breve intervallo. Ella converrà meco, che, qualora io le cedessi il solo pane, il mio piccolo commercio ne sarebbe irreparabilmente pregiudicato. Una pagnotta può fare da sè, ciò è chiaro come il sole; ma il mio bel pollo arrostito perderebbe infinitamente del suo valore, se non mi fosse dato accompagnarlo con una razione competente di pane. Si presenta al mio banco un signore, un signore animato come lei dalle migliori disposizioni di stomaco... Il mio pollo gli fa gola... è disposto a pagarlo per quello che vale... Ma appena viene a sapere che nella mia bottega non c'è un tozzo di pane vendibile...
—Basta! basta!—replicò Franz colle sue note più rauche—quanto chiedi... per tutta la tua merce? Pondera bene la tua domanda, e bada che io sono uomo da lasciarmi morire di fame piuttosto che cedere a delle esorbitanze inumane e irragionevoli. Se è vero che in questa grotta non esiste altra bottega di commestibili fuori della tua, rifletti che difficilmente, quando io ti volgessi le spalle, tu troveresti qua dentro degli altri avventori.
—Non ti farò torto... sarai contento di me—riprese Joseph colla sua pacatezza sarcastica.—Alla fine dei conti, io vo debitore a te solo di quel poco di scienza economica, colla quale, aiutandomi Iddio, spero rifarmi in pochi mesi dei danni sofferti...
—Dunque! gridò Franz impazientito, questo prezzo...
—No! non intendo rovinarti...—Io mi limito a chiederti diecimila lire... per la pagnotta, e sono abbastanza discreto per cederti il pollo al prezzo di lire quarantamila—somma totale: cinquantamila lire.
—Era quello che mi attendeva! brontolò Franz, voltando le spalle al banco dei commestibili—ecco il frutto delle mie lezioni!
—Via! non vada in collera! si mostri ragionevole—insisteva Joseph colla sua flemma inesorabile.—Si provi a fare un giro sulla piazza. S'ella trova qualcuno che le offra i miei generi a prezzo più discreto, io sono pronto a regalarglieli senza esigere un quattrino.
—Fine alla commedia! gridò Franz al colmo dell'ira—se io ti ho insegnato che il profittare delle occasioni è sapienza da commerciante, saprò anche mostrarti che l'abuso conduce a rovina.
Joseph si levò dai taschini un piccolo oriuolo d'argento, e, dopo averlo consultato—è ora di chiuder bottega, disse sbadatamente—riponiamo le nostre merci... e vediamo di prender sonno.—Quanto a te, mio ottimo amico, profitta del lume per sceglierti il tuo letto—fra poco la candela sarà consunta, e fino a domani io non farò altre spese di illuminazione.
—Joseph!... mio amico.. mio compagno di infanzia...—esclamò Franz, raddolcendo la voce—dovrò io credere che il tuo cuore sia tanto indurito!
—Un mio ottimo amico e maestro mi ha insegnato, che in presenza della speculazione debbono sparire tutti i sentimenti e gli affetti... Buon riposo, Franz!.. La notte porta consiglio, e forse domattina sul fresco apprezzerai meglio la mia discrezione e i tuoi interessi.
Ciò detto, Joseph si fece guanciale del sacco dove eran chiuse le sue provvigioni, e, ravvoltosi nell'ampio cappotto, soffiò sulla candela.
Franz si gettò boccone per terra. Di là a pochi istanti sì l'uno che l'altro presero sonno.
Ma quello di Franz era piuttosto un letargo febbrile, anzichè un sonno benefico e riparatore. La respirazione affannosa, i gemiti, i grugniti, e più che altro[18] le tronche parole lanciate nel buio, rivelavano le crudeli visioni di quello spirito travagliato.
Un poeta, non so quale, chiamò i sogni
Immagini del dì guaste e corrotte...
ma i sogni del povero Franz, piuttosto che immagini guaste, rappresentavano degli appetiti insoddisfatti.
Le parole che più spesso gli uscivano dalla gola erano; maccheroni! polpette! frittura mista! stufato! fesa di vitello! A giudicarne da quei spasmodici accenti, avresti detto che il povero dormiente stesse sfogliando, sotto l'incubo della fame divoratrice, una edizione del Cuoco piemontese o della Serva cuciniera.
Come un poco di raggio si fu messo nella grotta, Joseph si levò sui gomiti—accese spietatamente una candela, e, strappata un'ala dal suo pollo, si fece a mangiare del miglior appetito. Franz aperse gli occhi—vide—si fece livido...
Suo primo istinto fu quello di avventarsi al cappone che stava in mostra sul banco... Ma oltrechè Joseph era dotato di atletiche forze, e vi era pericolo a lottare con lui, Franz, dal suo lato, non era uomo da sorpassare a quei principii di giustizia e di onestà che formavano, malgrado la inflessibilità del suo genio commerciale, le basi del suo carattere.
I suoi occhi dilatati divoravano il cappone. Poi si chiusero—poi di nuovo si apersero... Alla fine, il povero affamato balzò in piedi, e gridò con eroica disperazione:
—Venticinque mila lire—la metà del mio avere per quella roba!
—No! rispose Joseph, addentando la polpa del volatile—nessuna transazione è possibile—i miei generi hanno subìto un non lieve rialzo durante la notte, e tu stesso me ne dai prova—in verità, sarebbe strano che consentissi ad un ribasso... Il mio ottimo maestro ed amico Franz avrebbe ragione di ripetermi, più tardi, che io sono un cattivo commerciante, il quale non sa approfittare delle occasioni... Il mio[19] prezzo rimarrà stazionario—Cinquanta mila lire, nè più nè meno.
Franz uscì dalla grotta per sottrarsi alla vista ed alle esalazioni del cappone tentatore.
Joseph gli tenne dietro.
—Tu mi vedrai morire! gli disse l'altro con voce già fioca e rantolosa.—E forse egli contava sui buoni istinti del suo compagno di emigrazione, e sperava intenerirlo.
—Morire! esclamò Joseph—ma sai tu che faresti un cattivo affare! No... un negoziante par tuo non sarà mai per commettere un tale sproposito! Non vedi tu, che morire significa perdere i cinquantamila franchi e con essi la vita?
Franz si avviò barcollando alla grotta, si raccolse nel cappotto, e si sdraiò sul terreno-Joseph gli tenne dietro per sorvegliare le sue merci.
Per tutta la giornata Franz non si mosse—tratto tratto egli esalava qualche gemito affannoso che voleva imitare il rantolo della morte.
Pur troppo, il cuore d'Joseph era pietrificato dal calcolo. In sul far della sera, dopo essersi divorata con infernale compiacenza una bella coscia di cappone, egli fece l'atto di riporre nel sacco le sue mercanzie...
—Ferma! gridò Franz, balzando in piedi e stendendo le braccia, che in quel momento somigliavano alle zampe della pantera affamata.. Sei tu ancora disposto a vendermi quella roba per cinquantamila franchi?
—Mercato concluso! rispose Joseph.
—Eccoti il portafogli—a me il cappone e la pagnotta....!
—Un momento!...
Joseph si fece a numerare lentamente i biglietti di banco, e trovata le somma completa, dopo aver consegnata la merce, intascò il portafogli in aria di trionfo.
Ma la gioia di Joseph non durò a lungo.
Perchè mai, dopo due giorni di digiuno, l'amico indugia tanto a spezzare il suo pane, ed a mettersi in bocca qualche frammento del grosso volatile?
A tale pensiero, abbassando istintivamente lo[20] sguardo sulle proprie imbandigioni, Joseph con sorpresa e terrore si avvide che del suo bel pollo quasi più non gli rimaneva che il carcame... La pagnotta aveva presa la forma di un quarto di luna.
Frattanto l'amico aveva spiccata la testa al cappone, e dopo aver rinchiuso il restante nella valigia, andava suggendo le cervella e rosicchiando lentamente le ossa del cranio, come un epulone già sazio che si diverta coi residui obliati.
La situazione dei due reclusi era molto cangiata, e Joseph non tardò molto a comprenderlo.
—Se vuoi spegnere il lume... disse Franz.
—Ma ti pare?—rispose Joseph col labbro serrato. Fino a quando tu non abbia finito il tuo pranzo...
—Il mio pranzo è finito, disse l'altro, tritolando fra i denti il becco del pollastro—ora si può dormire.
Joseph soffiò sulla candela, e si rannicchiò nel suo covo in preda ai più foschi pensieri.—In verità la sua situazione, malgrado i cinquantamila franchi intascati, era divenuta assai buia.
All'indomani, verso l'alba, i due colleghi facevano colazione. Franz macinava flemmaticamente coi denti il collo del volatile.—Joseph, abbandonandosi al suo fiero appetito, consumava gli ultimi avanzi della pagnotta... Non gli restavano, pel pranzo, che le ossa spolpate del carcame.
Trascorsero parecchie ore... Franz non abbandonava il suo posto, non profferiva parola, non si permetteva il più leggero movimento. Obbedendo ai dettati della scienza, egli si guardava da qualunque atto potesse alterare l'economia della sua vitalità. Egli sapeva troppo bene che l'inerzia e il silenzio ammortiscono l'appetito.
Sul far della sera, il suo orecchio fu colpito da uno strano rumore. Rabbrividì—sorse in piedi...
—Oh! sta a vedere, che gli zappatori arrivano in mal punto a guastare i miei calcoli!
—Così parlando uscì dalla grotta per esplorare...
Era il povero Joseph che si apprestava l'ultimo pranzo, macinando fra due pietre il carcame del pollastro...
A quella vista gli occhi di Franz sfavillarono.
Poco dopo, Joseph rientrò nella grotta, e avvolgendosi nel cappotto, non potè reprimere un accento di desolazione:
—Tutto è finito!
—Ed io ne ho per dieci giorni! rispose dall'antro opposto una voce lugubre.
Joseph portò la mano al portafogli, e lo serrò presso al cuore, come una madre stringerebbe un figliuolo minacciato.
Quella notte fu lunga e travagliata per entrambi.
—Se domani è abbattuta la valanga, il mio tesoro è salvato!—pensava Joseph tra i fremiti del terrore.
—Se gli zappatori, calcolava l'altro fra gli spasimi, tardano due giorni a liberarci, le mie cinquantamila lire sono redente!
La notte trascorse—venne il mattino—una eterna giornata di digiuno torturò le viscere del povero Joseph—e la grotta non si aperse. Nessuna oscillazione della neve, nessun rumore lontano che annunziasse l'approssimarsi dei liberatori.
Joseph rientrò disperato nella grotta, e, prima di coricarsi, si lasciò sfuggire la parola fatale:—ho fame!
—Ed io n'ho d'avanzo!—rispose dall'antro opposto la solita voce—posso servirti?
—Mi rimetto... alla tua discrezione.
—Diecimila lire per un quarto di pagnotta e quaranta mila lire per una coscia di pollo-totale: lire cinquantamila.
—No... usuraio!... no, assassino! gridò Joseph dal suo covo.
—Joseph! in commercio si fanno dei prezzi e delle transazioni... ma io ti ho insegnato, col mio esempio, a risparmiare le ingiurie.—Calmati—rifletti—io ti do tempo fino a domani.
Joseph non disse più parola, e si accovacciò come un leone in febbre.
Verso mezzanotte, Franz uscì dalla grotta per le sue esplorazioni. Tese l'orecchio.... Gli parve udire fra le tenebre dei suoni indistinti... La massa della neve tratto tratto oscillava...
—Ohimè! gli zappatori si avvicinano.... Io sono perduto!...
Rientrò affannato nella grotta... Poche ore gli rimanevano per ricuperare il suo capitale...
Accese un moccolo—trasse dalla valigia i commestibili, e, schieratili in bella mostra sovra un macigno, si pose a mangiare...
Joseph si levò... I suoi occhi, tutti i suoi sensi parvero affascinati... Egli afferrò con una mano la coscia del cappone, coll'altra mano gettò il portafogli ai piedi di Franz. Fu una scena muta—un vero quadro coreografico della grande epoca Catte-Ghedini.
E Joseph non aveva ancora terminato il suo pasto—e Franz finiva appena di numerare i suoi biglietti di banco, che un suono di voci e di ferrei stromenti riscosse gli echi della grotta.
—Ah! gridò Franz accorrendo.—ecco i nostri liberatori!.... vieni, Joseph! La valanga è spezzata.... che Iddio sia benedetto!
Joseph, con un tozzo di pane nella destra e un osso di cappone nella sinistra, si affacciò alla imboccatura dello speco. A vederlo, pareva inebetito.
I due colleghi riprendevano poco dopo il sentiero della montagna.
All'ingresso del villaggio, sul punto di separarsi:
—Spero bene che tu non mi serberai rancore per ciò che è passato, disse Franz al compagno.
—No... abbiamo agito tutti e due da perfetti commercianti... La sorte ha voluto favorirti...
—Permetti che io te lo dica francamente, soggiunse Franz: tu hai commesso anche questa volta degli sbagli finanziari... Per essere perfetto commerciante. non basta profittare delle occasioni e saper rincarire a tempo le proprie merci: bisogna anche avere dell'ordine e dell'economia. Se tu non avessi divorato in due giorni il tuo cappone e la tua pagnotta, oggi saresti padrone delle cinquantamila lire.
—Che Dio te le converta in reumatismi! soggiunse Joseph a bassa voce.
E su questo si salutarono.
Ho passato otto giorni a Tartavalle. (Nessuno dei miei duemila lettori ignora, che a Tartavalle v'è una fonte di acque ferruginose, intorno alla quale si adunano nel luglio e nell'agosto i sedicenti malati e gli ipocondriaci delle nostre provincie).
Non temete. Io non intendo descrivervi il luogo, nè magnificarvi la bontà delle acque, nè darvi l'elenco di tutte le donne isteriche, di tutti gli originali che quest'anno ho veduto agglomerarsi nella piccola valle. Ad altri cedo pure l'incarico di riprodurre i pettegolezzi e gli aneddoti più o meno esilaranti della stagione. A' miei lettori, poco amanti di ciò che è comune, io riserbo la primizia di una novella, che ebbi la fortuna di raccogliere io stesso ad un banchetto di amici, venuti sul luogo per cercarvi l'oblio di non so quali noie della loro esistenza domestica.
Tre amici dell'epoca più avventurosa—un poeta. un ingegnere ed un medico—amici già quasi dimenticati, sebbene a Milano, dal 1846 al 1854, avessero diviso le vivaci peripezie della mia matta giovinezza.
Da quindici anni non ci eravamo più veduti—e quando il caso mi condusse presso il tavolino, ov'essi stavano pranzando, avvenne una di quelle esplosioni di meraviglia e di gioia che d'un tratto sembrano ringiovanirci.
Quella esplosione cominciò naturalmente con una scarica di nomi e cognomi.
—Antonio!.... Eugenio!.... Lamberti!.... Rambaldi!....
E tutti, per alcun tempo, ristemmo sulla punta dei piedi, e le nostre braccia si incrociarono in una stretta amichevole al di sopra di un cappone fumante, il quale pareva attonito di vedersi così presto negletto, dopo l'accoglimento festoso che gli amici gli avevano fatto al suo primo apparire.
Per ammorzare questi subitanei entusiasmi dell'amicizia non ci vuole gran che. Basta talvolta una parola, un monosillabo inaspettato, qualche cosa che riveli un tratto ignorato e poco piacevole delle rispettive biografie.
Il primo a lasciarsi sfuggire una di queste esclamazioni deprimenti fu l'amico Lamberti.
Quand'egli, con un accento che nessuna musica potrebbe tradurre, ebbe profferita questa parola così semplice e complicata ad un tempo: «ammogliato!» tutti i volti parvero allungarsi, tutte le mani intrecciate dall'entusiasmo si allentarono. Ciascuno ricadde Sulla propria seggiola, e gli sguardi si ritorsero mestamente al cappone obliato.
In quella comitiva, che altre volte aveva rappresentato a Milano la schiuma degli scapigliati, non v'era alcuno che potesse vantarsi di aver resistito al contagio. Tutti eravamo ammogliati.
Io sedetti alla piccola mensa; e poichè le vivande e un eccellente vino di Valtellina ci ebbero alquanto rianimati, l'amico Lamberti si levò in piedi nuovamente, e, alzando il bicchiere al di sopra delle teste, si fece a gridare: Evviva le nostre mogli! evviva il matrimonio!—Fu un lampo. Subito dopo, il povero Lamberti ripiombava sulla seggiola come affranto da uno sforzo sovrumano.
*
* *
Era omai tempo di abbordare francamente la quistione.[25] Ciascuno sentiva il bisogno di spiegarsi, o piuttosto di giustificarsi dinanzi a quel piccolo tribunale di amici.
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* *
Per comprendere il nostro imbarazzo, è d'uopo sapere che, tanto io come quei tre amici della sventata giovinezza, avevamo professato, in altri tempi, delle teorie così avverse al matrimonio, da ritenerlo un delitto contro natura. A quell'epoca, un marito rappresentava per noi l'animale più ridicolo della creazione. L'amico Eugenio, il poeta, aveva scritto in odio del matrimonio una dozzina di satire e un volume di epigrammi. Molte volte, nei nostri spensierati ritrovi, era stato proclamato che il primo di noi il quale avesse ceduto al volgare appetito di ammogliarsi, verrebbe ritenuto un apostata, e come tale, messo al bando dalla società. Avverandosi l'incredibile fatto, gli amici si riterrebbero sciolti da ogni riguardo verso il povero delinquente. Ciascuno si sarebbe adoperato ad infliggergli quel castigo, che suol essere, quando le mogli si prestino all'uopo, la punizione ordinaria di tali delitti.
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Meno male che il delitto era stato commesso da tutti. Noi ci trovavamo nell'identica situazione di quelle brave pétroleuses della Galilea a cui Cristo avrebbe permesso di lanciare la prima pietra. Riconoscendoci tutti colpevoli, era dunque naturale che, superata quella prima fase di turbamento e di vergogna, alla fine, noi prendessimo il partito di ridere.
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Eugenio fu il primo a dare l'esempio: «Degeneri colleghi della mia giovinezza, riprese l'amico coll'enfasi de' suoi begli anni; a che serve guardarci l'un l'altro con questa ebete espressione di stupore e di[26] vergogna? Anni sono, noi eravamo sommersi nelle utopie. Noi ci illudevamo di essere più forti e più scaltri che la comune degli uomini. Oggi dobbiamo confessare che tutti gli individui della specie umana sono uguali in faccia... alla donna. Perchè le nostre utopie avessero a realizzarsi, conveniva seguire un altro cammino. Il nostro massimo torto fu quello di illuderci che avremmo potuto sottrarci alla moglie, seguendo, come sempre abbiamo fatto, le orme della donna. Ora, chi segue la donna, o tosto o tardi deve inevitabilmente cadere nella moglie.—Evidentemente, fra le nostre teorie anticoniugali e le nostre aspirazioni di istinto, c'era una contraddizione ed una lotta. Noi ci eravamo collocati in una situazione assurda, dalla quale non era possibile uscire, se non a patto di rinunziare alle più dolci emozioni della vita. Rileviamo le nostre fronti avvilite! Guardiamoci in faccia l'un l'altro colla franchezza dell'uomo intemerato. Nessuno di noi ha da vergognarsi di aver tradito un principio. Noi abbiamo costantemente protestato e reagito. La nostra sconfitta non provenne da debolezza e da viltà, ma soltanto da un errore strategico. Che ve ne pare? non ho ragione?...
—Se ci fossimo attenuti, riprese cupamente il Rambaldi, alla savia massima di non fare la corte che alle donne maritate, a me sembra che, senza rinunziare alle più dolci emozioni della vita, non ci troveremmo oggi tutti quanti al duro passo di dover giustificare le nostre transazioni... Grazie alle provvide leggi dei nostri padri, una donna non può avere due mariti—chi dunque ama le donne degli altri, segue la strada più sicura e più comoda per iscansare il precipizio.
—E se io vi dicessi, interruppe Eugenio vivamente, se io vi dicessi che fu appunto questa falsa massima che mi ha trascinato alla perdizione, e che io non sarei forse mai precipitato negli abissi del matrimonio, se non avessi ceduto al peccaminoso desiderio di assaggiare la donna d'un altro!
—In verità, la dev'essere una istoria curiosa e bizzarra, dissi all'amico.
Nè più nè meno della vostra; e se tutti ci facessimo a riannodare le fila di questa trama capricciosa dove nostro malgrado ci troviamo impigliati, ne uscirebbero indubbiamente delle assai bizzarre novelle.
—Vogliamo provarci?...
—Agli ordini vostri, rispose Eugenio—e purchè tutti promettiate l'uguale sincerità, io sarò il primo a darvi l'esempio.
—Sta bene.
E l'amico Eugenio si fece senz'altro a raccontarci la sua istoria.
*
* *
«—Or fanno quindici anni, allorquando il mio cattivo genio mi diè la prima spinta su questa maledetta carriera delle lettere, dove non ho raccolto che malanni, io versava nelle più gravi strettezze. I primi prodotti del mio genio mi venivano pagati a cinque lire per ogni foglio di stampa—i miei guadagni non sorpassavano le ottanta lire al mese.
Io abitava una stanzetta più vicina al cielo che alla terra.
Un bel mattino, sento bussare alla porta. Nessun altro fuorchè un creditore avrebbe osato salire a tanta altezza.—Avanti!—A quell'epoca i creditori non mi facevano paura; mi rendeva forte, al loro cospetto, la certezza di non avere con che pagarli.
Sventuratamente, quella mattina non si trattava d'un creditore. Era il primo anello della grande catena conjugale che veniva ad introdursi nel mio libero domicilio, sotto le sembianze di un idiota.
Appena io mi ricordava d'aver veduto una o due volte quel fatale personaggio. Bel giovine, del resto, tutto profumato e azzimato—uno di quei figuri a cui il mal di fegato o qualche altro vizio degli intestini suol dipingere il volto di quel pallore, che alcune donne sogliono chiamare la vernice del sentimento. La sua bruna capigliatura stillante di cosmetici, l'occhio grande ed incavato, il languore del collo, il cascante abbandono della persona, davano a lui[28] una cert'aria di genio sventurato che, a vederlo da lunge, lo rendeva interessante. Vi ho già detto alla prima presentazione che egli era un idiota, ed ora credo bene ripetervelo, perchè non vi facciate sul di lui conto alcuna illusione.
—A che debbo il piacere... l'onore.
Il mio visitatore stralunò gli occhi, e sorrise, stendendomi la mano in atto di cordiale benevolenza.
Poi, innanzi di profferire parola, si tolse dalle tasche un portafogli, ne levò fuori un pajo di lettere profumate, e, dopo averle guardate senza aprirle con una espressione di compiacenza misteriosa che attirava alla superficie del suo volto tutto l'ebetismo del suo cervello, finalmente sciolse la favella:
—Ella deve sapere.... cioè a dire.... che essendo noi tutti giovani..... cioè a dire..... che siccome vi hanno delle donne... e siccome tutte le relazioni cominciano per via della via....»
E, proseguendo su questo tono per un buon quarto d'ora, egli riuscì a farmi capire come ei fosse innamorato d'una bella ed elegante signora, la quale dopo molte dimostrazioni di indifferenza e di ritrosia, si era alla fine lasciata sedurre a rispondere alle sue lettere. E parendogli che quelle lettere fossero scritte con una eleganza di stile ed una elevatezza di idee non comune, aveva pensato di rivolgersi a me, perchè lo aiutassi nel suo epistolario, dettandogli delle risposte commoventi, infuocate, irresistibili, mercè le quali egli si teneva sicuro di vincere in breve tempo le esitanze dell'angelo adorato. Nella mia qualità di segretario amoroso, io avrei percepito il vistoso emolumento di lire quattro per ciascuna lettera. Il proprietario d'un foglio teatrale, dove a quell'epoca io faceva le mie prime armi nella critica, non mi dava tanto per una appendice di dieci colonne.
La strana proposta eccitava in sommo grado la mia curiosità. Quell'epistolario aveva per me tutte le attrattive di un romanzo; e, siccome le due lettere dell'incognita dama rivelavano propositi di virtù e di resistenza ad ogni costo, io mi sentiva piccato da un satanico desiderio di misurare con quella fiera[29] ed appassionata Penelope la forza del mio stile e la efficacia del mio lirismo amoroso.
Accettato l'incarico, mi diedi subito all'opera. Il mio cliente si assise allo scrittoio; ed io gli dettai una lettera di quattro pagine, così esuberante di passione, così gonfia di ampolle, che l'altro tratto tratto balzava dalla seggiola come scosso dall'elettrico.
«Buona!.... sanguinosa!.... assassina!» esclamava il giovane ad ogni frase che io andava dettando. E quando veniva in campo una parola poco usitata e non compresa da lui, in luogo di chiedermi una spiegazione, portava la mano al cuore, o sbuffava un grosso sospiro che assomigliava a un grugnito.
La mia prima lettera era una confutazione di quelle venerande teorie di fedeltà coniugale, che noi non cessiamo di chiamare assurde fino al giorno in cui, impigliati dal matrimonio, comprendiamo il pericolo di professarle e di propagarle—era una tremenda requisitoria contro i mariti, la quale si chiudeva con un inno alla libertà ed alla assoluta indipendenza della donna, degno d'un comunalista.
Non è a dire con quale compiacenza, dopo aver letto e riletto quel mio squarcio di eloquenza, l'amico si fece a delinearvi la propria firma. Per conquistare i favori del bel sesso, oltre alle attrattive di un volto fiammingo, la fortuna aveva dato a colui un nome ed un cognome de' più interessanti.
Egli si chiamava Arturo della Valle. Pensate se una donna di immaginazione un po' viva avrebbe potuto resistergli!
*
* *
La risposta della signora non si fece attendere a lungo, Di là a due giorni, il bell'Arturo tornò alla mia camera con un foglio color di rosa nella mano e il volto irradiato dalla gioia.
Nello scorrere lo scritto provai un leggero fremito d'orgoglio. La mia eloquenza aveva prodotto il massimo effetto. La signora confessava che le mie parole[30] le avevano suscitata nel cuore una tempesta. La sua fede era scossa; i suoi propositi di virtù e di resistenza più non rappresentavano che una figura rettorica. Si dichiarava infelice come la Teresa dell'Ortis, come tutte le Terese che amano debolmente il loro consorte legittimo. Pregava l'amico di obbliarla, e dopo alcune linee invocava la sua protezione, confidava di trovare in lui un alleato nella lotta a cui andava incontro. A sua volta protestava contro la tirannide delle leggi sociali, deplorava la schiavitù della donna, ma al tempo stesso si riteneva colpevole per non aver opposta una più energica resistenza al sentimento che l'aveva dominata. «Scriviamoci, diceva essa, scriviamoci sovente: procuriamo di fortificarci e di animarci l'un l'altro alla dura battaglia che siamo chiamati a combattere... Io conto sulla tua alleanza come su quella di Dio... Mostriamo di saper soffrire, e il nostro amore diverrà una religione, nè potrà mai aver fine.»
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* *
Il bell'Arturo, quantunque idiota, comprendeva che quella lettera era promessa di un prossimo trionfo.
E frattanto il mio cuore era in preda alla più viva commozione.
Rare volte mi era accaduto di dover ammirare in uno scritto di donna tanta vivezza di immagini, tanta castigatezza ed eleganza di stile. Quella lettera avrebbe portato con onore la firma della Donna Gentile, e figurato superbamente nell'epistolario di Foscolo.
Io mi sentiva piccato di emulazione; e, quantunque si trattasse di causa non mia, e provassi una certa ripugnanza nel prestare il mio ingegno alla perdizione d'una donna di spirito ed al trionfo d'un imbecille, pure la novità del caso e quella certa compiacenza satanica che tutti proviamo nel veder svilupparsi uno scandalo, mi ispirarono una seconda lettera non meno eloquente della prima, e forse più calda e appassionata.
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* *
Non intendo descrivervi tutte le fasi di quell'epistolario. Vi basti sapere che, fosse effetto della mia eloquenza, fosse prepotenza naturale di simpatie, al quinto carteggio la signora promise un abboccamento.
Il convegno della coppia avventurata doveva aver luogo sul bastione fra porta Renza e porta Tosa, alle sei del mattino.
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* *
Difficile mi sarebbe esprimere ciò che io provai, all'avvicinarsi della catastrofe. Il mio turbamento era tale, che io non poteva a meno di chiedere a me stesso, se qualche cosa di somigliante all'amore si fosse impossessato di me. Nel mirare la gioia del bell'Arturo, nell'udire le sue esclamazioni grottesche, io sentiva uno spasimo non mai provato.
Io non poteva darmi pace all'idea che quello stupido animale fosse predestinato al possesso di una donna, ch'egli più volte mi aveva dipinta quale un angelo di bellezza e che io, attraverso le grazie seducenti del suo epistolario, aveva tanto ammirata. Io cominciai a sentire il rimorso della mia complicità. Il desiderio di impedire quel colloquio pareva a me suggerito dagli impulsi della gelosia.—Era io dunque innamorato? Questa domanda mi affannava e mi irritava. E quando io mi studiava di volgerla in celia, sentiva che i miei sforzi erano vani. Che non avrei tentato per mandare a vuoto quell'abboccamento, per rompere le fila di una trama da cui potevano derivare mille calamità ad una donna tanto simpatica per elevatezza di spirito e squisitezza di sentimento? Essendo in mio potere il salvarla, mi pareva di commettere un delitto assistendo con tanta indifferenza al pericolo che io vedeva sovrastarle, e cooperando io stesso alla sua perdizione.
*
* *
Tali presso a poco erano i miei pensieri nei due giorni che precedettero l'abboccamento. E forse io avrei subito ceduto alla tentazione di giuocare un mal tiro all'amico, se non mi fosse balenata alla mente la speranza che quel colloquio potesse riuscirgli fatale.
—Come mai, pensava io, potrà ella, una donna di animo sì delicato e sensibile, una donna sì colta e gentile, non avvedersi, al primo ricambio di parole, d'aver a fare con un bruto? Ed io mi figurava lo stupore di lei nello intendere le frasi sconnesse, le gagliofferie, gli idiotismi di quel melenso adoratore, il quale nelle sue lettere si era mostrato (perdonate la modestia) così poetico e commovente. Non era a prevedersi che l'incanto sarebbe sparito? che l'ardore suscitato dalla mia eloquenza si sarebbe spento alle prime parole profferite da colui?... che colpita di sorpresa e di stupore, la signora avrebbe scandagliato d'uno sguardo intelligente e profondo la fisonomia del suo adoratore, e sotto la epidermide del gentiluomo discoperto il cretino?...
*
* *
Le mie previsioni quasi in tutto si avverarono. Due giorni dopo quell'abboccamento, il Della Valle ricevette della signora una lettera dalla quale io potei scorgere un regresso di passione. Ella tornava da capo a parlare di sacri doveri, di rimorsi, di pentimenti, di pericoli. Si mostrava risoluta nel proposito di non accondiscendere più mai ad un convegno che avrebbe potuto comprometterla in faccia al mondo ed al marito, precipitarla in un abisso di sventure. Nuovamente implorava le armi a combattere una passione che poteva trascinarla alla colpa. «Vediamoci da lontano, diceva ella; parliamoci a mezzo dello scritto, dove il sentimento suole purificarsi e poetizarsi in una forma di linguaggio più castigata[33] e più adorna. Vuoi che io ti dica tutto l'animo mio? Stringendo la tua mano, respirando la tua parola, ho sentito d'aver a fare con un uomo, leggendo le tue lettere io gustava l'ineffabile illusione di essere amata da un angelo.»
—Che razza di discorsi hai tu rivolti a quella povera signora? domandai al mio ebete cliente, con piglio fra il brusco ed il faceto.
—A dire la verità non saprei nemmen io.... siccome per via della via... e siccome per venir presto al comprendonio... parendomi che anche lei, ecc., ecc.
—Capisco, capisco... Se questo fu il tuo modo di esprimerti, immagino che il colloquio non sarà andato per le lunghe...
E l'altro, vedendomi ridere, mi guardava e rideva a sua volta, colla espressione più franca dell'imbecille.
*
* *
La lettera della signora, soprattutto quelle adorabili parole—io poteva illudermi di essere amata da un angelo—mi infiammarono la fantasia. Mi pareva che i raggi di quell'amore, deviando dal punto a cui erano diretti, anelassero ad una meta ignorata; che mentre, per effetto di una strana illusione ottica, quella donna credeva di amare il signor Arturo Della-Valle, il di lei cuore fosse invece attratto verso un altro ideale, verso colui che sapeva parlarle il linguaggio del sentimento e della poesia.
—Bisogna che io conosca... che io veda questa donna! Tale fu il pensiero che mi spinse a riprendere l'epistolario, e ad impetrare un secondo abboccamento.
E questo pensiero mascherava una determinazione colpevole, indegna, lo confesso, di un uomo leale, ma che allora, sotto gli impulsi della passione, mi pareva onestissima. Io era determinato a presentarmi in luogo di Arturo a quella donna, e rivelandole il vero autore delle lettere che tanto l'avevano impressionata[34] e ammaliata, domandarle.... Che cosa?.... Io stesso lo ignorava.... In quella crisi di eccitamento appassionato, io non poteva prevedere lo scioglimento del dramma... Ma quand'anche la catastrofe non mi avesse promesso altro risultato fuor quello di troncare un equivoco mostruoso, di risparmiare ad una bella e amabile donna la vergogna di soccombere ad un fatuo, io non avrei indietreggiato nell'impresa.
La mia mente era in preda alla esaltazione; io non vedeva ciò che vi era di indelicato e di sleale nel mio modo di agire. Mi posi dunque all'opera con ardore—meditai per bene il mio piano strategico, e senza preoccuparmi dell'avvenire, corsi direttamente alla mia meta.
*
* *
La corrispondenza epistolare fu ripresa alacremente, ed io perorai tanto bene per ottenere un secondo abboccamento, che dopo lo scambio di una decina di lettere, la signora accondiscese. Il luogo fissato pel ritrovo fu una stradicciuola nelle vicinanze del Conservatorio di musica, dove a certe ore del giorno non si incontra anima viva. La situazione era stata scelta da me, ed era quella che meglio si addiceva alla effettuazione del mio piano strategico. Io mi era prefisso di collocarmi sovra un'altura del bastione, dalla quale avrei potuto spiare le mosse dei due innamorati. Al momento della separazione, come avviene sempre in tali casi, i due amanti si sarebbero allontanati per opposto cammino.—Dalle alture, ove io contava stabilire il mio quartiere di osservazione, nulla più facile che piombare improvvisamente alle spalle della signora, seguirla, investirla, agguantarla... e, profittando della sua sorpresa, del suo turbamento, indurla, buono o malgrado, a porgermi orecchio. Voi sapete quanto io fossi sventato a quell'epoca, e con quale spensieratezza io corressi alle avventure di amore. Felici tempi della irriflessione e degli improvvidi ardimenti! Non vi[35] scandolezzate, o miei ottimi amici, se mi permetto di rimpiangere quelle deliziose follie. Il matrimonio ci ha tramutati—noi apparteniamo oggimai alla classe rispettabile degli uomini morali, degli uomini di polso—noi occupiamo ciò che suol chiamarsi una posizione sociale, e il mondo, che prima del nostro matrimonio ci guardava con diffidenza e disprezzo, oggi comincia ad accordarci la sua stima, ad accoglierci con rispetto e venerazione... Ma pure, se in un lucido intervallo di antica gaiezza, noi gettiamo uno sguardo al passato per raffrontarlo al presente, difficilmente riusciamo a comprimere un sospiro all'indirizzo degli anni vissuti. Chi ci ridona la sventatezza dei nostri anni giovanili? Il mondo ci chiamava scapestrati, vagabondi, gente da nulla... E infatti, noi commettevamo, ridendo, piangendo qualche volta, delle enormi follie, riprovate dalle leggi e dalla sana morale... È vero—la nostra condotta non era regolare; confessiamolo francamente, non era sempre onestissima... Ma i nostri peccati erano frutto di quella santa inscienza del bene e del male, che costituiva, nel paradiso terrestre, la felicità dei nostri primi parenti—peccati che non lasciano rimorsi nè dolori, e la cui ricordanza, anche al presente, non può destarci nell'anima veruna amarezza, quando non la accompagni il rammarico di qualche omissione...
Amici: perdonate questo sfogo—prima di riprendere la mia storia, vi prometto che sarà l'ultimo.
Era un bel mattino... di primavera, già s'intende... Seduto sovra una panchetta di granito, io dominava le viuzze sottoposte—una siepe di robinie proteggeva il mio agguato.—Allo scoccare delle sei, il mio Arturo, colle mani in saccoccia e la testa ondeggiante, si introdusse nella piccola via, dove subito venne raggiunto da una donna semplicemente vestita, col capo ravvolto in un velo.
Il Della Valle si arrestò, trasse la mano di tasca e fece l'atto di stenderla alla donna; poi, arretrò di due passi come istupidito, e poichè la signora ebbe scambiato quattro parole con lui, si allontanò a passo lento, e disparve.
Il colloquio era stato tanto breve e la separazione così pronta ed inaspettata, che per poco il mio piano rischiò di andare a vuoto. Fortunatamente la signora prese la via del bastione: onde io, riavutomi dalla sorpresa, le mossi incontro, e, sbarrandole audacemente il cammino, la investii di tal guisa:
—Signora Amalia... perdonate...
—A chi ho l'onore di parlare? chiese la signora con voce pacata, arrestandosi a me dinanzi, senza dar segno di turbamento o di dispetto.
Quel contegno nobilmente disinvolto impose per un istante alla mia arditezza. Ma io mi accorgeva di trovarmi in una falsa posizione; se la mia esitazione fosse durata più a lungo, avrei fatto una ridicola figura, mi sarei irremissibilmente perduto.
—Ah! voi siete ben dessa!—esclamai dunque con voce commossa, ma coll'accento del più sentito entusiasmo—l'ideale della donna di spirito... l'incarnazione della poesia e dell'amore...
—Signore, mi interruppe ella con accento dignitoso ed amabile ad un tempo—io vi ho pregato di dirmi a chi ho l'onore di trovarmi dinanzi, e voi mi gettate in viso dei complimenti che appena sarebbero tollerabili se partissero da un amico.
—Gli è che io, ripresi con enfasi, sono propriamente un vostro leale amico. Noi ci conosciamo da un pezzo, signora Amalia... Noi ci siamo parlati tante volte... La nostra corrispondenza epistolare è stata così espansiva e sincera, che ben si può dire non esistere più segreti fra noi. Tutte le lettere che indirizzaste al signor Arturo Della Valle sono passate per le mie mani... In quelle lettere io ho veduto disegnarsi i tratti gentili della vostra fisonomia, ho assaporate le delicatezze del vostro cuore, ho respirato i profumi del vostro spirito... Voi vedete dunque che noi ci conosciamo.... Se nelle lettere che portavano la firma di Arturo Della Valle (e voi stessa lo avete più volte confessato) vi erano espressioni ed accenti atti a commovervi e ad esaltarvi; se avete pianto di gioia per una frase di pietà o di amore; se avete gustato, nello scorrere quei fogli, delle estasi[37] ignote; no, o signora, voi non avete più diritto di affermare che io vi sia sconosciuto. Noi ci siamo parlati... noi ci siamo compresi. Questo povero Della Valle, a cui io dettava le mie speranze e le mie angoscie, a cui voi, signora, indirizzavate le ideali aspirazioni della vostra grande anima, non era che una statua di granito, dove noi abbiamo deposto dei fiori, nella certezza che un'incognita divinità sarebbe scesa a raccoglierli, a respirarne i profumi... Ebbene, sappiatelo... quei vostri fiori... sono io che li ha raccolti... sono io che voluttuosamente li ho posati sul mio cuore... io che ve li ho rimandati coperti di lagrime e di baci... E, fatto audace dal desiderio, inebbriato dall'amore, io fui spinto a seguire le orme della diva misteriosa, ed ho osato sperare che ella un giorno, incontrandosi meco, mi avrebbe tosto riconosciuto. Se voi, signora, potete perdonarmi...
A questo punto, la giovine donna sollevò il velo che le scendeva sul volto, e guardandomi con ineffabile espressione di tenerezza e di affetto, mi disse «Non vi par tempo, o signore, di soddisfare alla mia curiosità, declinandomi il vostro nome e cognome?...
—Io mi chiamo Eugenio Renzi...
—Ebbene: se il signor Eugenio Renzi domattina vorrà recarsi verso dieci ore all'ufficio della posta, troverà una lettera al suo indirizzo.
E ciò detto, colei mi stese la mano in atto di accommiatarsi, e prima che io avessi tempo di proferire altra parola, si dileguò rapidamente sotto le ombre degli ipocastani.
Quel giorno non rientrai al mio domicilio. Io temeva una visita di Arturo; io voleva ad ogni costo evitare un colloquio imbarazzante. Io sentiva di avere abusato della mia posizione, e, quantunque fra me e colui non esistessero vincoli di vera amicizia, pure il cuore mi avvertiva di aver agito con poca delicatezza. Se in me ci fu colpa, il Dio delle vendette mi ha severamente punito, condannandomi ai lavori forzati.... del matrimonio.
All'indomani, verso le otto del mattino, sentii picchiare alla porta della mia cameretta.
Era lui—voi tosto indovinate che io risposi... col più rigoroso silenzio.
Il povero innamorato mi chiamò a nome più volte, ripicchiò con crescente vigoria, e, disperando alla fine di vedersi aperta la porta, si allontanò a passo lento per le scale. Quando io, balzato dal letto, attraverso le griglie lo ebbi accompagnato collo sguardo fino allo svolto della contrada, mi abbigliai prestamente, uscii dalla camera, scesi dalle scale a precipizio, e corsi diffilato all'ufficio della posta.
Il cuore mi batteva forte; la stranezza dell'avvenimento mi esaltava la fantasia; io mi trovava in presenza di un enigma interessante, e la mia curiosità ne era vivamente eccitata. Quella donna, che il giorno innanzi io aveva veduta per la prima volta, che sì ingenuamente aveva accolto le mie espansioni di amore, che aveva promesso di scrivermi, non rappresentava forse una protagonista da romanzo dotata delle attrattive più affascinanti? Permettete, miei ottimi amici, che io non mi arresti a descrivervi le bellezze personali di una donna, che oggi si chiama la mia consorte legittima, ed è la madre di quattro marmocchi che portano il mio cognome.
Un marito che descrive le bellezze della propria moglie, commette, al meno peggio, un peccato di imprudenza e, in ogni modo, si rende ridicolo. D'altronde—è legge di natura—dopo dieci anni di matrimonio, il mio pennello s'è alquanto sfibrato, e sulla mia tavolozza troverei difficilmente, per ritrarre la mia cara metà, i colori vivaci e brillanti che in altri tempi avrei prestati alla effigie dell'amante.
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Dopo aver girovagato alcun tempo nelle contrade adiacenti, verso le ore dieci mi presentai al banco della posta.
Una lettera c'era... una lettera vellutata.... profumata.... Prima ancora di averla nelle mani e di leggere la soprascritta, io aveva indovinato che quella lettera era uscita dal boudoir di una donna.
Appena fui nella contrada, mi affrettai ad aprirla Quei caratteri mi erano già noti, e il nome di Amalia spiccava sotto le ultime righe. Non c'era luogo a dubitare; la donna che da parecchi mesi intratteneva corrispondenza d'amore con Arturo Della Valle, era la stessa che a me indirizzava quella lettera. Ecco presso a poco ciò che diceva quello scritto:
Pregiatissimo Signore
«Prima di prendere una determinazione, ho voluto riflettere una intera notte. Prego anche voi di fare altrettanto prima di decidervi ad un passo, dal quale può dipendere il mio ed il vostro avvenire.
»Io vi parlerò colla massima franchezza, nella speranza che voi pure vi comportiate meco colla lealtà che si addice ad un uomo di onore, ad un uomo di spirito quale voi siete.
»Jeri mi avete detto che al leggere le lettere indirizzate al signor Arturo Della-Valle, voi foste preso da invincibile simpatia per la donna che le aveva vergate... Ebbene: a mia volta vi dico, che io pure ho subìto il fascino dei vostri scritti, che vi ho amato per la viva, appassionata eloquenza del vostro linguaggio, pei nobili ed elevati affetti che voi esprimevate.
»Quel signor Della-Valle, voi stesso lo diceste, non era che una statua di granito, dove noi abbiamo deposto dei fiori consacrati ad una divinità misteriosa che tosto o tardi sarebbe venuta a raccoglierli.—Noi ci siamo intravveduti presso il piedestallo della statua.... noi ci siamo riconosciuti.... ed io tosto ho compreso che voi eravate l'ideale delle mie aspirazioni... il solo... l'unico oggetto del mio amore...
»L'uomo che io vagheggiava... l'uomo che mi aveva affascinato cogli accenti melodiosi della passione non poteva essere quel povero Arturo, così impacciato e melenso che non seppe connettere due monosillabi, quando io gli indirizzai la parola sull'angolo di via Monforte....
»Voi seguiste i miei passi.... voi vi dichiaraste autore delle lettere indirizzate alla signora Amalia,[40] ed io non ho esitato un istante a riconoscere che voi dicevate il vero.
»Quella rivelazione mi ha colmato di beatitudine. Il vostro aspetto, il calore del vostro linguaggio non hanno fatto che ravvivare le mie simpatie—il mio cuore da quell'istante si avvinse a voi, e una indefinita speranza mi balenò al pensiero.
»Mi sarò io ingannata?
»Sarà questo un sogno passeggiero come tanti altri?....
»Ciò dipende da voi. Oramai, l'Arturo Della-Valle ha mutato di nome; egli si chiama Eugenio Renzi. La mistificazione è svanita, l'equivoco è dissipato. Noi ci troviamo di fronte a viso scoperto—voi avete detto di amarmi—io vi amo.
»Riflettete bene, ve lo ripeto e ve ne supplico, prima di prendere una risoluzione. Se vi pare che il vostro amore sia qualche cosa di serio e di elevato, non una effimera ebbrezza; se credete che esso possa resistere al tempo ed alle avversità, in tal caso—in tal caso soltanto—dirigete i vostri passi verso il luogo dove ieri ci siamo per la prima volta incontrati... Io sarò là ad aspettarvi, domattina, col cuore ansante di desiderio e di terrore....
»Non è mestieri che voi mi preveniate con una lettera... La vostra apparizione equivarrà ad una conferma d'amore... ad una promessa di eterna felicità. Se non verrete, vorrà dire che anche questa volta io dovrò rinunziare al paradiso sognato, e piangere nelle tenebre l'ultima illusione della mia giovinezza.
Amalia».
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Sebbene a quell'epoca io fossi uno sventato di prima classe, pure quella lettera gettò nel mio cuore un insolito turbamento. Voi converrete, miei ottimi amici, che il caso era abbastanza singolare per dar a riflettere, e suscitare qualche allarme nel più matto dei matti.
Ammirando la schiettezza di quella donna, io non poteva a meno di essere sorpreso della sua disinvoltura nel mutare di amanti. L'eccentricità di quel carattere mi allettava in sommo grado, ma io temeva in pari tempi ch'essa coprisse una leggerezza di cattivo genere.
Malgrado queste considerazioni e in onta di un indefinibile presentimento di sciagura, all'indomani mi recai sul luogo del convegno.
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Allo scoccare delle otto ore, la mia bella misteriosa spuntò dalla stradicciuola che dà sul bastione, e mosse ad incontrarmi con passo accelerato. Ella vestiva colla massima eleganza, e in luogo del velo, questa volta portava in testa un bizzarro cappellino di paglia.
Nell'abbordarmi, mi porse il braccio senza esitazione, con adorabile abbandono. Il di lei volto era sorridente, e gli occhi si fissavano in me colla espressione della più cordiale benevolenza.
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—Sì, il cuore mi diceva che sareste venuto... Come sono felice!.... usciamo dalla porta.... allontaniamoci dalla città..... gettiamoci all'aperta campagna... Andiamo a perderci in quel labirinto di stradicciuole deserte, dove esultano i liberi uccelli fra il sorriso delle acque e dei fiori....
E così parlando, mi traeva seco pel braccio, e noi uscivamo dalla città come due amanti che si conoscano da mesi.
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Non riferirò il lungo ed animato dialogo che ebbe luogo fra noi, sotto l'ombra di non so quanti faggi, al mormorio di non so quanti ruscelli. Vi dirò solo che al contatto di quella donna tutte le mie apprensioni[42] svanirono. La nostra conversazione assomigliava ad un duetto istromentale che esprime dei concetti indefiniti. Ci parlavamo come due esseri che non hanno rapporti col mondo. Eseguivamo delle variazioni, a volta patetiche, a volta brillanti, sovra una sola melodia—la melodia dell'amore.
Così passarono parecchie ore.—Al momento di rientrare in città, noi sostammo presso gli argini del ponte.
—Quando ci rivedremo?—mi chiese ella, coll'accento dell'insaziato desiderio...
—Quando vorrai—le risposi—quando senza comprometterti....
—Ebbene: a che servono le dilazioni?... Poichè ti ho dato tutto il mio amore io debbo anche accordarti la mia piena fiducia. No! le convenienze, i pregiudizi del mondo non possono impormi—io abborro le ipocrisie. Io mi abbandono a te... ti affido il mio onore la mia riputazione... tutta me stessa. La mia casa ti è aperta—io ti aspetterò tutti i giorni.... a tutte le ore.... Fra noi da questo momento è tolta ogni barriera... io sfido tutte le dicerie... come sono disposta ad ogni sacrifizio. Se questa sera.... se domattina vorrai recarti alla mia casa, io ti correrò incontro a braccia aperte, e noi vedremo rinnovarsi nella intimità del mio piccolo appartamento le ore deliziose che abbiamo passate questa mane sotto la vôlta del cielo sereno....
Tali presso a poco erano le sue parole: ma io non potrei descrivervi l'enfasi della voce e degli accenti. La sua esaltazione pareva toccasse il delirio.
—Amalia, le dissi stringendo colla più viva commozione la sua mano nella mia; io ammiro il tuo entusiasmo e ti sono grato della fede che in me riponi, ma non posso incoraggiarti al sacrifizio de' tuoi doveri e della tua pace. Non accusarmi di freddezza se ti parlo il linguaggio della ragione. Fino ad ora noi abbiamo conversato come due esseri che appartengano ad un mondo ideale, dimenticando, nelle estasi del nostro amore, il triste realismo della vita. Noi stiamo per rientrare nella città, e per riprendere[43] il posto che la società ci ha inesorabilmente assegnato. Prima di separarci è necessario che noi avvisiamo ai mezzi di rimuovere gli ostacoli che potrebbero opporsi alla nostra felicità. Io sono libero come gli augelli dell'aria—ma tu... Amalia!... Puoi tu dire altrettanto? Puoi tu obliare di avere un marito ed un figlio? Dovrò io, perchè ti amo, fomentare la tua esaltazione fino al punto di renderti ribelle alle convenienze che il tuo stato ti impone, e trascinarti per una via piena di affanni e di umiliazioni? Meno male se non si trattasse che di un marito, ma poichè un figlio ci sta di mezzo...
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A questo punto della mia patetica allocuzione, una chiassosa risata mi ruppe gli accenti sul labbro.
—Mio marito!... Mio figlio!—esclamò la giovane donna, abbandonandosi senza ritegno alla ilarità che la invadeva.—Ma dunque tu credi... tu puoi supporre?... Oh vedi un poco i bei pazzi che noi siamo!... Abbiamo passate due ore a parlarci d'amore, a fabbricarci colla immaginazione un avvenire di gaudio e di felicità, e non abbiamo pensato a liberarci dalle chimere. Via! sta di buon animo, Eugenio mio—il marito, il tremendo marito non esiste. Il marmocchio che rappresentava una parte sì patetica nelle mie lettere, appartiene, per diritto naturale e legittimo, ad un'Amalia che tu non conosci, all'amante del tuo amico Della-Valle. È tempo davvero che noi discendiamo nella vita reale per dissipare ogni equivoco. Noi eravamo in quattro a giuocare la partita. Tu eri il segretario, il consigliere intimo di un Arturo imbecille; io d'altra parte scriveva delle lettere d'amore per conto di una signora Amalia, ammogliata con prole, ma poco ferma nella grammatica e nella ortografia. Tu ti invaghisti di conoscere l'amante del tuo amico. Io, nel leggere le tue risposte appassionate, sentii il bisogno di vederne l'autore. Il caso non poteva meglio favorirci. Domenica scorsa, per una indisposizione subitamente sopravvenuta, la signora[44] Amalia doveva mancare al convegno...... Io colsi l'occasione di volo... Spinta dalla passione, venni sul luogo dell'abboccamento... Mi accostai ad Arturo... Fingendomi messaggiera della amica indisposta, gli diressi la parola... Quale disinganno!... Alle poche e tronche frasi proferite da colui, io mi accorsi d'aver a fare col più volgare degli idioti. Ma tu eri là... tu corresti sui miei passi... tu mi arrestasti... mi stendesti la mano, e alle prime parole da te proferite io conobbi l'autore delle lettere che tanto mi avevano impressionata. Quanto gaudio in quella rivelazione! Io tornai alla mia casa coll'anima inebbriata. Ogni scrupolo, ogni rimorso svanì dal mio cuore. Ti scrissi, ti svelai candidamente la mia passione... ti pregai di usar meco l'uguale franchezza; ed oggi, dopo le espansioni che avvennero fra noi, io mi sento pienamente sicura del tuo amore e beata di affermarti che niuna barriera, niun ostacolo si interpone ai nostri voti. Lascia dunque ch'io mi appoggi al tuo braccio. Noi possiamo entrare in città e attraversare la folla così allacciati, senza incontrare uno sguardo geloso o suscitare un mormorio di riprovazione. Procediamo per la nostra via colla fronte alta e serena; io ti condurrò alla mia casa, dove un'ottima zia ci accoglierà entrambi come figliuoli. Più tardi ti presenterò a' miei fratelli, ai parenti....
—Basta!... basta!... con comodo... uno alla volta!... troppa felicità!...—interruppi io, accelerando il passo colla mia donna sul braccio. A queste frasi concitate e convulse tenne dietro un mostruoso silenzio. Da quel momento io mi sentii accalappiato. Io comprendeva che quel mio adultero amore non poteva avere altra soluzione fuorchè... il matrimonio. Infatti, noi attraversammo la città come due consorti legittimi; io mi lasciai condurre alla casa della giovane donna, strinsi conoscenza colla zia, dichiarai ad essa le mie buone intenzioni... e di là a quattro mesi divenni il consorte legittimo della signora Amalia Ferrarini maestra di prima classe alle scuole di Bassano Porrone!
Or fanno trentadue anni, io era il più bel ragazzo della Valassina. Al paese mi chiamavano il Pirletta, perchè nei balli non v'era alcuno che mi vincesse. Mio padre era fattore del conte Bavoso, e poteva, nella sua condizione, chiamarsi un uomo agiato.
All'età di diciotto anni, l'organista del paese, sentendomi cantare le litanie, scoperse che io aveva una bellissima voce di tenore—una di quelle voci—diceva egli—che possono rendere in un anno da cento a duecentomila franchi.
Una tale scoperta, riferita a mio padre, non destò in lui veruna emozione; ma un giorno, mentre io stava nel giardino ripiantando dei cavoli e cantando alla distesa un'aria paesana, la contessa Bavoso si fermò estatica ad ascoltarmi.
La contessa era maniaca per la musica, e suonava il pianoforte come sanno suonare le contesse. Quando ebbi finito di ripiantare i miei cavoli, sentii chiamarmi a nome.
—Pirletta—mi disse la contessa—l'organista non mi ha ingannata—tu possiedi realmente una voce delle più rare.... Tutto sta che alla voce si accoppino le altre disposizioni indispensabili a ben riuscire nell'arte: Quanto alla figura (e mi squadrava dal capo al piede attraverso l'occhialino) non c'è malaccio; ma ho timore che tu manchi di orecchio...
Portai ingenuamente le mani alle orecchie—la contessa sorrise, e, avviandosi verso la villa, mi invitò[46] gentilmente a seguirla, chiamandomi non so ben quante volte imbecille.
Entrati nella gran sala, la contessa Bavoso andò a sedere al pianoforte. «Vediamo, mi disse, fin dove sai montare....»
Io non osava avanzarmi. La contessa si diede a percuotere il cembalo, e, dopo avermi raccomandato di spalancare per bene la bocca, mi invitò a riprodurre colla voce i suoni dei tasti.
Il mio orecchio era perfetto, e la contessa fu talmente sorpresa della mia intonazione, che volgendosi al conte, il quale era entrato nel salotto in sul finire dell'esperimento: «Sarebbe un peccato, gli disse, che tanto tesoro andasse perduto!» Bisogna assolutamente che questo ragazzo si dedichi al canto—e noi penseremo a farlo entrare nel Conservatorio.
Figuratevi la mia meraviglia, la mia gioia! Riferii a mio padre quanto era accaduto—egli crollò la testa di mal garbo, esclamando: «Purchè ci pensino loro!... purchè io non abbia a sborsare un quattrino!» E quando seppe di là a pochi giorni, che il conte e la contessa si incaricavano di farmi istruire a loro spese, il buon uomo lasciò fare. Dopo tutto, egli avrebbe preferito che io fossi rimasto al paese a dirigere l'allevamento dei bigatti e la fabbricazione dei formaggini.
Io era al colmo della felicità. L'idea di recarmi a Milano, rivestito e ripulito, a fare la mia bella figura di zerbinotto elegante—la speranza di potere, nello spazio di pochi anni, realizzare una bella fortuna, e tornando al paese, acquistare delle possessioni, fabbricarmi un palazzo e menare splendida vita; tutto ciò mi esaltava lo spirito a tal segno, che io correva l'aperta campagna, misurava coll'occhio le terre coltive, sceglieva le posizioni più acconcie per edificarvi i miei castelli—cantava, gesticolava tutto il giorno, pregustando colla mia imaginazione di diciotto anni tutte le voluttà di un avvenire dorato.
E davvero c'era in me la vocazione, c'era la stoffa dell'artista. Vi basti il sapere che già da due anni io era innamorato. Fra le cameriere della contessa[47] Bavoso c'era una brunetta chiamata la Savina, una strega di bellezza e di furberia. Era nata al paese, e da fanciulli avevamo giuocato insieme a gatta cieca, al dammelo e prendilo, al fuori e dentro e ad altri sollazzi innocenti. Ma dopo un anno passato a Milano al servizio della contessa, aveste veduto che arie da gran dama! Quand'ella tornava alla villa, nei due mesi dell'autunno, ci guardava tutti con un fare da sultana come volesse dire: ve' là questi zotici..... questi bifolchi!... Appena degnava rispondere al mio saluto; ed essendomi una volta arrischiato ad offrirle un mazzetto di garofani, mi volse la schiena esclamando: «Levati dalle mani quei guanti di letame se vuoi che le signore accettino i tuoi fiori!»
Orbene: non appena si sparse la nuova che il conte e la contessa Bavoso si erano incaricati di condurmi a Milano per farmi educare nella musica, la Savina mutò improvvisamente di modi a mio riguardo. Una mattina, mentre tutti dormivano ed io era disceso nell'orto a fantasticare sul mio brillante avvenire, quella strega mi venne incontro tutta bella e sorridente per congratularsi della mia buona fortuna.—Spero che a Milano ci vedremo—diss'ella, frugandomi nell'anima colle sue ladre pupille. Naturalmente, tu verrai a trovare la contessa... e poi... Milano è grande. Tutto sta che una volta divenuto gran signore, ti degni ancora di scambiare un saluto con noi... gente bassa.... persone di servizio.....
Io mi sentiva una maledetta voglia di saltarle al collo e di rassicurarla energicamente del mio amore e della mia eterna fedeltà. Non osai tanto in quel primo abboccamento; ma le occhiate e le assicurazioni di simpatia ch'io m'ebbi dalla scaltra figliuola posero il colmo alla mia esaltazione.
Nel paese, già tutti mi trattavano con rispetto e devozione. L'organista andava ripetendo che di là a dieci anni sarei tornato milionario. Io gli prometteva che, qualora i suoi pronostici si fossero realizzati, avrei fatto costruire un nuovo organo nella chiesa parrocchiale a tutta mia spesa.
Da molti anni si agitava nel consiglio comunale e[48] nella fabbriceria il progetto di un nuovo e grandioso campanile; si aspettava, per mandare ad effetto quel vasto disegno, che il comune e la fabbriceria adunassero il denaro occorrente. Il Sindaco, uomo di larghe vedute, dopo avermi interpellato sulle mie disposizioni, propose al consiglio di differire l'impresa fino a che io fossi in grado di concorrervi co' miei capitali. I consiglieri, non avendo di meglio a suggerire, riconobbero che il sindaco aveva pienamente ragione, e votarono unanimi il seguente ordine del giorno:
«Noi sottoscritti.
»Considerando che le casse del comune e della fabbriceria sono affatto vuote pel momento; abbiamo deliberato di prorogare per dieci anni la erezione del grandioso campanile già da sei lustri ideato e discusso, nella fiducia che in questo lasso di tempo un nostro illustre e benemerito concittadino, il quale fin d'ora si mostra animato dalle migliori intenzioni a tale riguardo, possa adunare e fornire la somma occorrente acciò il grandioso monumento riesca degno in tutto e per tutto della nostra e della ammirazione dei posteri.»
La notizia di questa deliberazione suscitò delle polemiche tra i villani. I più, affidandosi alle promesse dell'organista e d'altri personaggi autorevoli, si tennero persuasi che di là a dieci anni i loro voti sarebbero esauditi. Altri invece accolsero la notizia con una significante crollatina di capo. «Oh! sta a vedere—dicevano—che sarà lui.... proprio lui... a fornirci il denaro pel campanile—il Pirletta!...»
Al primo di novembre, si doveva partire per Milano. Il mio equipaggio era completo. Il conte Bavoso mi aveva ceduti i suoi abiti usati, che ridotti pel mio dosso dal sartore del villaggio, mi andavano a meraviglia Abbracciai mio padre colle lagrime agli occhi: mi congedai pulitamente dal curato, dal sindaco, da tutte le autorità del luogo, e salii fra le acclamazioni dei villani dietro la carrozza della contessa. Imaginate il mio tripudio quando vidi la Savina collocarsi al mio fianco, e pensai che durante un viaggio di otto[49] ore avrei potuto intrattenermi con lei nel più stretto dei colloqui possibili!
Non vi descrivo le emozioni di quel viaggio. La Savina mi diè tante prove di amabilità, che io le promisi di sposarla non appena avessi compiuta la mia educazione musicale.
All'indomani del nostro arrivo a Milano, la contessa iniziò le sue pratiche per farmi entrare al Conservatorio. Quella donna otteneva ciò che voleva, ed io venni ammesso senza difficoltà. Il mio primo maestro era un uomo in sui cinquant'anni, e godeva fama di insuperabile nell'arte di formare le voci.
—Vieni qua, il mio bravo giovinotto—diss'egli assidendosi al pianoforte—la tua nobile protettrice mi vuol far credere che tu possegga una bellissima voce. Probabilmente la signora contessa ha voluto dire che i tuoi organi non hanno difetti cardinali. Belle voci non si danno in natura; starei quasi per dire che in natura non esistono voci. I suoni sono opera dell'arte; e l'arte, figliuol mio, è frutto dello studio e di un ben regolato esercizio. In ogni modo, vediamo la tua estensione.
Il maestro prese a toccare il pianoforte, ed io mi diedi a vociare di tutta lena.
La mia voce timbrata e sonora saliva dal do basso al si bemolle acuto con ammirabile facilità. Terminato l'esperimento, il maestro mi rivolse una strana domanda:
—Ebbene?... Che cosa intendiamo di fare? Vogliamo cantare il tenore, il baritono o il basso profondo?
—A dir vero, signor maestro, l'organista del paese e la illustrissima signora contessa Bavoso mi avevano fatto sperare che cantando da tenore, in pochi anni mi sarei fatto milionario o qualche cosa di simile. Ho promesso al signor sindaco di contribuire per diecimila franchi all'erezione del nuovo campanile....
—Caspita! hai delle idee molto elevate, figliuol mio!... ma poichè la signora contessa vuole un tenore; tanto fa, le daremo ciò che le abbisogna.
Il maestro serbava nel parlarmi la maggior serietà, ma forse nell'intimo del cuore si burlava de' fatti miei.
Cosa strana! questo professore autorevole e stimato, che aveva la pretesa di creare le voci a totale beneficio dei suoi allievi, mancava affatto di voce.
—Un tenore, diceva egli, colle opere che si scrivono in giornata, non può fare a meno del si naturale, del do ed anche del do diesis. Convien dunque, figliuol mio, che ci mettiamo di proposito a procurarci queste note essenziali. Per conquistare gli acuti non vi è che un solo mezzo: rinvigorire le note più basse, le quali rappresentano nella scala armonica le fondamenta dell'edifizio. Credi tu che si possa elevare una casa di cinque o sei piani quando non si pongano innanzi tutto delle basi massiccie?
Con questa logica da capo mastro il professore mi impose di esercitare quotidianamente le mie quattro note più basse.
Do re mi fa, fa re mi do—tale fu il vocalizzo obbligatorio de' miei primi esercizi. Di là a tre mesi io perdetti il si bemolle; a metà del semestre il la acuto scomparve affatto; alla fine dell'anno, da tenore divenni baritono.
Non debbo tacervi che il mio autorevole maestro si preoccupava mediocremente di questi miei progressi. La sua lezione durava ordinariamente dieci minuti e si chiudeva colla formola di congedo: Bravo! molto bene! benissimo!
Le lezioni delle allieve duravano più a lungo.
Ho notato che tutti i professori del Conservatorio ponevano una cura speciale nella educazione delle ragazze. Allorquando il mio maestro inculcava il solfeggio alle future regine della scena, prendeva la posa di un ispirato e mostrava il bianco degli occhi.—Quelle lezioni lo affaticavano assai. Contuttociò la più parte delle allieve perdevano anch'esse la voce, ed altre cose.
Alla fine dell'anno, il mio sol acuto minacciava di ecclisarsi—il maestro se ne avvide, fece un rapporto al direttore dogli studi, ed io fui sottoposto[51] ad un consiglio di professori, i quali fra gli sbadigli firmarono il verdetto della mia assoluta impotenza a proseguire negli studi.
Immaginate la mia sorpresa, il mio disappunto, la mia desolazione!
Mi recai dalla contessa Bavoso. Il sindaco del paese, venuto a Milano per certi suoi affari, era in quel giorno dalla contessa. Mi presentai trepidante come un reo che va incontro al suo giudice—la presenza del sindaco raddoppiava le mie angoscie.
—Bravo! molto bene! benissimo!—cominciò la contessa.—Il bell'onore che vi fate! Ecco la lettera del vostro professore—leggete se vi dà l'animo... E poi... abbiate ancora il coraggio di comparirci davanti!
Io lessi, e rimasi oltremodo meravigliato in vedere le strane cose che in quel foglio si dicevano sul conto mio. Mi si accusava di poca assiduità alle lezioni; si attribuiva il progressivo e non logico deperimento della mia voce a qualche vizio secreto, a qualche disordine organico prodotto dalla crapula o da altri abusi più gravi.
Fui preso da indignazione.—Signora contessa! esclamai coll'accento più vivo—mi meraviglio che questi signori mettano in giro tali calunnie... Io non ho mancato mai alle lezioni, e la mia condotta fu sempre quella di un onesto figliuolo. Il maestro pretendeva fabbricarmi una voce da tenore, rinforzandomi i bassi—io mi sono uniformato a' suoi consigli, e mentre lavoravo a consolidare i fondamenti dell'edifizio, il tetto è crollato. Quel signor fabbricatore di voci non ha fiato in corpo per sè—ed io, quando entrai al Conservatorio, ne aveva tanto da gonfiarli tutti quanti... Insomma...
—Insomma! Insomma! mi interruppe la contessa.—Voi siete un disgraziato., voi tornerete al paese a zappare le rape... Non si perdono il si bemolle e il la naturale senza qualche sconcerto dell'organismo, prodotto dai disordini e dai vizi.—So quello che mi dico... so quello che voi stesso ignorate... Il signor sindaco qui presente porterà la notizia a vostro padre... e voi partirete quando vi farà comodo.
Ciò detto, la contessa mi fece cenno d'uscire. Il sindaco, per rinforzare l'apostrofe della contessa, mi annichilì con un motto spietato:—Avremo un bel campanile... al paese!
Attraversando l'anticamera sentii afferrarmi pel soprabito da una mano tenace.
Mi volsi—era la Savina.
—Ho inteso tutto... Cos'è questo bemolle che hai perduto? Voglio saperlo...
—Lasciami in pace... Savina...
—No!... voglio saperlo... Dio sa quante ne hai fatte!...
—Savina... ti dico!...
—Sento gente... va pure... Ci rivedremo domenica... all'ora della dottrina.
Uscii dalla casa Bavoso coll'animo in tempesta.
Dopo essermi aggirato per le vie di Milano, dibattendo molti progetti, entrai in una bottega da caffè dov'erano soliti a convenire alcuni artisti e studiosi di canto a me noti. Vedendomi accorato, mi interrogarono. Narrai ciò che mi era accaduto. Un signore di età matura che aveva prestato orecchio al mio racconto: «un altro Maccabeo!» esclamò con biblica amarezza—poi, voltosi a me direttamente: «Io conosco la contessa Bavoso, mi disse-è una pianista di gran talento e una dama di cuore—peccato ch'ella viva sotto la pressione del Conservatorio!—in ogni modo io non ho ancora disperato di convertirla... Chi sa! sareste voi disposto, figliuol caro, a fornirmi i mezzi per un'ultima prova?»
La mia situazione era tale che le parole di quell'uomo, tuttochè enigmatiche, mi apersero il cuore alla speranza.
—Se ti rimane un filo di voce, proseguì egli, a cui si possano riannodare dieci o dodici note, io mi incarico di restituirti in sei mesi ciò che i Bramini del Conservatorio ti hanno rubato nel corso di un anno.
Ciò detto, mi porse il suo biglietto di visita, e mi fece promettere che il dì seguente, verso le dieci ore del mattino, mi sarei recato da lui. Immaginate la mia gioia, quando uno degli astanti, un certo Zilgo,[53] tenore in aspettativa, mi avvertì che quel mio nuovo protettore era il più insigne maestro di canto dell'Italia e dell'Universo, il solo che sapesse realmente creare le voci o ridonarle al primiero stato in caso di deperimento.
All'indomani fui esatto al convegno. Venni introdotto in una grande sala debolmente rischiarata. Il maestro sedeva al pianoforte—una dozzina di allievi d'ambo i sessi lo circondavano in vario atteggiamento. Al mio entrare, il maestro si levò in piedi, e, additandomi ai circostanti con un gesto da Geremia, si diè a cantarmi l'antifona: Venite ad me, vos qui egrotatis; hic salus! hic vita! hic bonum!
Gli allievi di canto replicarono in coro la salmodia—ed io ristetti ombroso a guardarli, credendomi vittima di una crudele burletta.
Il maestro mi mosse incontro, mi prese per mano, e mi condusse al pianoforte.
—Come vedi, figliuol caro, tutti si rallegrano con te... La pecora smarrita si è rimessa sul buon cammino... Volgiti intorno... Tutte queste signorine avvenenti e intelligenti, tutti questi giovani bene organizzati e predestinati, non rappresentavano, pochi mesi sono, che dei naufraghi, respinti, come tu lo fosti, dall'arca fatale del Conservatorio, e abbandonati semivivi alle branche voraci dell'oceano.—Io ho raccolti questi naufraghi nel mio battello da salvataggio; ho riscaldati questi morenti colla fiamma dell'arte unica e vera—dell'arte divina!... Quelli che ieri gemevano, oggi cantano—quelli che starnutivano, oggi trillano—i ranocchi divennero usignuoli—le cicale si mutarono in capinere.—Lasciamoli dunque in pace.—Abbandoniamo questi avventurati che già toccano le porte del cielo, per soccorrere all'ultimo arrivato, all'infelice che stava per soccombere.—Vieni qui, figliuol caro—e voi altri, schieratevi in giro—voglio che tutti assistiate alla diagnosi... Egli è sul cadavere che si studiano i problemi dell'esistenza; gli è dai morenti che si imparano i segreti della conservazione.
Gli allievi si scostarono dal pianoforte, e andarono[54] a sedere in una specie di anfiteatro all'estremità della sala.
Il maestro cominciò a palpeggiarmi la testa—quindi scese colle mani alle altre parti del corpo parlando di tal guisa:
—Abbiamo un occipite pronunziatissimo... buon principio!... Sviluppo massimo di sensualità... di forza procreatrice! l'arte non è che amore—non si può essere artisti veri, artisti grandi, senza una straordinaria suscettività, o dirò meglio, irritabilità dell'organo simpatico. Gli è ciò che ho detto più volte a mademoiselle Guardinaire:—tu diverrai la Cleopatra delle cantanti in grazia del tuo occipite.—Sui parietali non c'è che dire—il frontale è in ottimo stato! Questo solido ripercussore delle note acute presenta tutte le condizioni desiderabili—abbiamo un edmoide ed uno sfenoide pienamente conformi a quelli di Rubini e di Zilgo—larghe narici, canali ampi, torace adiposo, clavicola ferma, scapula rilevata, osso sacro sporgente—in una parola lo scheletro di Lablache, di Filippo Galli e di... Zilgo. Vediamo ora (ed è quello che più importa) come si sta di visceri... Esaminiamo prima di tutto se i mantici funzionano, e qual grado conservino ancora di forza coibente e deprimente.
Ciò detto, il professore tirò il cordone di un campanello e una grossa domestica entrò nella sala con un soffietto nella mano, domandando: «c'è forse qualcuno che ha bisogno di fiato?»
—No—rispose il maestro seriamente—apporta gli ordigni per la prova dei mantici.
Non comprendo, ripensandoci adesso, come io fossi in allora tanto ebete da prestarmi a quelle buffonesche esperienze.—Di lì a poco, la grossa fantesca rientrò nella sala, recando sulle braccia una dozzina di volumi. Il maestro mi ordinò di sdraiarmi supino sovra un canapè, soprappose al mio stomaco quattro volumi, e in quella difficile posizione mi fece ripetere più volte la scala ascendente e discendente. Mademoiselle Guardinaire, il tenore Zilgo, una giovane inglese assai brutta, e da ultimo, tutti gli scolari mi[55] si fecero d'attorno, per istudiare, com'essi dicevano, il grande fenomeno della respirazione. Tutti parevano sorpresi della potenza straordinaria de' miei polmoni; la fantesca batteva le mani dalla meraviglia, esclamando: scommetto che se io gli monto sopra, costui con un do di petto mi slancia alla soffitta!
Ciò che vi narro vi parrà inverosimile; eppure a quell'epoca c'erano in Milano dei maestri di canto che spingevano più oltre la ciurmeria.—E credete voi che oggigiorno le cose sieno mutate? Chiedetene notizia a quelle tante infelici, che dopo avere dal rigido settentrione trasmigrato in Italia per apprendervi la bell'arte del canto, ritornano in patria senza voce, senza quattrini, senza professione, senza... tutto quello che hanno dovuto immolare ai maestri, agli agenti teatrali ed ai giornalisti.
In seguito alle esperienze ginnastiche che vi ho descritte, e ad altre di cui vi taccio per brevità, il mio nuovo maestro espose la sua ferma convinzione che in meno di sei mesi, seguendo il suo regime, io avrei ricuperata la mia bella voce di tenore, e di là a due anni, persistendo nello studio, sarei stato in grado di esordire con lieto successo alle scene. Queste promesse suonavano abbastanza lusinghiere; ma l'ispirato missionario dell'arte non pareva disposto a darmi lezione gratuitamente. Fu convenuto che io avrei diretto una supplica alla contessa Bavoso, onde ottenere qualche sussidio nei sei mesi di esperimento; il maestro si sarebbe egli stesso incaricato di presentare la mia lettera, perorando a voce la mia causa e magnificando le mie ottime disposizioni musicali. Ogni cosa riescì per bene. Scorsa una settimana, la contessa mi fece chiamare al palazzo, e dopo una lunga ammonizione che io ascoltai col massimo raccoglimento, mi diede il grato annunzio che ella medesima si assumeva di pagare le mie lezioni, fissandomi altresì un piccolo assegno mensile ond'io vivessi decorosamente a Milano. In seguito a questa nuova fortuna, io potei riannodare le mie relazioni colla Savina, la quale in un precedente colloquio mi aveva[56] fatto capire che il cocchiere della contessa le avea inoltrate seriamente delle proposte di matrimonio.
Il signor Minassi[1] (tale era il nome del mio maestro) per circa due mesi mi esercitò alla emissione delle note, obbligandomi sempre, durante le lezioni, alla incomoda e ridicola giacitura di cui vi ho parlato poco dianzi. Tanto egli, come i colleghi di scuola e la grossa fantesca si mostravano stupiti dello straordinario sviluppo che la mia voce andava acquistando di ora in ora, di minuto in minuto. Mademoiselle Guardinaire, che per ordine del maestro si era fatta strappare due denti, i quali rendevano un po' ottuse le sue note di mezzo, mi animava a subire la medesima operazione, assicurandomi che ne avrei ottenuto un immenso benefizio. Il tenore Zilgo era d'avviso che io mi facessi levare le tonsille—e il maestro aggrottava le ciglia borbottando: «vedremo se sarà il caso—c'è sempre tempo a correggere la natura—ed io non dubito che il nostro futuro Donzelli sacrificherà all'arte, quando l'arte lo esiga, quelle superfluità dell'organismo che possono compromettere la libera emissione della voce.»
Pur troppo l'ora del sacrificio non tardò a suonare. In seguito ai violenti esercizi di respirazione, la mia voce si era ridotta a tale che ogni nota si rompeva in uno scrocco. Tutta la scolaresca fu chiamata a consiglio—il maestro produsse una chiara e minuziosa diagnosi del fenomeno patologico, concludendo col dichiarare di urgenza l'amputazione delle glandule tonsillari.
Sulle prime, mossi qualche difficoltà—ma avendo tutti in massa gli scolari spalancate le bocche per mostrarmi che non uno era andato esente dalla operazione, mi lasciai vincere dall'esempio.
Al taglio delle tonsille successe una allarmante infiammazione—per circa una ventina di giorni non mi fu concesso di emettere una nota—quando tornai dal maestro per riprendere il corso delle lezioni,[57] con somma sorpresa di tutti si notò che da baritono io era divenuto basso profondo.
Quella scoperta produsse un cataclisma. Il Minassi improvvisò sulle rivoluzioni delle voci un erudito discorso che produsse la più viva commozione nella scolaresca; ma la contessa Bavoso, informata della metamorfosi che si era operata nel mio organo, mi avvertì per lettera che non intendeva continuarmi il sussidio, consigliandomi al tempo stesso di far ritorno al paese dove la mia voce da basso profondo sarebbe riuscita opportunissima per richiamare dai pascoli le giovenche. A quella lettera, dissuggellata dall'infida Savina, era aggiunto un poscritto in pessima calligrafia, che diceva testualmente: Dopo quelo che tano talliato, non sperare mai più nel mio amore; io sposerò quest'autunno il carozziere Pacicco.
Che fare? che tentare?—Dietro ordine della contessa, mio padre venne a Milano, mi colmò di rimproveri e mi intimò di seguirlo al paese. All'ora del mio arrivo, una ventina di villani stavano sulla piazza attendendomi.—Immaginate la mia vergogna, allorquando una voce acuta, emergendo dal crocchio, annunziò il mio ingresso colle parole: «In pèe tucc! à l'è scià el campanin!»[2]
Ed ecco in qual modo compensavano quei bifolchi la buona disposizione che io aveva manifestata di concorrere coi miei guadagni alla erezione del campanile!—Le buone intenzioni non hanno sconto sul mercato della vita.
Non volli più uscire di casa—mi resi invisibile. Io attendeva ai lavori dell'orto ed al governo della stalla, mutolo sempre e ingrugnato. Mio padre temendo che io cadessi ammalato, andò a consultarsi col veterinario.
Un giorno l'organista del paese si recò a visitarmi—Pirletta, mi disse—eppure io non so capacitarmi che la tua bella voce sia proprio svanita! Se ci provassimo... così per spasso?.... Farò trasportare nella[58] tua camera da letto la mia spinetta... Ricomincieremo dalle scale—e chi sa?—le scale conducono in alto...
Che volete? mi lasciai vincere dalla tentazione, e ripresi, colla scorta del dabbene organista, gli esercizi del solfeggio. La mia voce da basso non era delle più ingrate; io studiava con moderazione, senza violentare la natura, e apprendeva, ciò che i professori di Milano avevano sdegnato insegnarmi, i principii fondamentali della musica. Io comprendeva i miei progressi, e il mio cuore si riapriva alla speranza, la mia mente si irradiava di nuove illusioni.
Dopo due anni di studi regolari ed indefessi, l'organista mi avvertì solennemente che a lui non restava più nulla da insegnarmi, a me più nulla da apprendere.—Sei maturo, mi disse; non ti resta che salire il bosco e fare la tua galletta.
Mio padre mi fornì cinquanta lire e la sua benedizione perchè andassi a Milano in cerca di una scrittura. Il parroco, il sindaco, il veterinario e l'ottimo organista ingrossarono il mio peculio di qualche spicciolo e di molti consigli.—Uscii dal paese due ore prima dell'alba, e volgendomi al famiglio che aveva attaccata la bestia al biroccino: tornerò fra cinque o sei anni, gli dissi; e quando il campanile sarà compiuto, andrò lassù a sputar sulla testa di quei buffoni che si fecero giuoco di me.
Ma in cielo non era scritto che io donassi un campanile alla ingrata mia patria. Prima di ottenere una scrittura, rimasi a Milano due anni—e furono due anni di patimenti, di umiliazioni, di angoscie indescrivibili. Io faceva regolarmente ogni giorno il giro di tutte le agenzie teatrali; i corrispondenti mi davano delle promesse e sempre mi congedavano col ritornello: lasciatevi vedere!—All'indomani, quando io mi presentava, fingevano di non vedermi.
I miei abiti si aprivano sui gomiti e parevano ricambiare dei sorrisi alle scarpe che mostravano i denti. Non vi parlo dei miei lunghi digiuni, delle notti passate all'aria aperta o sulle panche del caffè Martini. I miei amici erano una dozzina di cantanti in perenne disponibilità—i quali mi confortavano[59] affermando che gli agenti teatrali erano una masnada di assassini, il pubblico una massa di imbecilli, e gli artisti più lautamente pagati una camorra di intriganti privi di voce e talento.
Finalmente (e in quell'istante vidi aprirsi il paradiso) un agente teatrale mi invita per lettera a recarmi premurosamente da lui.—Accorro ansante dalla gioia—precipito nella sala d'uffizio e interrogo collo sguardo il mio destino.
L'agente era un certo Cinguetta, un uomo di sinistro aspetto e di fama perduta; eppure, all'idea ch'egli intendesse offrirmi una scrittura, mi parve un cherubino.
—Sei tu disposto—mi chiese con brusca amorevolezza—a fare una campagnata di venti giorni cantando nel Nabucco la parte di Zaccaria?
—Se le pare... se lei crede...
—Si tratta, come dissi, di una campagnata—dunque molta allegria, grandi applausi e pochi soldi... non è vero? Gli esordienti—regola generale—non hanno diritto a compenso, e dovrebbero anzi, a rigore di legge, sborsare all'impresario una somma, pel grave rischio a cui questi va incontro esponendo sulle scene un artista sconosciuto e di dubbio talento. Ma io ho fede in te; so che possiedi una bella voce e conosco del pari le tue strettezze. Vedrai dal presente contratto che ho cercato di aiutarti—apponi dunque la tua firma, e domani partirai per Arona, ove, non dubito, farai onore alla mia agenzia.
Così parlando, il Cinguetta mi porse la scrittura che mi obbligava a cantare per una ventina di rappresentazioni al teatro di Arona, a recarmi alla piazza in tempo debito onde intervenire alle prove di cembalo e di orchestra, nonchè a provvedermi a mie spese del basso vestiario in perfetto costume. In compenso delle mie prestazioni, l'impresario mi avrebbe pagata la somma di lire sessanta, suddivisa in quattro rate, giusta le consuetudini teatrali, restando a mio carico le spese di viaggio e la provvigione dei cinque per cento devoluta al mediatore.
Naturalmente, apersi il labbro per muovere qualche[60] obiezione; ma il Cinguetta, strappandomi il foglio dalle mani e facendo atto di lacerarlo:—tutti di uno stampo! esclamò con mal piglio—quando siete a spasso, mille suppliche, mille transazioni;—vi si offre una scrittura, eccovi tosto colle grandi pretese!—Figliuol mio.... non faremo nulla. Non ho che a battere il suolo coi tacchi per veder sorgere una legione di bassi profondi, pronti e disposti a cantare per l'amore dell'arte!
Non era il caso di discutere—io segnai la scrittura con mano tremante, la piegai, la chiusi nei taschetti del soprabito e atterrito della mia nuova situazione, presi commiato dall'agente teatrale ringraziandolo colla voce ed imprecandogli col cuore. Il Cinguetta mi accompagnò fino alla porta, e come uomo ispirato subitamente da una idea luminosa:
—A proposito, mi disse; non sarebbe bene che noi regolassimo tosto i nostri conti? di tal guisa ti risparmieresti l'incomodo e la spesa di spedirmi il danaro per la posta.... La somma che mi devi è tanto meschina...
Io compresi che si trattava della provvigione. Non aveva indosso la somma di dieci soldi, e la mia mente già cominciava ad affannarsi nella ricerca di uno spediente qualunque, pel quale mi fosse dato di trasferirmi alla piazza. Esposi francamente al Cinguetta la mia triste posizione; gli feci capire che, aiutandomi la fortuna, lo avrei più tardi compensato largamente. Le mie parole esprimevano la più viva commozione.
—Non importa!—disse l'agente con un suo risolino di ipocrita benevolenza—io amo gli artisti e so investirmi delle loro circostanze... Se non puoi darmi danaro.... vedi.... sarei anche disposto ad accettare qualche segno di riconoscenza.... per esempio... vediamo un poco.... Così parlando, portò la mano alla catenella di argento che mi scendeva nel taschino del gilet, e ne trasse fuori un gramo orologio di argento, unico ricordo di mia madre che io aveva religiosamente conservato fino a quel giorno in onta delle urgenze più calamitose. Quel Cinguetta[61] aveva la mano così disinvolta, e la mia resistenza era così debole e impacciata, che l'orologio in un attimo divenne sua preda. Io finii col ringraziarlo di avere accettato in benemerenza dei suoi grandi favori, un dono così meschino.
Il mio debut al teatro di Arona fu abbastanza fortunato, ma avendo dovuto respingere venticinque giornali che mi erano stati inviati da varie città d'Italia con invito all'abbonamento, nessuno fece parola di me, e se alcuno parlò, fu per dire che io era un cane della peggiore specie. In ogni modo la campagnata si chiuse colla solita catastrofe. A metà della stagione l'impresario si assentò dalla piazza e si rese irreperibile—io perdetti l'ultimo quartale, e dovetti tornare a Milano colle mie gambe, lasciando in ostaggio al padrone di casa la barba ed i sandali del profeta Zaccaria.
Per una decina di anni venni sobbalzato da teatro a teatro. Le estorsioni dei corrispondenti, i ricatti del giornalismo, le frodi degli impresari cooperarono siffattamente al perfetto equilibrio delle mie finanze, che al finire di ogni stagione non mai ebbi ad inquietarmi per l'impiego de' miei sopravanzi. Le scritture del carnevale e dell'autunno pagavano regolarmente gli arretrati della disponibilità precedente—la perdita di uno più quartali, già preveduta nel bilancio, frenava i miei appetiti, e mi imponeva la più rigida soppressione delle superfluità. L'unico rimorso che ancora mi pesa sull'anima è quello di aver sprecato una piccola parte del mio peculio nello sfamare quattro o cinque giornalisti teatrali, non saprei dirvi se più scimuniti o bricconi. Una tale debolezza era frutto di inesperienza; ma dacchè a Firenze mi avvenne di applicare una dozzina di nerbate sul grugno di un certo Montâsino fabbricatore di riviste, ebbi a convincermi non esservi miglior espediente di questo per insegnare ai bèceri del giornalismo la morbidezza dello stile.
Vi fu un'epoca nella quale, per un bagliore inusitato di promesse, io credetti di aver finalmente afferrate le chiome della fortuna. Dopo quattro lunghi[62] mesi di disponibilità, mi venne offerta una scrittura pel teatro di Lima. Il mandatario dell'impresa, un personaggio tutto fulgido di diamanti e d'altre pietre inqualificabili, si faceva chiamare Don Diego y Gonzalez y Caballero Radamonteros Pordodios de las Quercás.—Il di lui nome non mancava di sonorità e le paghe ch'egli offriva agli artisti non erano meno sonanti. Vi basti sapere che l'emolumento a me fissato si traduceva nella somma di franchi cinquantamila all'anno, più due serate di benefizio, assicurate in diecimila franchi cadauna.
Innanzi di salpare pel nuovo mondo, scrissi una lettera al sindaco del paese annunziandogli la mia buona fortuna e assicurandolo al tempo stesso che le mie intenzioni a riguardo del campanile non erano punto cangiate.
Ci imbarcammo a Genova in un pessimo legno da vela, e dopo tre mesi ai navigazione disastrosa, toccammo la meta. Il rappresentante dell'impresa ci aveva accompagnati fino a Lima, ma all'indomani dello sbarco, non si ebbero più traccie di lui. Immaginate quale scompiglio, quale sgomento nella compagnia lirica! Eravamo circa sessanta, fra cantanti, suonatori e ballerine—e spremendo le nostre tasche non ne sarebbero usciti tanti spiccioli da formare un marengo—
Dopo una settimana di ansie inenarrabili, un certo Arnaldo Sesini, negoziante di gomma elastica, si presenta al nostro albergo, e dopo aver biasimato col più energico accento la condotta di Don Diego y Caballero Radamonteros Pordodios de las Quercás, si annunzia disposto ad assumere l'impresa in sua vece ed a sborsare immediatamente il primo mensile a tutti gli artisti, purchè rinnovino le scritture, assentendo al ribasso del sessanta per cento sulle paghe stabilite. Non era il caso di fare delle obiezioni. Il nome di Arnaldo Sesini ispirava poca fiducia; ma a qual nome affidarci, dacchè un Don Diego y Gonzalez y Caballero Radamonteros Pordodios de las Quercás ci aveva così ignobilmente abbandonati? Noi piegammo la fronte alla necessità; le transazioni vennero accetate,[63] e di là a poche settimane il teatro di Lima si aperse a spettacolo d'opera e ballo.
C'è a scommettere che di quella colonia di artisti italiani ben pochi ebbero la fortuna di rivedere la patria. Molti morirono di febbre gialla trasmigrando ad altre coste degli Stati Uniti—i suonatori si sbandarono per suonare nei caffè e in altri luoghi di pubblica ricreazione; le coriste e le ballerine sopravvissute alle febbri e ad altre epidemie, non trovando più adoratori, si procacciarono dei mariti. Io corsi l'America per dodici anni, sempre intento ad economizzare su' miei scarsi stipendi onde mettermi in grado di far ritorno in Italia. E Dio sa quanto avrei dovuto attendere prima di adunare il capitale occorrente, se la prepotenza della nostalgia non mi avesse spinto ad un partito.... americano.
Mi recai ad una grossa borgata del litorale in compagnia di una corista e di un pessimo accompagnatore di pianoforte—feci affiggere dei cartelloni dov'era annunciato che il celebre Mario e la insuperabile Grisi avrebbero dato un concerto, cantando una quindicina di pezzi a scelta del pubblico.—Quei buoni borghesi accorsero in massa, applaudirono ai miei ruggiti, si estasiarono ad ogni strillo della mia audace compagna, e raccolta una buona messe di dollari, io mi imbarcai felicemente il giorno appresso sovra un legno mercantile genovese.
Dalle mie lunghe e disastrose pellegrinazioni io non riportavo in Italia che un centinaio di lire, due papagalli ed una scimia.—Rientrando al mio albergo a Genova per levare i bagagli onde proseguire il viaggio, trovai la gabbia rovesciata.—I due papagalli si erano svincolati, e, profittando della libertà, avevano preso il volo per ignota direzione.
Giunto a Milano, mi recai al palazzo della contessa Bavoso per offrirle la scimia, ma la contessa era morta da un pezzo. Tornato al paese, venni a sapere che il sindaco, il veterinario, la Savina, l'organista, tutte infine, o quasi tutte le persone di mia conoscenza, avevano cessato di esistere. Mio padre istupidito dagli anni, appena mi riconobbe—e quando[64] gli mostrai la piccola scimia ch'io teneva fra le braccia, mi chiese da quanto tempo ero ammogliato, e se quello fosse il mio primogenito.
Sono scorsi dieci anni dacchè tornai al paese. Ho ereditato da mio padre una casuccia ed un orto, e campo la vita in qualche modo, accordando i pianoforti nelle ville dei signori e cantando qualche mottetto nelle chiese. I miei compaesani mi vogliono bene e cercano di aiutarmi; ma ogni qual volta nel Consiglio Comunale torna in campo il progetto di erigere un nuovo campanile, la discussione viene troncata con questo tratto di spirito: Aspettiamo il denaro di Pirletta.
A quei tempi, che sotto molti aspetti somigliavano ai presenti, io sedeva una mattina con altri pochi visitatori nel salotto di una amabile contessa, assai celebre in Milano pel suo talento di pianista non meno che per la sua bellezza e le sue prodigalità di ogni genere.
Come al solito, si parlava di musica; ed era in campo una discussione sulla supremazia dei maestri tedeschi, in fatto di composizioni istrumentali. La contessa, tuttochè italianissima nel senso politico, in arte si professava tedesca.
La conversazione venne interrotta dal servo di anticamera, il quale, presentando alla contessa una carta di visita, annunciava l'arrivo di un nuovo personaggio.
—Entri pure!—disse la contessa sfavillante di gioia.—E quella espressione del volto pareva dinotasse l'intervento di un alleato inatteso.
Il cameriere poco dopo ricomparve sulla porta, introducendo, con uno sforzo di pronunzia visibile, il signor Daniel Nabaäm De-Schudmoëken.
Era un uomo dai trentacinque ai quarant'anni, abbigliato con quella eleganza alquanto caricata, che contraddistingue gli artisti. Nel suo modo di presentarsi c'era la disinvoltura e la franchezza di chi ha fatto l'abitudine alla curiosità del pubblico ed all'applauso dei teatri.
Si inchinò leggermente ai circostanti, baciò la mano alla contessa, e, tratta dal portafogli una lettera, gliela porse col garbo più distinto.
—Ah! ah! il barone Teghetoff!—esclamò la dama, dopo aver letto—ecco un signore che non ha mai disertato dal campo dell'arte. E di quanto io gli vado debitrice! Egli non ha mai dimenticato di indirizzarmi i più eletti e celebri talenti di Europa.... L'anno scorso era Talberg, pochi giorni fa era Wanwondegger, ed oggi il signor Daniel Nabaäm De-Schudmoëken pianista di S. M. il re del Belgio, che io mi chiamo onoratissima di presentare sul momento ai miei migliori amici.
Quanti erano nel salotto salutarono amabilmente l'artista, indirizzandogli quelle banalità lusinghiere che le persone bene educate sanno prodigare anche agli sconosciuti, quando per essi interceda la raccomandazione di una signora.
Frattanto io pensava: dove mai ho veduto costui?... la sua fisonomia non mi è nuova.
E in luogo di interrogare o di adulare, io fissai uno sguardo così scrutatore sull'artista, che questi a sua volta prese a guardarmi con marcata attenzione.
Quella corrente di occhiate non isfuggì alla contessa. Ella credette farsi interprete di un mio desiderio, presentandomi più direttamente al suo raccomandato, e declinando a lui il mio nome e cognome, non senza aggiungere qualche cenno biografico.
—È bene, signor Nabaäm De-Schudmoëken, poichè avete intenzione di produrvi a Milano, che vi mettiate in rapporto con qualche giornalista, e sono lietissima che qui, nel mio salotto, voi stringiate una alleanza che potrà giovarvi.
L'artista, leggendo ne' miei sguardi una certa preoccupazione, arrossì leggermente; ma dominando tosto il proprio imbarazzo, riaperse il portafogli, e, trattane una lettera, me la porse con queste parole:
—Per comprendere, o signore, quanto io tenga alla vostra amicizia ed alla vostra protezione, non avete che a leggere le poche righe di questo scritto. Conoscendovi per fama, ho voluto premunirmi di una commendatizia al vostro indirizzo.—La persona che vi scrive e che a voi caldamente mi raccomanda, si dice uno dei vostri migliori amici.
Mi trassi in disparte, apersi la lettera, e, dissimulando a mala pena la mia sorpresa e la mia commozione, lessi mentalmente quanto segue:
«Ottimo signore,
«Sono a Milano da due giorni, e intendo far sentire al ridotto della Scala alcune mie composizioni. Ha ella dimenticato la gioconda serata che noi passammo insieme la sera del ventiquattro marzo del mille ottocento quarantacinque all'albergo della Bonne femme di Torino? Ella mi aveva furiosamente applaudito il giorno innanzi, in un concerto al quale assistevano venti persone. Oggi, dopo quindici anni, io la prego a volermi riudire. Colui che si fa annunziare in Milano coll'esotico nome di Daniel Nabaäm De-Schudmoëken pianista di S. M. il re del Belgio, si chiamava in altri tempi Bartolomeo Scannagatta di Biella. Per carità, non mi tradisca!... Venga piuttosto a trovarmi domani all'albergo del Marino, verso le cinque pomeridiane. Pranzeremo assieme, e dopo il caffè, s'ella avrà tempo e pazienza di ascoltarmi, le spiegherò il segreto del mio bizzarro pseudonimo, raccontandole una istoria piena di amarezze e di follie. Mi affido a lei e mi dico
suo dev. Servo
Bartolomeo Scannagatta.»
Era proprio lui! Le mie reminiscenze non mi avevano ingannato—il tono della lettera e la eloquenza delle occhiate che tratto tratto l'artista mi indirizzava mentre io stava leggendo, mi imponevano di rivolgergli tosto una parola rassicurante.
Mossi a lui, gli stesi la mano; egli mi porse la sua, e in quella stretta leale, un tacito patto fu stipulato fra noi.
Poco dopo, quand'egli fu uscito dalla sala, la contessa si pose a raccomandarmelo colla più viva espansione.
—Nessuno dimentichi ch'egli è un mio protetto, ripetè più volte la contessa a quanti facevano parte del circolo; quando il barone Teghetoff ci raccomanda un artista, è indubitabile che questi dev'essere un talento superiore. E poi.... che ne dite di questo nome?... Daniel..... Nabaäm De-Schudmoëken? Dio sa se lo pronunzio per bene!
—Dev'essere un pianista insuperabile nei pezzi di difficoltà—disse uno degli astanti—ciò si comprende dalle molte consonanti del nome.....
—Ed anche, soggiunse un altro, dalla k aspirata preceduta dal dittongo.....
—Non c'è' dubbio—rispose la contessa—questi artisti superiori che ci vengono dall'estero hanno dei nomi imponenti e, direi quasi, rivelatori. Talberg? Che ve ne pare? Non sentite forse, nella posa solenne e direi quasi patriarcale di questo nome, il pianista pacato, maestoso, che procede sicuro sulle onde melodiche, come un poderoso vascello già provato dalle tempeste e dai venti?.... Liszt!... Non vedete, a questo nome, il lampo e la folgore guizzare sulla tastiera? Non vi pare che una favilla elettrica, sprigionandosi dalle dita nervose, si comunichi alle corde del gravicembalo e da quelle alle fibre degli uditori?... Hans Von Bülow....
La contessa, nel proferire questo nome, spalancò le labbra siffattamente, che la sua prima aspirazione somigliò ad uno sbadiglio. I circostanti, sbadigliando per consenso, ripeterono non so quante volte il nome di Häääns..... E siccome io penava a trattenere uno scoppio di buon umore indiscreto, prima che il grottesco della conversazione provocasse una crisi, profittai dell'incidente e presi commiato.
All'indomani, verso le ore cinque pomeridiane, mi recai all'albergo del Marino, dove il musicista mi attendeva pel pranzo.
Egli aveva fatto apparecchiare la tavola in un piccolo salotto attiguo alla sua camera da letto.
Sulla tavola erano quattro coperti.
—Abbiamo dunque degli altri commensali?
—Gente di fiducia—rispose l'artista sorridendo—mio padre e mio nipote.
E poco dopo, al momento in cui il cameriere serviva la zuppa, entrò nel salotto un vecchio dal volto sano ed intelligente, in compagnia di un grosso garzone senza barba che poteva avere diciotto anni.
La presentazione fu spiccia.
—Ecco un ottimo padre, venuto espressamente da Biella per assistere al mio concerto e per protestare...
—Basta, basta! interruppe il vecchio—in presenza della minestra deve tacere ogni questione—parleremo dopo.
Durante il pranzo, venni a sapere che il padre del nostro pianista era stato per molti anni capo-musica della banda e organista della chiesa di Biella; che aveva composto parecchie sinfonie e due messe, l'una da morto, l'altra da vivo, e che il figlio doveva a lui solo la molta erudizione musicale onde era fornito, nonchè la sua abilità di suonatore.
Levata la mensa, ci assidemmo in faccia al caminetto. Il vecchio fece recare due bottiglie di barbéra, ch'erano, com'egli diceva, la sua tazza quotidiana di caffè. E quando ebbe vuotato il primo bicchiere:
—Ora, a noi altri! proruppe con una certa modulazione di voce che sentiva la stizza e la benevolenza—sentiamo cosa sa dire per sua discolpa il signor Daniel Rabadàn!
L'artista accese uno zigaro, e volgendosi ora a me, ora a suo padre, cominciò di tal guisa:
—Come lei vede, questo mio ottimo padre non sa perdonarmi ch'io abbia cangiato nome. Egli pretende che io abbia sottratto al nome già illustre degli Scannagatta una parte di gloria che gli spettava per diritto.....
—Sicuramente! interruppe il vecchio—e non contiamo il gran danno che tu porti a tutti i Bartolomei (tuo nipote compreso), i quali attendono da secoli che un uomo di genio rifletta sul loro nome vilipeso qualche raggio di luce.
Il giovane Bartolomeo, che fino a quel momento non aveva aperto bocca, si lasciò sfuggire dalle labbra un: contagg!
—Se mi interrompete ad ogni frase, io non verrò[70] mai a capo di giustificarmi..... Lasciatemi dire... Anche i preti, prima di assolvere o di lanciare la scomunica, attendono che il reo abbia finita la confessione. Ed è una confessione, o per lo meno un resoconto sincero della mia vita d'artista che mi trovo in obbligo di fare. Voi, mio padre, ne conoscete una parte, ma vedo che è mestieri ricordarvela. Abbiate dunque la pazienza di ascoltarmi, e poi, quanto al verdetto finale, ci rimetteremo all'arbitrio di una persona affatto disinteressata, vale a dire al nostro amico giornalista.
Il vecchio vuotò un secondo bicchiere, e strinse le labbra in segno del grande sforzo che gli costava il silenzio.
«Non ricordo quale filosofo, riprese il pianista, abbia dettato un libro per dimostrare l'influenza che hanno i nomi sul destino degli individui. Certo è che l'avere un bel nome, un nome geniale e simpatico, ordinariamente porta fortuna. Non ho mai capito questa predilizione dei nostri antenati nell'appropriarsi dei cognomi tolti a prestito dalle bestie. I Gatti, gli Orsi, i Leoni, i Bove, i Capponi, i Galli, perfino i Pulci, i Lumaga, i Sanguettola, i Mosca, i Tenca, i Ghezzi, i Formica, i Volpi, i Merli, gli Allocchi, ecc., ecc., costituiscono la maggioranza delle famiglie italiane..... Poi seguono, in gran numero, i cognomi composti, dove parimenti figurano le bestie; tali i Pestagalli, i Mangiagalli, i Caccialupi, i Portalupi, i Cacciamosche, i Pelegatti, ecc., ecc., e infine, per tacer d'altri, gli Scannagatta. Ecco una statistica che potrebbe fornire ad uno storico, ad un archeologo, fors'anche ad un filosofo moralista, argomento di serie considerazioni. Quanto a me, per non istancare la vostra pazienza, mi limiterò a dirvi che il cognome di Scannagatta fu in certo qual modo la mia disgrazia originale. Non intendo darne colpa al mio ottimo padre, qui presente; nè tampoco serbo rancore a quel dabben cognato che tenendomi al fonte battesimale, si piacque aggravare la mia disfortuna gratificandomi del nome di Bartolomeo.—Fatto è, che all'età di sei anni, quando entrai nella scuola[71] comunale per iniziarmi ai primi esercizi dell'alfabeto, io cominciai ad esperimentare la funesta influenza de' miei due nomi. Tutte le volte che il maestro mi chiamava all'appello, dai banchi della scolaresca io udiva insorgere una specie di miagolio che somigliava ad una protesta contro una scannatura di gatti;—e quando, nel recitare le prime lezioni, mi avveniva di rimanere a bocca chiusa, il maestro, gettandomi il libro alla faccia: Va là, mi gridava, va pur là, che sarai sempre un bartolomeo!
»Queste prime umiliazioni prodotte dal nome mi irritarono, mi contristarono siffattamente, che un bel giorno (voi, mio padre, non lo avrete scordato) venni a casa tutto piangente a manifestarvi il mio fermo proposito di non tornare mai più alla scuola. Il mio proposito fu tanto pertinace che voi vi appigliaste al partito di provvedere da voi medesimo alla mia educazione, e mi insegnaste con tanta amorevolezza e pazienza la bell'arte della musica. Condussi, per una diecina d'anni, una esistenza da romito, uscendo rare volte di casa e sempre solo, studiando indefessamente. I primi successi musicali, ottenuti a Biella nel circolo ristretto dei nostri parenti ed amici, mi avevano ridonato il coraggio, riconciliandomi perfino coi due nomi fatali, che erano stati l'origine delle mie disavventure infantili. Venne il tempo di produrmi nel gran mondo. Tutti mi animavano ad uscire da Biella; e voi stesso, ottimo padre, vi mostravate convinto che io era, per la mia età, un piccolo portento.
»Nella primavera dell'anno..... mi recai dunque, pieno di illusioni e di speranze, alla capitale del regno. Mi accompagnava il cognato Bartolomeo. Ignari sì l'uno che l'altro degli usi del mondo, non ci eravamo data veruna briga per premunirci di lettere commendatizie. Noi giungevamo a Torino colla semplice scorta del mio talento ignorato e colle cento lire messe assieme dalla famiglia per le spese di quel primo cimento.—Ci recammo da un capocomico per ottenere che mi lasciasse suonare qualche pezzo fra gli intermezzi della rappresentazione.—A chi ho l'onore di parlare? chiese il capocomico.—Io mi[72] chiamo, rispose il cognato, Bartolomeo Zuffolone di Biella, e questo giovane è il signor Bartolomeo Scannagatta....—Quanti Bartolomei! interruppe l'artista—e tutti di Biella?... Basta! penseremo..... rifletteremo.....—In quel punto sopravvenne un signore, che era, per quanto sapemmo dippoi, il proprietario del teatro. L'artista drammatico si tenne in obbligo di presentarci a lui.—Zuffolone! Scannagatta! che razza di nomi! esclamò il nuovo personaggio, squadrandomi dal capo al piede come fossimo due mendicanti.—Ci mancherebbe altro! Con questi due nomi sull'avviso, faremmo scappare la gente.—E ci piantò là, traendo seco il capocomico.—Confusi, umiliati da questo primo accoglimento, uscimmo dal teatro e ci demmo a passeggiare per più di un'ora sotto i portici di Po, meditando e discutendo sul da farsi. Per caso, ci venne veduto un magazzino, dove si davano cembali a nolo. Entrammo, sotto pretesto di noleggiare uno strumento, e dopo alcune parole, parendo a noi che il padrone della bottega fosse un uomo ammodo, chiedemmo a lui delle informazioni sulle pratiche a farsi per dare un concerto.—Un concerto di pianoforte!.... esclamò il dabben uomo inarcando le ciglia—ella non farebbe un soldo in questo momento.... Abbiamo qui uno dei più celebri pianisti d'Europa che fa furore nelle sale e nei circoli—la società torinese farnetica per questo straordinario talento—ella avrebbe l'aria di voler sfidare un confronto impossibile.... insomma.... io la sconsiglio dal tentare la prova.—E come si chiama questo portento dell'arte? domandai io, con un leggiero accento di ironia che tradiva le prime emozioni del mio orgoglio giovanile.—Si chiama... si chiama, rispose il noleggiatore dei pianoforti ingrossando la voce, monsieur Etzcy'.—Salute! Dio la prosperi! esclamammo ad una volta mio cognato ed io, credendo che l'altro avesse sternutito—e vedendo che quegli non parlava:—dunque si chiama? replicò mio cognato. Ma non glie l'ho già detto? Etzcy'!...—Ti scoppi il naso!—brontolò mio cognato—e senza altro dire, uscimmo dalla bottega.
»Com'io riuscissi, dopo molte noie e molti sacrifizi, a dare il mio primo ed unico concerto a Torino, non val la pena ch'io lo narri. Voi foste testimonio (e qui il narratore diresse a me la parola) dello scarso concorso di spettatori, del loro contegno indifferente e quasi nemico. Non ho mai dimenticato nè sarò mai per dimenticare che voi, quasi solo, osaste interrompere con applausi e con voci di ammirazione il mio ultimo pezzo. La stretta di mano amichevole e le incoraggianti parole che mi volgeste dopo il concerto furono il solo compenso che io mi ebbi in quella angosciosa serata; senza di voi, il mio giovane cuore da artista si sarebbe lasciato vincere dalla disperazione.
»Tornammo a Biella di assai cattivo umore. Di quel mio debut non parlò alcun giornale tranne un ignobile fogliaccio umoristico, dove il cronista teatrale si scusava coi suoi lettori di non aver assistito al concerto per la diffidenza che gli avevano ispirato i due nomi di Scannagatta e di Bartolomeo.
»Si tenne un consiglio di famiglia. Voi non oblierete, mio ottimo padre, quanto io abbia combattuta la vostra idea fissa di farmi ritentare la prova a Milano In me era già entrata la convinzione che col mio nome di Bartolomeo Scannagatta non era possibile il successo fuori dalla Biella nativa.
»Le vostre istanze mi vinsero.—Voi mi persuadeste che il nostro maggior torto era quello di andare a Torino senza lettere commendatizie, e questa volta me ne procacciaste una mezza dozzina. Partii solo. Il nome di Bartolomeo Scannagatta mi pareva abbastanza grottesco senza condur meco, per rinforzare il ridicolo, un Bartolomeo Zuffolone. Io presagiva che qualora mio cognato mi avesse seguito a Milano, qualcheduno ci avrebbe accolto colla solita esclamazione di ironia: che posso io fare per due Bartolomei? E il mio presentimento colpiva nel vero. Se a Torino il mio sciagurato nome aveva alienata da me l'attenzione e la protezione dei dilettanti, a Milano mi accadde di peggio.
»Quando io mi recai al Conservatorio per ottenere[74] una audizione privata, l'egregio direttore dello Stabilimento mi accolse con paterna benevolenza. Adunò i professori e gli scolari nella sala dei concerti, accompagnò la mia presentazione con parole incorraggianti; ma non appena egli ebbe proferito il mio nome, io m'accorsi che i giovani alunni ed anche qualcuno dei maestri si erano sbandati per nascondere la loro ilarità.—Che volete? Mi appressai al pianoforte di mala voglia—suonai quattro o cinque pezzi dinanzi ad un uditorio svogliato e disattento, e all'atto di abbandonare il mio posto, mi accorsi che nella sala non v'era più alcuno, tranne l'ottimo direttore.
»Questi mi mosse incontro, mi pose paternamente la mano in sulla spalla, e dopo aver encomiato le mie composizioni: «Mio buon figliuolo, soggiunse; è indubitabile che ella possiede un talento notevole, ma pure mi trovo in obbligo di avvertirla che in Milano difficilmente ella potrà farsi strada in questi tempi. Ella ha un torto grandissimo in faccia a quella che ora si suol chiamare la grand'arte, e questo torto consiste nella desinenza del suo nome...—Oh! che dunque? esclamai vivamente—sarebbe ancora questo sciagurato nome di Scannagatta!...
»Oramai a tale siamo giunti, proseguì il direttore-maestro, con un accento che rivelava l'angoscia, che i nomi di desinenza italiana non hanno più credito sulla piazza.—La straniomania è giunta a tale che io mi meraviglio sieno ancora tollerati al nostro Conservatorio una dozzina di maestri, nati e cresciuti nel nostro clima. La si figuri che l'altra settimana in questa medesima sala dov'ella ha trovato degli uditori così indifferenti od avversi, ha destato fanatismo un pianista compositore piovuto dal nord, a lei incomparabilmente inferiore sotto ogni aspetto. Ma egli aveva la fortuna di chiamarsi Sfrrrt...
»A quel punto, due gatti che stavano giocolando sul tappeto, fuggirono a salti per la scaletta che conduce al palco scenico.—Vedete! proseguì il Direttore—questi nomi che mettono in fuga i gatti fanno a Milano ben altri miracoli—giornalisti, musicisti, dilettanti,[75] professori, alunni ne rimangono ammaliati... Se più dura la voga di questi nomi senza vocali e gonfi di aspirazioni, non si potrà parlare di musica e di concerti senza sputare ogni volta mezza dozzina di denti.
»L'egregio vecchio mi aveva dipinta al vero la situazione dell'arte e dei musicisti. Io presentai le mie lettere a due o tre giornalisti, i quali neppure si degnarono di annunziare il mio concerto—e dopo aver suonato al teatro Santa Radegonda, dinanzi ad un pubblico composto per la massima parte di droghieri e di ex-impiegati in pensione, i quali ebbero la bontà di applaudirmi a furore e chiedermi il bis di due pezzi, all'indomani ebbi la soddisfazione di leggere nell'appendice di un grave giornale che un pianista di nome Scannagatta, dopo essersi prodotto fra gli intermezzi della commedia, era partito alla mezzanotte da Milano in un omnibus carico di Biellesi venuti espressamente per ricondurre in patria quel loro genio incompreso.
»Fu allora, che esacerbato, avvilito, ma pure fidente nel mio ingegno e nel mio avvenire, io risolsi di abbandonare l'Italia per cercare all'estero quella protezione che dai nostri mi era negata. Mi scritturai in qualità di maestro concertatore, con un impresario di Stoccolma. Mi tuffai anima e corpo nella musica per dodici anni—ridussi, composi, trascrissi, diressi orchestre, diedi lezioni di canto e di pianoforte, mi produssi in concerti, e rinunziando al mio nome, come avevo rinunziato alla patria, mi creai e feci imprimere sulle mie carte di visita quel Daniel Nabaäm De-Schudmoëken, che in oggi fa tanto dispetto e tanta ira a mio padre.
»Chi esperimentò a vivere per molti anni lontano dal proprio paese, non ignora che quel malessere chiamato nostalgia assale, più presto o più tardi, anche coloro i quali non ebbero in patria che sconforti ed amarezze.—Questa fase della nostalgia venne anche per me. Era un bisogno, una sete di respirare l'aria nativa non solo, ma anche di assaporare il successo in quel paese che a me, negletto e[76] rejetto, non cessava mai di presentarsi quale un giardino incantato delle arti.
»Doveva io, poteva io, dopo le traversie del passato, riprendere il mio sciagurato nome di Bartolomeo Scannagatta, nel giorno appunto in cui io veniva qui per chiedere ai miei connazionali il battesimo della gloria? I fatti che io vi ho narrati vi suggeriranno la risposta. Certo è che, appena fiutata l'aria di Milano, ho dovuto applaudirmi della mia risoluzione. Qual differenza fra l'accoglimento che in oggi viene fatto a Daniel Nabaäm De-Schudmoëken e quello già toccato al povero Bartolomeo Scannagatta di Biella! L'altro ieri, recandomi a visitare il più erudito dei vostri giornalisti, l'ho veduto estasiarsi di ammirazione nell'affissare il mio biglietto di visita. Un altro, nel proferire Nabaäm, rimase per due minuti a bocca spalancata, cogli occhi smarriti nelle palpebre. Due o tre membri della Società del quartetto, nell'udire un mio esecrabile waltzer tutto pieno di dissonanze, parvero assaliti da catalessi—tutte le dame patronesse vogliono vedermi, reclamano le primizie del mio talento—nelle aule del Conservatorio da due giorni è una gara fra maestri, alunni ed alunne, a chi meglio proferisca il mio nome—Stamattina ho ricevuta una lettera di quattro pagine, colla quale un giornalista mi chiede scusa se il mio nome venne stampato senza i due puntini sull'oë, e mi prega di attribuire questa irriverenza alla ignoranza del proto. Insomma...»
—Insomma, interruppe il padre dell'artista, poichè il mondo è tanto buffo, tanto gaglioffo, tanto infatuato di pregiudizi e di minchionerie...
—Trattiamolo com'esso merita—non è vero? E così parlando, l'artista prese amorevolmente fra l'una e l'altra mano la buona testa del vecchio, e gli impresse un bacio sulla fronte.
—Via! via!—riprese quell'ottimo padre raddolcito—chiamati Rabadam, chiamati Balaäm, chiamati come vuoi al concerto—ma quando il pubblico ti avrà applaudito, quando le dame saranno in svenimento, quando i giornalisti avranno sbuffato i loro[77] oh! oh! di ammirazione—ti prometto ch'io salterò in mezzo della sala per gridare a tutta voce: «Sappiate, signori minchioni illustrissimi e colendissimi, che questo bel mobile che ha suonato come nessuno sa suonare, si chiama il signor Bartolomeo Scannagatta, figlio e scolaro di Girolamo Scannagatta qui presente, quondam organista della cattedrale di Biella...
—E musicista, perdio! e maestro come ce ne hanno pochi nel mondo...!
—E poi torneremo insieme a Biella...
—A far della buona e bella musica, in mezzo a gente che se ne intende davvero, perchè ha cuore e buon gusto.
Piperio III, re dei Panami, era un principe saggio e di indole assai mite. I suoi sudditi lo adoravano. Assunto al trono in età giovanissima, egli aveva proclamato ai suoi popoli uno statuto dei più liberali. Gli avventurosi abitatori della Panamia avevano veduto in pochi anni, mercè l'iniziativa del loro principe ben amato, realizzarsi tutte le riforme sociali e umanitarie reclamate dai tempi.... e dai ladri.
Piperio III poteva chiamarsi un re felice. Nel territorio a lui soggetto non esisteva che un solo giornale repubblicano il quale osasse talvolta indirizzargli qualche frizzo mordace. Piperio leggeva quel foglio tutte le mattine tra una fumata e una tazza di caffè. L'ottimo principe sorrideva dei lazzi democratici che lo assalivano. Egli si sentiva troppo integer vitae scelerisque purus, per irritarsi di ogni baja giornalistica.
Nullameno, la esistenza serena di questo principe privilegiato tratto tratto era annebbiata da una leggiera nubecola, da un'ombra nera, che poteva essere gravida di procelle. Quest'ombra era projettata da un naso, dal naso stesso del principe. La natura avea dato a codesto accessorio del volto principesco dei contorni così spiccati, e, diciamolo francamente, delle proporzioni così eccedenti, che a vederlo di profilo, quel naso attirava l'attenzione, e poteva provocare dei sorrisi irriverenti. Naso profilato, simmetrico, perfettamente modellato, ma alquanto più[80] lungo dei nasi ordinari. Il principe, vedendolo riflesso dagli specchi, non osava arrestarvi lo sguardo, e sempre in vederlo sentiva una stretta nel cuore, e la sua fronte si increspava di una ruga sinistra.
Ma quelle impressioni di disgusto non erano che lampi fugaci. Piperio era amato dalla generalità, nè giammai gli era accaduto di sorprendere nel volto di alcun suddito il menomo accenno di ironia all'indirizzo del suo naso. Quel principe osservatore, dopo dieci anni di regno, già cominciava a persuadersi che il difetto da lui solo avvertito, non fosse altra cosa che un'ottica menzogna degli specchi.
Ma la provvidenza non opera a caso
Quando crea un grand'uomo od un gran naso: e aggiungiamo pure quest'altra sentenza infallibile: Da grandi cause non possono prodursi che grandi effetti.
Strana potenza della parola stampata! A ridestare nella mente di re Piperio tutti gli allarmi assopiti, bastarono tre parole del giornale repubblicano stampate in corsivo.
Qual'è l'uomo, per poco sia assiduo lettore di giornali, che mai non abbia impallidito e tremato dinanzi ad una frase in corsivo?
Era un bel mattino di maggio. Il re si svegliava da un olimpico sonno. A destra del letto, da una guantiera sfavillante di oro e di gemme, esalavano i profumi di un moca squisitissimo. Dall'altro lato, sovra un bacile d'argento cesellato, stavano schierati dodici grossi zigari del colore dell'ambra.
Il re accese uno zigaro, assorbì voluttuosamente un primo sorso di caffè, poi, sciolta la fascia al giornaletto democratico, tuffò in esso il suo sguardo penetrante e sereno.
Che è stato? Lo zigaro è caduto dalle auguste labbra. La mano convulsiva del principe tenta invano di riprendere la tazza... Se è vero che l'occhio del basilisco abbia potenza di istupidire i riguardanti, direste che il principe abbia appunto, in quella fitta compagine di parole stampate, incontrato lo sguardo del rettile fascinatore. Il primo movimento del principe[81] fu quello di portare la mano al naso; dopo quell'atto, da pallido che era, l'augusto volto divenne livido e deforme.
Eppure la frase terribile non era formata che da poche innocenti parole allusive al ministro delle finanze: Noi speriamo che la nuova tassa votata dal Parlamento non avrà mai, sotto il regno dell'augusto Piperio una seria applicazione; il nostro re ha troppo buon naso per non comprendere l'impopolarità a cui egli stesso andrebbe incontro apponendovi la sua firma. Sì, noi lo ripetiamo, il nostro re ha troppo buon naso per commettere di tali errori!»
Sotto l'impressione di tale lettura, il re suonò il campanello con impeto violento. Il maggiordomo accorse nella stanza, e, vedendo la strana lividezza del volto regale, mandò un grido di all'armi. Il re fece uno sforzo per dominarsi, e, dissimulando, come poteva, il proprio turbamento, domandò al maggiordomo con voce abbastanza pacata: che tempo abbiamo, Battista?
—Bellissimo, maestà.
—Pure non veggo sole... Il cielo mi sembra bujo!
—Al contrario, maestà!... il sole è limpidissimo! una vera giornata di primavera... Se vostra maestà si degnasse di mettere il naso alla finestra...
Quelle parole furono uno zolfanello gettato nella polveriera. Piperio balzò dal letto, staccò dalla muraglia una lunga scimitarra, e la testa del maggiordomo rotolò sul pavimento. Tuttociò era accaduto in un lampo. Il re, dopo quell'impeto d'ira, ricadde sovra una seggiola come istupidito.
Quell'atroce avvenimento rimase per alcun tempo involto di mistero. La giovane regina a cui l'augusto consorte era solito aprirsi interamente, non ebbe la parola di quell'enigma sanguinoso. Il fatto fu in diverse guise commentato alla corte; il popolo mormorò sommessamente, ma ben presto cessò di occuparsene.
Ciò che più seriamente dava a pensare alla regina, ai ministri, alla corte ed al popolo di Panamia, era lo strano cambiamento sopravvenuto nel carattere e nelle abitudini del principe. Quell'uomo sì mite e manieroso, sì affabile ed espansivo, di giorno in giorno diveniva più tetro e irascibile. Usciva rare volte dal palazzo, e sempre in carrozza coperta, a cortine abbassate. Passava molte ore rinchiuso nel suo gabinetto. Rare volte assisteva al consiglio dei ministri. Ogni qual volta gli accadesse di trovarsi in presenza di estranei, si notava nello sventurato una singolare premura di portare la mano al naso e di tenervela accavallata con una pertinacia inesplicabile. A quella posa insolita della mano, il primo ministro e consigliere intimo di re Piperio annodò, come vedremo, le fila che lo condussero alla scoperta del segreto.
Questo primo ministro e consigliere si chiamava Canella, e dopo la regina, era la persona più influente alla corte. Le sue osservazioni erano quasi sempre infallibili. Egli possedeva il colpo d'occhio che scruta i pensieri e approfondisce i più intimi arcani di un cuore. Un giorno, mentre la regina si doleva fra lacrime e singulti degli strani furori del principe, l'arguto ministro proferì a mezzo labbro tre parole: questione di naso! La regina, come ognun può immaginare, provò una scossa nervosa, e chinò il capo arrossendo.
Il gran Canella non s'ingannava. Per accertarsi, non gli rimaneva che tentare una prova sull'animo del re. Egli non pose tempo di mezzo. Un'ora dopo, il ministro ed il re si trovavano di fronte.
—Maestà! disse il ministro con accento risoluto; io son venuto a rassegnarvi le mie dimissioni...
—Io spero, mio ottimo Canella, che tu vorrai palesarmi le ragioni che ti spingono ad abbandonare il tuo sovrano in questo grave momento.
—Maestà! io vi ho sempre parlato colla massima franchezza, ed è quello che farò anche nell'ora di separarmi per sempre da voi... Da qualche tempo, vostra maestà è di un umore insopportabile. Per ogni[83] nonnulla (e qui il ministro fissò nel volto reale una occhiata incisiva come un trapano), per ogni nonnulla vi sale la mosca al naso...
—Sciagurato! gridò il re balzando dalla seggiola e portando la mano al pugnale...
Ma il ministro non gli diè tempo di tradurre in atto quell'impeto di collera, e, facendosi barricata di una sedia a braccioli, gridò a sua volta con voce di tuono: «O re, la tua ira mi ha tutto rivelato... Il mio sospetto è omai certezza.. Poichè non si tratta che di una questione di naso, io ritiro le mie dimissioni.»
Il re ed il ministro stettero alcun tempo immobili, guardandosi in silenzio. Il principe si sentì soggiogato. I suoi occhi si gonfiarono. Egli ricadde in sulla seggiola singhiozzando e ripetendo con accento convulso: «è vero: questione di naso!... questione di naso!»
L'arguto Canella non proferì che queste parole: «due soluzioni possibili: o tagliare... o incrociare!..»
Le case dei regnanti hanno le muraglie di vetro.
Tutte le precauzioni imaginate dal gran ministro di re Piperio perchè quel segreto di..... naso non uscisse dalla corte, tornarono infruttuose. Di là a poche settimane, non vi era principe d'Asia il quale non ne fosse informato.
—Voglio vedere questo naso!—esclamò il Re di Citrulia, appena letto il dispaccio del suo ambasciatore. E così parlando trasmise il foglio al suo primo ministro.
Il dispaccio era così concepito.
«Sire!
«Finalmente ci venne dato scoprire e siamo in grado di comunicare alla maestà vostra l'origine e la causa persistente della grave perturbazione di spirito avvenuta da pochi mesi nel re dei Panami. Questa perturbazione, che potrebbe o tosto o tardi dar luogo a serissime complicazioni politiche e produrre[84] delle inaspettate tensioni nei rapporti dei diversi stati dell'Asia e dell'universo, ripete la sua ragione dal.... naso del re. Salvo dunque il rispetto che io debbo ad una sacra e reale maestà, io mi tengo in obbligo di informare il mio augusto sovrano e signore che il suddetto naso di re Piperio, per quali cause si ignora, ha preso in sul cadere dello scorso anno uno sviluppo così straordinario, da produrre il più vivo allarme nell'intero corpo diplomatico qui residente. L'altra sera, alla festa da ballo della baronessa Golasecca, ho inteso colle mie due orecchie l'ambasciatore di Noce Moscata esternare a tale soggetto delle opinioni molto avventate. Per mia parte non credo arrischiar troppo asserendo che quel naso è gravido di avvenimenti. Non tacerò alla maestà vostra che io non ho mancato, com'era debito mio, di ideare i più ingegnosi stratagemmi per avere accesso al sovrano onde verificare co' miei propri occhi il singolare fenomeno. Tutte le mie pratiche riuscirono fino ad ora infruttuose. Il cameriere intimo del re, corrotto dal mio oro, mi assicurava l'altro ieri che il naso del suo augusto signore già sorpassa i due metri di lunghezza. Spero fra pochi giorni con nuovo sacrifizio di denaro, aver in mano la misura precisa, e in tal caso non mancherò di spedirla alla maestà vostra aggiungendo quelle altre informazioni di dettaglio, che naturalmente debbono interessarla. Profitto dell'incidente per insistere presso vostra maestà acciò si degni accordarmi un piccolo aumento di fondi segreti—mi pare che le circostanze lo esigano. Qualora tanto ottenessi dalla vostra grazia sovrana, io confido di indurre al più presto il già menzionato corruttibile cameriere a rilevare con cera o con gesso i contorni di questo naso eccezionale, che forse è già prossimo a partorire.... qualche cosa di inaspettato.»
»Accolga la maestà vostra, ecc., ecc., ecc.,»
—Decisamente voglio veder questo naso! ripetè il re di Citrulia—fra due giorni noi ci metteremo in viaggio. Tutta la corte mi seguirà.... Sarà la gita di piacere che tante volte ho promessa alla regina,[85] ai ministri, ai generali, ai miei più affezionati. Vi prometto che rideremo! Voglio ben vedere le smorfie che vorrà fare il mio augusto cugino allorquando sarà costretto a sfoderare la sua proboscide al cospetto di tutta la mia corte!.... Presto! Gli si annunzi la nostra prossima visita!... Ah! vorrei essere nel suo gabinetto quando riceverà il telegramma!.... C'è a scommettere che il suo naso si allunga di due spanne!....
Di tal guisa parlando, il re di Citrulia si era lasciato cadere sui cuscini del trono, e rideva grossamente colle guancie e col ventre.
—Mi perdoni la maestà vostra—osservò timidamente il ministro—ma a me corre obbligo di ricordare che un tale viaggio verrà a costare una diecina di milioni, e mi pare che.... nelle attuali strettezze della Citrulia...
—I Citrulli hanno sempre pagato e pagheranno! interruppe il principe di mal garbo:—non annoiarmi colle tue economie, affrettati a dar gli ordini pel viaggio, e guai se mi aggiungi parola!
Il ministro fece un inchino fino a terra e si allontanò mormorando: «degno re dei Citrulli!»
Per poco che uno abbia delle nozioni mediocremente esatte in fatto di geografia, non può ignorare quale immensa distanza di mare separi la Citrulia dalla floride e popolose provincie della Panamia—I più celeri battelli a vapore, sotto le più favorevoli condizioni atmosferiche, non impiegano in quel lungo tragitto meno di quattro mesi. Il re e la regina dei Citrulli si posero in viaggio col loro seguito al principiare dell'aprile. Al momento del loro imbarco, il telegrafo sottomarino trasmetteva a Piperio un dispaccio, che doveva produrre sull'animo di quel nasutissimo fra i monarchi l'effetto di un colpo di fulmine.
—Guardie! soldati! gridava a tutta voce il disperato principe, percorrendo le sale del palazzo—non[86] vi è dunque fra voi un uomo di cuore che mi salvi da tanta vergogna?... Il re dei Citrulli si avanza... non udite quelle voci di scherno? Che tardate? Sguainate le spade! Eccovi il naso ignudo!... ferite!... tagliate questo oggetto di scandalo e di abbominazione... Tagliate, vi dico, o che io...
E già quattro o cinque soldati avevano snudate le daghe, e stavano per lanciarsi all'assalto dell'augusta proboscide, quando un personaggio ben noto alla corte, voglio dire il ministro Canella intervenne in buon punto ad impedire il nasicidio.
—Sire! gridò il ministro, interponendo la sua tunica fra le daghe dei soldati e la punta del naso regale—io vi ho pur detto che nel caso vostro non si presentavano che due soluzioni possibili: o tagliare... o incrociare—La regina e tutte le persone a voi più affezionate propendono all'incrociamento piuttosto che al taglio—dunque.... incrociamo!
Chi vuol farsi ascoltare, procuri di non farsi capire—il sistema è altrettanto facile che sicuro; e l'astuto Canella n'ebbe una prova luminosa in quel solenne momento.
Il re, dopo breve silenzio e coll'aria di chi tutto comprende si volse al Ministro—Ebbene? quali effetti speri tu ottenere da codesto incrociamento?... Il re di Citrulia si avanza... Con quali intenzioni egli muova a visitarmi tu lo sai... tutti lo sanno...
—Sire! interruppe il Ministro—prima che io vi riveli il mio stratagemma, è necessario che voi rispondiate ad una mia domanda un po' ardita....
—Parla!... ti autorizzo....
—Sapete voi dirmi esattamente quale risulti la lunghezza del vostro augustissimo naso, misurandolo colla mano dalla radice alla punta?
—Mezzo palmo nè più nè meno—rispose l'infelice monarca abbassando gli occhi e arrossendo come una fanciulla al confessionale.
—Ebbene, rispose il ministro con accento di trionfo—col mio sistema di incrociamento noi otterremo che, al solo vedervi, il re, la regina di Citrulia e tutte le persone del loro seguito rimangano con un palmo di naso.
—Un palmo!... Ah!... se ciò avvenisse... ti giuro, mio ottimo Canella, che io creerò per te un nuovo ordine equestre...
Ma il re non ebbe tempo di compiere la frase, perocchè il ministro, che aveva preparato il suo gran colpo di effetto, fece alzare le cortine di seta che dividevano la sala dal vestibolo—e uno strano spettacolo si presentò agli sguardi del principe.
Erano uomini? Erano rinoceronti? Erano elefanti? Ciò di cui nessuno avrebbe potuto dubitare gli è che fossero nasi.—Quando il ministro Canella gli ebbe fatti avanzare, allora soltanto il re Piperio fu in grado di accertarsi ch'erano propriamente individui della specie umana.
—Sire! ripigliò il ministro colla serena pacatezza di chi pregusta il trionfo di un'abile strategia—eccovi dinanzi i ventiquattro nasi più badiali e meravigliosi che mai si vedessero al mondo. Sono un prodotto delle nostre provincie, e c'è d'andarne orgogliosi. Innanzi l'arrivo del re dei Citrulli, ne troveremo parecchie centinaja del medesimo conio e forse anco più massicci—Vostra maestà comincia adesso a comprendere qualche cosa del mio sistema di incrociamento?
Il re pareva assorto in un'estasi di contemplazione, e non dava risposta.—Frattanto i ventiquattro nasi, sotto il comando del loro capitano, eseguivano delle evoluzioni bizzarrissime per le quali tratto tratto veniva intercettata la luce delle finestre.
La regina entrò nella sala inosservata.
La vista di quei nasi inverosimili parve affascinarla.—Stette..... guardò..... ammirò.... fu sul punto di cadere in deliquio.—Poi, volgendosi improvvisamente al marito tuttora assorto nello strano spettacolo.—Piperino mio! gli disse con amabile civetteria—se all'arrivo del re di Citrulia non trovi la maniera di allungarti quattro dita quel tuo gramo nasicciuolo da micio, in verità vorrai farmi una bella figura fra queste cappe da camino che manovrano nella tua corte!
Il re comprese, o parve comprendere.—Si guardò[88] il naso in uno specchio, e il suo regale sorriso parve esprimere due sentimenti controversi di soddisfazione e di vergogna.
—Ebbene?—domandò il Ministro alquanto umiliato e perplesso.
—Incrociamo! rispose il Re—ciò che più preme pel momento è che il re dei Citrulli non rida al naso di re Piperio.
La fregata a vapore che conduceva a Panamia gli augusti ed illustri visitatori entrò il giorno due di agosto nel porto della capitale.—Al seguito del re e della regina si contavano non meno di due mila individui d'ambo i sessi.
Giusta gli usi del luogo e dell'epoca, sovra una piazza a poca distanza dal molo stava eretto un grandioso padiglione, dove tutti i grandi dello stato, ad eccezione del re e della regina, erano convenuti per prender parte al cerimoniale del ricevimento.
Il ministro Canella in abito di parata andò ad incontrare i principi stranieri, e, fatta secondo il costume una riverenza a schiena rivolta, proferì la sacramentale parola del benvenuto:
—In nome di S. M. Piperio III, re dei Panami; in nome dell'augusta sua consorte e degli augusti loro figli già nati e nascituri—a te Cucurbio XIV, ed alla tua augusta consorte Sabetta, ai vostri augusti figli che sono e che saranno, agli illustri del vostro seguito e seguito del loro seguito, benedizione e salute nella vita e nelle borse!—Nella mia qualità di ministro plenipotenziario del re e caudatario della regina, ho l'onore di presentarvi i grandi del regno!
A tali parole, i grandi del regno si avanzarono come un sol... grande.
—I grandi del regno! mormorò la Regina all'orecchio dell'augusto consorte—egli poteva ben dire: i grandi nasi!
Re Cucurbio, per dissimulare la sorpresa e la convulsione del ridere, rispose al ministro ed alla moglie con due sternuti.
Le donne della regina parevano affascinate. Da quella folta di gonnelle uscivano delle esclamazioni intermittenti: «che trombe!... che pifferi!... che canne! come sono organizzati questi signori!... Se tanto mi dà tanto, cosa sarà questo gran naso di re Piperio che fa parlare l'universo!
Ma il re e la regina dei Citrulli sono saliti col loro primo ministro nella carrozza di gala, e già procedono verso la città in mezzo alle acclamazioni del popolo ed ai suoni delle fanfare.
—Mio Dio! esclama la regina, abbandonandosi ad uno scoppio di infrenabile ilarità—abbassiamo i cristalli della carrozza—non vedi, Cucurbio? Se questi popolani fanatici mettono il capo dentro gli sportelli, noi moriremo sotto le puntate dei loro nasi. In verità, s'io dovessi vivere in questo paese, farei mettere dei paranasi alle carrozze!
Re Cucurbio non udiva più nulla. Egli era intento a studiare sopra una cartolina appiccicata al fondo del cappello, un discorsetto umoristico da indirizzare al suo augusto ospite. Quel discorsetto, abilmente redatto dal suo ministro allo scopo di promuovere l'ilarità degli uditori e la confusione di re Piperio, cominciava colle parole: Nas...cono e si nas...condono talvolta, ecc., e finiva coll'enfatica esclamazione: «mi par proprio in questa regia di trovarmi ai piedi del Parnaso!»
Frattanto la carrozza procedeva, e già toccava le porte del palazzo reale.
All'ingresso di quel palazzo stava schierato un distaccamento di guardie, la cui vista suscitò un hurrà di meraviglia.—I nasi di quelle guardie superavano in lunghezza e grossezza tutti i nasi fino allora veduti.
Se il naso di re Piperio è di una linea più lungo—mormorò Sabetta—in verità non capisco come questa regina dei Panami....
Ma in quel punto la carrozza si arrestò—gli[90] sportelli si apersero—e due scudieri genuflessi invitarono la coppia reale a discendere protendendo i loro nasi perchè servissero da predellino.
—Sabetta! esclamò a mezza voce il re dei Citrulli—io prevedo che difficilmente saprò conservare infino all'ultimo la mia serietà diplomatica—purtroppo questo naso di re Piperio produrrà delle tensioni inaspettate, e come giustamente prevedeva il nostro ambasciatore, partorirà una conflagrazione generale. Basta!.., Eccoci nella sala delle Cariatidi... Piperio non tarderà a comparire... Non ti scostare, Sabetta... Tu puoi aiutarmi a star serio... Poni il tuo piede sul mio, e appena vedi spuntare dalle cortine il gran naso del re, appoggiati con tutto il peso della persona su' miei ventiquattro calli... Se è vero che il dolore paralizza la ilarità, noi riusciremo forse con questo innocentissimo stratagemma ad evitare delle collisioni molto più gravi.
Cucurbio ebbe appena il tempo di finire il discorso e Sabetta di applicargli i tacchi alle estreme falangi del piede, quando una voce da clarone annunziò l'entrata di re Piperio e della sua augusta consorte.
—Salute al re dei Citrulli!—salute alla degna sua sposa—salute alle nobili dame ed agli illustri cavalieri che si piacquero visitare i miei stati!
Tali parole profferì Piperio solennemente, avanzandosi di tre passi per abbracciare il monarca straniero.
Cucurbio lanciò di sbieco una occhiata nelle profondità del cappello per richiamarsi alla mente l'esordio del suo discorso.—Poi, nell'atto di alzare lo sguardo al volto dell'augusto suo ospite, non mancò di ripetere sottovoce alla moglie:—«premi i calli, Sabetta... o ch'io mi perdo!»
Che è stato?... Perchè gli sguardi di Re Cucurbio errano smarriti in quel folto laberinto di nasi che formano il cortegio di re Piperio?...
Ma ecco, le labbra di re Cucurbio si agitano per moto convulso, e riescono finalmente a formulare una domanda:
—Qualcuno di loro signori... saprebbe di grazia[91] indicarmi con precisione quale sia l'augusto mortale a cui si competa il nome ed il titolo di re Piperio?
—Io sono quel desso—risponde Piperio, avanzandosi d'altri tre passi.
—No! no! non è possibile! tradimento! tradimento! ruggisce il re di Citrulia, arretrando fino al fondo della sala. Si chiami il mio ambasciatore. Egli solo potrà smentire l'inganno, se è vero che qui inganno ci sia. Che se poi la menzogna, il tradimento fosse opera di lui, se egli avesse esagerato ne' suoi dispacci, se io dovessi nel più mingherlino e spuntato dei nasi riconoscere il naso di re Piperio; in tal caso... (io qui lo giuro per la mia e per la sacra barba di mia moglie) la testa di quel fellone si vedrà rotolare all'istante su questi tappeti.
Un cupo mormorio si sollevò dalla sala, non appena Cucurbio ebbe finito di parlare. Pareva a tutti di trovarsi in presenza di uno di quei prologhi misteriosi e fatali da cui si sviluppano le più sanguinose tragedie.
I seguaci di re Cucurbio stringevano le else... La regina Sabetta, in un crocchio di dame e di damigelle, esprimeva i più strani commenti:
—Che quel naso sia rientrato per effetto di una commozione troppo viva?... Ho inteso dire che un tale fenomeno si è spesso avverato...!
—In verità, rispondevano le dame, dopo tanta aspettazione... e in confronto degli altri... quel nasuccio fa proprio compassione a guardarlo.
Frattanto, trascinato da due dragomani, lo sciagurato ambasciatore del re di Citrulia, l'autore del fatale telegramma, col volto livido e abbattuto giungeva nel mezzo della sala.
—A te!—grida Cucurbio con voce stonata; leva la fronte, gira gli occhi d'intorno, e poi fa di additarmi quale sia fra tanti nasi il vero re dei Panami.
L'ambasciatore si levò tutto tremante, e, accostandosi col debito rispetto a re Piperio, gli toccò leggermente la pantofola coll'indice.
—Dragomani! urla Cucurbio—levate le daghe, e[92] la testa di questo fellone rotoli all'istante sul pavimento.
I dragomani si avanzano.... L'ambasciatore alza un grido—in tutta la sala si manifesta la più viva agitazione—allorquando re Piperio, avanzandosi nuovamente di tre passi, interpone il suo naso fra la vittima e i carnefici.
—Mio regale cugino, augusta Sabetta, ministri, signori, dame e damigelle dei due regni disuniti, ascoltate la voce della giustizia e della verità! Quest'uomo è innocente...
—Innocente! brontola re Cucurbio.—Ma dunque... chi sarà dunque colpevole?... Io non commetterò l'indelicatezza di credere che voi, mio augusto cugino, abbiate voluto farvi gioco della mia e della generale aspettazione, sottraendo con qualche prestigio o sortilegio per noi inconcepibile, un naso che tutti i principi dell'Asia anelano di ammirare e di inchinare.... Se ciò fosse, voi comprendereste, o regale cugino, ch'io avrei mille piuttosto che una ragione per ritenermi corbellato ed offeso—e ch'io dovrei da questo momento presentarvi un ultimatum.
Re Piperio sorrise. Egli era troppo lieto e superbo del trionfo ottenuto, per dissimulare o alterare menomamente la verità. La sua risposta fu dunque schietta, calma e dignitosa.
Egli espose tutta la istoria delle sue apprensioni... Narrò della fiera, insanabile melanconia ond'era stato assalito... Non dissimulò i vivi risentimenti e i propositi disperati del giorno in cui gli venne annunziato che il re di Citrulia muoveva alla volta dei suoi Stati per farsi giuoco di quella eccedenza che a lui, re Piperio, cagionava le più orribili angoscie.
—Fortunatamente, concluse l'oratore, Iddio mi ha messo al fianco un uomo di genio, uno di quei ministri che sono la benedizione dei principi e degli stati.—Il suo stratagemma era semplicissimo: «Chiamate intorno a voi i più grandi nasi del regno, formatevi una corte di nasi, che in lunghezza, grossezza e capacità vincano il vostro.—Allorquando il re Cucurbio e le persone del suo seguito avranno[93] veduto le proboscidi dei vostri cortigiani e delle vostre guardie di palazzo, il vostro naso, per una illusione ottica naturalissima, farà l'effetto di un nano in una assemblea di giganti...
—Oh il bravo! oh! l'astuto! oh! il meraviglioso ministro!—gridarono ad un tempo migliaia di voci, quando Piperio ebbe finito di parlare.
Canella, come un attore chiamato al proscenio, fece un profondo inchino all'assemblea e poi, nel silenzio generale, proferì questi detti:
—Spero bene che la lezione potrà giovare in molti casi a tutti i ministri che sono o che verranno.—Quando, per esempio, un ministro si avveda che il suo re è un imbecille, ricordando la Storia dei nasi, troverà subito il modo di farlo passare per un uomo di spirito...
—Come? sentiamo!—domandarono ad un tempo il re dei Citrulli e il suo ministro.
—Circondandolo di cretini—rispose Canella.
Mentre il signor Rénan sta elaborando le sue Vite degli Apostoli, vale a dire un secondo grand succès di gloria e di marenghi, già preconizzato e strombettato da tutti gli organi della fama mondiale, io mi permetto di pubblicare un modesto compendio della vita di Giuda Iscariota, altro degli apostoli di Cristo, non il più esemplare in quanto a condotta morale e politica, ma forse il più interessante per la singolarità del suo carattere e per la bizzarra varietà delle sue avventure.
Le biografie dei bricconi valgono quelle dei santi, anche in rapporto alla educazione del popolo. La vita di Giuda fornirà agli intelligenti e profondi speculatori delle umane vicende molti avvertimenti salutari.
La biografia di Giuda Iscariota si potrebbe anche intitolare: Metodo naturale e pratico per arricchirsi e camparsela felicemente in mezzo alle crisi ed alle agitazioni politiche dei tempi più difficili. Voi vedete che l'argomento può essere fecondo di utili applicazioni ai tempi che corrono.
Ciò premesso, entriamo in argomento.
Giudaino, che più tardi assunse il nome di Iscariota, quindi si fe' chiamare Bartolomeo Majocchi,[96] nacque in un oscuro villaggio della Galilea, da una buona donna che negoziava di coloniali al minuto sotto l'antica Ditta Isacco Balaam e compagni. Quando il nostro Giudaino venne alla luce, la buona mamma era già vedova da quattordici mesi; e com'ella si era mostrata fino a quel giorno scrupolosamente fedele alle ceneri del marito, il cappellano gridò al miracolo, i villani credettero della miglior fede, e un triduo solenne fu celebrato a spese del Comune.
La madre di Giuda chiamavasi Bersabea o Bersibea—nome di origine caldaica, ma abbastanza espressivo anche nella lingua nostra. Era donna di temperamento vivace, inclinata alle bibite forti, segnatamente all'absenzio di Neufchatel, ch'ella fabbricava in segreto con una mistura di alcool, dulcamara e verde di rame.
Giudaino, nel primo mese di sua vita, non dava alcun segno d'indole perversa. Qualche storico maligno pretende ch'egli poppasse il latte della grossa sua balia con avidità quasi feroce; ma questa calunnia è vittoriosamente combattuta da Giuseppe Ebreo e da altri scrittori contemporanei. La balia non lasciò alcun documento che comprovasse un'accusa tanto puerile. Commettete un assassinio a trent'anni, e i biografi, per dimostrare il vostro istinto malvagio, verranno ad asserire che avete ucciso e mangiato il vostro gemello nel grembo della madre!
L'indole di Giudaino non ebbe a manifestarsi che alcuni mesi più tardi, quando, ricondotto dalla nutrice al domicilio materno, egli diede prova di singolare ghiottoneria, immergendo la testa in un gran secchio di latte e miele, a rischio di morirvi soffocato. La buona Bersabea giunse in tempo a salvarlo, estraendolo dal secchio con molta avvedutezza, e facendogli sorbire un bicchierino di melange, che il bimbo trovò detestabile.
All'età di cinque anni, Giudaino fu mandato alla scuola; ma egli vi giungeva sempre in ritardo, quando il maestro aveva finita la lezione. Abbiamo sott'occhio le lettere di un suo zio brumista, dalle quali risulterebbe che lo sciagurato ragazzo perdesse il suo tempo nella strada giuocando a spannetta.
Nullameno, agli esami semestrali Giudaino ottenne il primo premio, con molto scandalo e molta indignazione per parte dei condiscepoli più studiosi. Più tardi si venne a sapere che il maestro si era lasciato sedurre da parecchi vasi di mostarda a lui regalati dall'allievo. È inutile avvertire che Giudaino aveva rubati quei vasi nella bottega di sua madre.
Ma il premio contestato da mille proteste e da mille recriminazioni, mise il ragazzo a puntiglio. Giudaino, che non mancava di intelligenza, in breve tempo superò tutti i condiscepoli nello studio del greco e del latino. A sette anni egli traduceva Cicerone e commentava Virgilio. A dodici anni sapeva fare dei versi; tanto che, venendo a passare nel villaggio il sotto intendente di Gerusalemme e prefetto degli studi, cavaliere Ponzio Pilato, Giudaino ebbe l'incarico di complimentarlo con un'ode saffica latina all'ingresso di un grande arco trionfale eretto per la circostanza. Ponzio Pilato, che non sapeva di latino, fu oltremodo sorpreso e commosso—accordò al professore la croce di San Maurizio, e volle che il giovane allievo lo seguisse a Gerusalemme, dove gli avrebbe accordata una piazza gratuita in un collegio di Ignorantelli.
Giudaino accolse con giubilo la profferta, sebbene dovesse abbandonare nella solitudine e nel pianto la sua vecchia madre paralitica. Per consolarsi del crudele destino, alla vigilia della partenza, il fanciullo entrò nella bottega, aperse il cassetto molto[98] gentilmente, e si imbottì le saccoccie di mutte piemontesi, moneta antichissima e alquanto sbiadita.
Ma, al posto delle mutte, il buon figliuolo depose un biglietto ripieno di parole affettuose per sua madre: «Consolati, madre mia dolcissima,—diceva lo scritto,—per divenir uomo completo, bisogna passare per le mani dei reverendi Ignorantelli; essi aprono la via alla fortuna ed agli onori del mondo. Mandami la tua benedizione per la posta con lettera franca, e col mezzo del cavallante qualche libbra di cioccolatte per addolcire i professori.»
Giudaino entrò nel collegio, e in breve divenne il Beniamino dei padri. Fece il corso di filosofia, applicandosi in specialità alla logica ed alla dialettica.
Imparò il giuoco della bazzica e del tresette, la dama, gli scacchi e da ultimo il tarocco;—divenne prefettone del collegio e segretario intimo del rettore, che aveva portati dal Belgio tutti i perfezionamenti della scienza umana; ma, sentendosi chiamato alla vita del secolo, un bel giorno si valse della protezione di Ponzio Pilato per riferirgli in confidenza certi segreti dello stabilimento, ch'egli conosceva meglio d'ogni altro convittore. Il collegio fu soppresso, e Giudaino, in premio delle sue rivelazioni, fu elevato al grado di sotto ispettore di polizia nell'undecimo circondario di Gerusalemme.
L'impiego fruttava poco e gli incerti divenivano molto rari, malgrado l'astuzia e la rapace antiveggenza del giovane sotto ispettore, il quale, entrando in carriera, non avea tardato ad apprendere da' suoi superiori e colleghi il metodo più sicuro di quadruplicare le entrate, imponendo una contribuzione volontaria ai borsaiuoli ed alle donne di mal affare, a patto di chiudere uno o due occhi all'occorrenza. Ma il nostro Giudaino comprendeva i pericoli della[99] sua falsa posizione. A quell'epoca, nella Giudea, cominciavano a manifestarsi i primi sintomi di ribellione al governo costituito. Giovanni Battista ed altri riformatori si creavano degli adepti colle prediche e colla moltiplicazione delle pagnotte. Gesù Cristo cospirava contro l'impero, e minacciava una repubblica democratica e sociale!—Gli ufficiali di polizia venivano dal popolo riottoso qualificati coll'ignobile titolo di due e cinquanta!
Gli uomini intelligenti prevengono i tempi, e Giuda era una mente superiore. Piuttosto che lasciarsi destituire dall'imperiale regio governo, egli pensò bene di offerire spontaneamente le sue dimissioni, ritirandosi, com'egli diceva, dalla cosa pubblica. Questo nobile sacrifizio della pagnotta gli guadagnò qualche simpatia nella classe dei liberali—uomini di buona fede e di una ingenuità preadamitica fin da quei tempi!
Libero di sè medesimo, riconciliato alla parte più colta e più rivoluzionaria della popolazione, Giuda cominciò a meditare seriamente sulla propria posizione e sul proprio avvenire.
Egli conosceva assai bene il suo tempo e l'indole immutabile del cuore umano—la semente dei padri Ignorantelli era caduta in buon terreno.
—Vediamo che s'ha a fare per riuscire prontamente! Quattro idee luminose balenarono nella mente dell'astuto pensatore:—Sposare una vecchia con una dote di cinquecentomila franchi—concorrere al posto di ragioniere, cassiere, od amministratore generale presso qualche famiglia cospicua—farsi iniziatore e presidente di una o più società filantropiche, riservandosi il diritto esclusivo di custodire e sorvegliare la cassa—tentare le sorti della politica, lanciandosi arditamente nel campo della opposizione.
Pensato, fatto.—Un bel mattino l'audace avventuriere si recò dal primo sarto di Gerusalemme, certo Prandonio detto lo Scortica, e, spacciandosi barone russo e segretario intimo dello czarre, ordinò quattro tuniche nuove di crine di cavallo, sei paja di calzoni collanti, quattro gilets all'ussera, e un magnifico turbante a coda di pavone.—Il buon Prandonio, cui non pareva vero di poter servire un barone russo segretario intimo dello czarre, in meno di una settimana preparò il sontuoso vestiario, e volle portarlo di persona all'albergo dei Blagueurs, dove Giuda aveva affittato un magnifico appartamento.
Poichè Giuda ebbe provati e riprovati gli sfarzosi abbigliamenti, si mostrò molto soddisfatto del sartore colmandolo di elogi, e promettendogli la sua alta protezione.—«Fra un anno tu servirai lo czarre e tutta la corte di Russia, e presto sarai elevato alla dignità di ciambellano, fors'anche di bascià a tre code secondo la piega della questione d'Oriente. Frattanto dammi il conto, e ripassa fra.... un secolo.»
Prandonio fece un inchino profondo, e, nell'estasi della sua gioia, ricusò di consegnare la nota richiesta. Una tale formalità, con un personaggio di rango sì elevato, gli pareva non solamente arrogante, ma anche superflua.
Giuda si pose allo specchio, vestì gli abiti nuovi, e parve un altro uomo. Quella mattina stessa il calzolaio Mosconio depose nell'anticamera cinque paia di sandali di pelle di castoro fiammanti di bottoni e di fibbie d'argento cristofle, poi ritirossi in punta di piedi, per paura che il russo avesse ad umiliarlo col saldo del conto.
A mezzogiorno, Giuda usciva dall'albergo trasformato completamente, sbuffando fumo d'avana negli occhi dell'albergatore e dei guatteri, che rimasero sulla porta pietrificati.
Fece il giro della piazza, il capo rivolto al quinto piano delle case, una Guida di Gerusalemme nella mano e una immensa borsa di pelle a tracolla.
Vedendo che i borsaiuoli della città non riconoscevano in lui l'ex-ispettore di polizia, con cui molte volte avevano spartiti gli orologi ed i foulards, il nostro avventuriere prese coraggio—e, lanciandosi in una vettura da nolo, ordinò al cocchiere di dirigersi alla piazza Abimelecco, numero centoquarantatrè, alla porta della marchesa Sisara de Japhet.
La marchesa era donna di circa sessantacinque anni, ma l'opinione pubblica si ostinava ad attribuirgliene una dozzina di più, tanto nelle apparenze corporee ella arieggiava il decrepito. Portava una immensa parrucca di peli rossicci, aveva le dentiere rimesse, e un occhio di cristallo della fabbrica Vernet e Compagni. Ma Giuda non era uomo da badare a cotesti accessori volgari della materia. La marchesa era ricca, milionaria, a dir di taluni. Ella rappresentava per lui l'incarnazione di un ideale vagheggiato.
Nelle inserzioni a pagamento dei giornali della sera, Giuda avea letto che la vecchia marchesa aspirava di tutto cuore ad un giovane e robusto marito. Quell'avviso, molte volte riprodotto a caratteri distinti, non poteva dar luogo ad equivoci. La marchesa si qualificava: madamigella di illustre progenie, piuttosto attempata, ma sana di mente e di corpo e dotata di cospicuo patrimonio, disposta a sposare un giovane di ragguardevole famiglia e fornito di sufficienti fortune.
Le attrattive di questo annunzio non erano abbastanza seducenti per destare una viva concorrenza fra i nobili celibatari di Gerusalemme.
Il nostro avventuriere ebbe la fortuna di essere il primo a presentarsi.
Immaginate la sorpresa, la commozione della illustre damigella, quando il maggiordomo venne ad annunziarle la visita del barone Iscariott de Judoff, segretario intimo dello czarre di tutte le Russie, ex-governatore di Malakoff, già ambasciatore presso la repubblica di San Marino, inviato straordinario e plenipotenziario per interim della Giudea e Provincie limitrofe, eccetera, eccetera!
Gli storici e i cronisti dell'epoca ignorano i particolari di quell'abboccamento.—Giuseppe Ebreo si accontenta di accennare il fatto con una certa affettazione di verecondia, la quale darebbe luogo a molte supposizioni piuttosto canagliesche. Fatto è che le nozze si conclusero per le spiccie. Ciascuno dei contraenti avea degli speciali interessi per affrettare la cerimonia.
Appena il nostro Giuda si riconobbe proprietario di un mezzo milione e di un logoro e vecchio carcame di marchesa, assunse immediatamente l'amministrazione del ricco patrimonio, emancipando la dolce metà da qualunque vincolo o livello coniugale. Egli mise innanzi certe sue teorie di tolleranza e di annegazione, che alla marchesa parvero di cattivo genere.
Les salons del principe Iscariott de Judoff si apersero a splendide feste. Il cavaliere e commendatore Ponzio Pilato, allora governatore di Gerusalemme,[103] il vice intendente conte Caifasso, Don Anna il proposto della cattedrale, e molti cavalieri di antica e recente fattura, in una parola tutta l'aristocrazia della città e dei Corpi Santi affluiva negli appartamenti del nuovo titolato.
Ricevimento magnifico, buffet completo, musica eccellente, libertà illimitata.—A che buono rimescolare le vecchie istorie?—Ponzio Pilato nel presentarsi al barone russo, avea chiesto più volte a sè medesimo: dove mai ho veduto altra volta quel ceffo da forca?—poi, dubitando delle proprie reminiscenze, accolse il partito di lasciar correre.
—Non ti pare ch'egli somigli perfettamente ad un questurino dell'undecimo circondario?—chiese una volta al conte marito la contessa Caifasso. Ma il vice-intendente, che a due mascelle spolpava un fagiano levato in quel punto dal buffet, lanciò alla moglie un'occhiata fulminea, e Don Anna fece notare alla contessa come e qualmente il loro ospite illustre avesse il profilo dei Romanoff.
Ma i bei giorni passarono veloci.
Il nostro barone, amministrando il patrimonio della sua dolce metà, fece le cose con tanto garbo, che al termine di sei mesi non gli restò più nulla da amministrare. La vecchia Sisara morì di crepacuore. Giuda che, fino a quel giorno aveva saputo dissimulare in faccia alla società l'orribile dissesto delle sue finanze, dovette alla fine smascherarsi. Gli anziani della parocchia domandarono un anticipo sulle spese delle esequie—e Giuda, per mancanza assoluta di quattrini, non potè accordare alla lacrimata consorte che un funerale di terza classe, a moccoli spenti e barella scoperta.
L'aristocrazia di Gerusalemme, scandalizzata dall'avvenimento, ripudiò ipso facto il barone. Ponzio Pilato, il vice-intendente Caifasso, il proposto Anna, tutti quanti si sovvennero dell'antico questurino, e chiamandosi mistificati da un audacissimo furfante, spedirono quattro carabinieri per arrestarlo. Ma Giuda, che aveva degli amici alla Polizia, fu avvertito in tempo utile, e mentre i carabinieri perlustrarono le sale interminabili del palazzo, egli usciva dalla città, e si avviava passo passo verso Cafarnao, come un borghese onesto che vada a prender aria.
Dopo tre ore di cammino, giunse ad una casa isolata.—Picchiò—gli venne aperto. Intorno ad una lunga tavola sedevano cinque o sei pescatori, mangiando degli agoni fritti alla graticola.—Se possiamo servirla?.... disse il più anziano.—Con tutto il piacere! rispose Giuda, prendendo posto alla tavola. E in meno di due minuti divorò dieci dozzine di pesci, trangugiando le squame e le scaglie.
—Se non m'inganno, disse Giuda, respirando dal pasto—se non m'inganno questa è frutta del lago di Como!... Non ho gustato mai agoni più squisiti!...
—Questi non sono pesci di lago nè d'acqua salsa, rispose gravemente il più anziano dei pescatori—Cantate Domino canticum novum! perocchè voi foste degno di mangiare gli agoni del miracolo!
—In verità..... miei buoni compagnoni..... io non giungo a comprendere... Permettete che io ne assaggi un'altra dozzina... tanto da capacitarmi...
—Prendete! prendete pure—et manducate ad satietatem quia mirabilia fecit Dominus! I cinque[105] divennero cinquemila—e possono diventare cinquantamila—e forse domani saranno cinquemila milioni di milioni!
—Cospetto! incomincio a capire! pensò Giuda, cavando di tasca un astuccio e offrendo degli zigari alla compagnia.—Quel linguaggio misterioso..... quell'enfasi.... quelle citazioni latine.... Sta a vedere che io sono piombato in una loggia massonica della nuova setta! Ah!..... se fossi ancora poliziotto, che bella occasione per far danaro!.... che magnifico arresto! Giuda stette alquanto silenzioso meditando il partito da prendersi.—Poi, vedendo d'aver a fare con gente di buona fede, e riflettendo agli imbarazzi della propria posizione, risolvette di arrischiare tutto per tutto, e di tentare ogni mezzo per aggregarsi alla setta.
Uno dei pescatori il quale nomavasi Pietro, ed era il più autorevole personaggio della brigata, parve indovinare il pensiero di Giuda, e senz'altri preamboli, lo interpellò della sua vocazione:
—Uomo di dura cervice: siete voi pronto a seguire il divin maestro?—colui che è venuto ad esaltare il povero, e ad umiliare il possidente?
—Io non domando di meglio!....
—Colui che quando vuole, moltiplica i pesci come le arene del mare, tanto che i cinque diventano cinquemila?...
—Caspita!... affare eccellente!...
—Colui che cambia l'acqua in vino?...
—Colla crittogama che c'è in giro!... Amici miei... contatemi pure fra i vostri!...
—Ebbene! Benedictus qui venit in nomine Domini!—concluse Pietro imponendo le mani sul capo del nuovo apostolo. Giuda lasciò fare, e picchiossi il petto come un fabbriciere alla messa, biascicando fra le[106] gengive una giaculatoria che aveva imparata da bambino.
—Vediamo, ora, quale impiego si può darti nella comunità, riprese Pietro dopo breve silenzio. Sai tu leggere e scrivere?
—Vi dirò.... la calligrafia l'ho piuttosto buona.... So copiare.... so scrivere sotto dettatura.... Ma a dirvela in confidenza, io non oserei arrischiarmi in uno di quegli impieghi che si chiamano di concetto.... Il mio forte è, come dissi, la calligrafia—nella aritmetica, non faccio per vantarmi, credo che pochi mi stiano al pari—ho finito il mio corso di ragioneria a Gerusalemme, insomma ho tutte le disposizioni e le doti necessarie per essere un buon impiegato d'ordine... come a dire un amministratore, un cassiere, un sorvegliante dei registri...
—Un cassiere!... esclamò Pietro con visibile commozione. Che vi pare, apostoli colleghi?... non sarebbe omai tempo che la società avesse un cassiere?...
Tutti assentirono per acclamazione.
Giuda fece un risolino impercettibile a fior di gengive—poi con voce melata si arrischiò a domandare:
—Ma.... miei buoni signori.... cioè voleva dire.... miei buoni colleghi..... siete voi ben certi.... innanzi tutto... di avere... o di poter avere... una cassa?
Gli apostoli si guardarono in faccia, e parevano imbarazzati a rispondere.
—Non importa! esclamò Giuda riprendendo il suo fare da principe russo:—Createmi cassiere.... ed io... in mancanza d'altri... sì! penserò io a formare la cassa.—L'argomentazione è molto semplice—ed io, per adattarmi alla vostra capacità, qui, sui due piedi, voglio ridurvela a sillogismo.—Un uomo non può chiamarsi cassiere quando non abbia a sua disposizione una cassa—voi mi chiamate cassiere[107] della vostra società—ergo io, conseguenza inevitabile, posseggo una cassa!
Gli apostoli, sbalorditi da questa logica altrettanto profonda che ardita, accordarono a Giuda l'impiego di cassiere, colla riserva di sottoporre la nomina all'exequatur del loro divin maestro.
Di tal modo il nostro Giuda scroccò l'apostolato, ed egli riuscì per qualche tempo a gabbare la buona fede dei santi colleghi, mostrandosi entusiasta delle nuove dottrine, e propagatore zelante delle idee più liberali e democratiche.
Nei caffè, nelle bettole, nelle piazze, egli predicava come un maniaco contro il dispotismo di Ponzio Pilato, contro i vili infamissimi arbitrii della imperiale regia Polizia. Commiserava il povero popolo, annunziava un'êra di abbondanza e di ricchezza universale; e mentre il Divino Maestro insegnava l'umiltà e la rassegnazione, la carità e il disprezzo dei beni terreni, Giuda istigava il povero ad insorgere contro il ricco, eccitava allo sciopero gli operai, declamava contro i padroni di casa, in una parola secondava nel popolo tutti gli elementi dell'ira e della discordia. Egli non aveva tralasciato di aprire delle soscrizioni estorcendo dal povero popolo i sudati risparmi della settimana. Di tal modo sarebbe riuscito a formarsi un buon fondo di cassa, se il divino maestro, edotto dell'indegna simonia, con un giuoco miracoloso della sua volontà onnipossente, non avesse restituito il denaro alle milleducento saccocce defraudate. Giuda, nel constatare il nuovo prodigio, fece una brutta smorfia del naso, anzi, a dire di alcuni storici—rimase con un palmo di naso!
L'orribile vuoto della cassa suggerì all'Iscariota le più desolanti considerazioni.—Un codice, che, ammettendo l'uguaglianza sociale, impone che ciascuno[108] si spogli volontariamente del fatto suo per donarlo ai bisognosi, non rispondeva alle naturali ed intime teorie del nostro demagogo. Egli avrebbe preferito un sistema più radicale e più spiccio: «Prendete ove c'è d'avanzo—fate vostro ciò che non serve agli altri—profittate d'ogni ben di Dio che vi capita sotto l'ugna».
Queste considerazioni alienarono dal divin maestro le simpatie del volubile apostolo. Onde avvenne, che non sapendo ritrarre verun profitto da una cassa eternamente vuota, dopo otto mesi di bolletta disperata, Giuda prese il partito poco onesto di denunziare tutta la setta, e vendere il divin maestro per la somma di trenta denari, equivalenti a due lire austriache e cinquanta centesimi.
La storia dell'infame tradimento è abbastanza nota ne' suoi particolari più minuziosi, perchè altri si faccia a ripeterla. La notte del giovedì santo, Giuda cenò lautamente in compagnia de' suoi colleghi apostoli; poi, uscito dalla sala col puerile pretesto di fumare una pipa all'aria aperta, prese tutto solo la via di Gerusalemme, e andò diffilato all'undecimo circondario di polizia per fare la sua denunzia.
Il passo era piuttosto temerario. I nostri lettori ricorderanno senza dubbio come da parecchi mesi fosse spiccato dalle autorità di Gerusalemme un mandato di cattura contro il sedicente barone Iscariott, segretario intimo dello czarre delle Russie. Il processo dell'audace truffatore era stato dibattuto alla corte delle assisie, e, dietro il verdetto del giurì, il contumace condannato a dieci anni di reclusione per falso, truffa, usurpazione di titoli non propri, e libidine contro natura.—Il matrimonio con una vecchia settuagenaria a quei tempi era considerato delitto contro natura.
Ma i governi dispotici sono troppo informati alla moralità, per non far uso in certe occasioni delicate di eccezionali indulgenze. Giuda, espertissimo dei misteri di polizia, conosceva la storia di molti altri bricconi, i quali erano riusciti a farsi perdonare i più atroci delitti coll'innocentissimo stratagemma di accusare un galantuomo e fornire delle buone calunnie per farlo appiccare. Erode, Pilato, Caifasso, il proposto Anna, il procuratore del Re, i giurati, i legulei, gli scribi, i fabbricieri, i possidenti, gli usurai, in una parola la grande maggioranza degli uomini d'ordine e della moderazione, l'avevano a morte contro il capo della setta cristiana, e già da più giorni correvano sulle traccie di lui per farlo fucilare o crocifiggere senza processo.
Armato di tali considerazioni, Giuda si presentò arditamente al commissario superiore dell'undecimo circondario, e, senza perdersi in preamboli, si esibì di consegnare nelle mani dei carabinieri e delle guardie di pubblica sicurezza il capo della terribile congiura repubblicana.
Come si compiesse la nefanda perfidia, è noto a quanti hanno letto il catechismo. Giuda intascò il denaro dell'orribile contratto, tradì il divin maestro col perfido bacio, e poi, come se nulla fosse accaduto, si recò all'uffizio delle messaggerie internazionali, e prese un posto nel coupè della diligenza che partiva per l'Italia.
Il signor Rénan nella sua Vita di Gesù ha dimostrato quanto vi sia di erroneo nella opinione di coloro i quali pretendono che Giuda si appiccasse ad una pianta di fico. Gli uomini che hanno tempra da[110] Iscariota non commettono simili corbellerie. Citatemi un solo esempio di birbante, il quale siasi appiccato pel rimorso de' propri misfatti!
Giuda possedeva del denaro. Oltre le due svanziche e cinquanta centesimi, guadagnate legalmente come prezzo del ragguardevole servizio reso allo Stato, i nobili e possidenti della città avevano aperto una soscrizione a di lui favore.—Nella notte dal giovedì al sabato di Passione, fu raccolta per l'obolo di Giuda la somma di tremila e cinquecento franchi—dei quali ottocento ventitre vennero incassati dall'apostolo, il resto andò perduto nei diversi uffizi dei giornali promotori e patrocinatori della colletta.
Ma Giuda non era uomo da badare a codeste inezie. Gli stava troppo a cuore di svignarsela presto da Gerusalemme e dai paesi limitrofi, dove un giorno o l'altro qualcuno de' suoi antichi conoscenti avrebbe potuto rimeritarlo del bel servizio reso a Gesù.
Partì dunque, come abbiam detto, colla messaggeria internazionale alla volta d'Italia. Visitò Napoli, la Sicilia, poi venne a Roma, coll'intenzione di stabilirvi il proprio domicilio permanente. Quivi, dopo il breve soggiorno d'una settimana, ricevette un bullettino d'invito pel servizio di guardia nazionale. Protestò, mise innanzi delle scuse, si dichiarò malato di itterizia midollare, ma il Consiglio di Disciplina fu inesorabile. Giuda per evitare l'incomodo di andare la notte in pattuglia, rinunziò alla splendida vita della capitale e recossi a Bologna.
I nostri lettori avranno già notato non senza meraviglia, come Giuda, fino a quell'epoca, fosse andato esente da quella fatale passione, cui tutti gli uomini ben organizzati vanno soggetti una o più volte nel corso della vita.—A Bologna, passeggiando sotto i portici, il nostro eroe vide finalmente una donna....[111] una vergine.... un cherubino!... Il cuore inveterato, quasi ossificato del traditore di Cristo, si infiammò come un mazzo di zolfanelli al contatto di una stufa. La giovinetta chiamavasi Camilla ed era figlia di un salsamentario, che a Bologna passava pel più distinto fabbricatore di mortadelle. Giuda passò venticinque volte dinanzi alla bottega lanciando, attraverso i salami della vetrina, delle occhiate temerarie. La giovinetta ingenua sbirciava, dietro un giambone, il galante forastiero. I due cuori si intesero. Appena Giuda potè leggere nel volto della fanciulla il sentimento di un affetto ricambiato, entrò nella bottega col pretesto di comperare cinque once di salato misto.—La ragazza ebbe il gentile e delicato pensiero di involgere la merce in una lettera tutta piena di frasi appassionate e di errori di ortografia.
Le nozze si fecero presto. Ma essendo giunta fino a Bologna la notizia della orribile tragedia avvenuta a Gerusalemme, e il traditore di Cristo venendo designato dai fogli liberali alla esecrazione dell'universo, Giuda stimò bene di dissimulare la propria identità, e di assumere un nome di capriccio. Nel contratto di nozze, che ciascuno può esaminare quando gli piaccia nella grande biblioteca vescovile di Bologna, il nostro eroe si firmò Bartolomeo Majocchi, negoziante di baccalà all'ingrosso ed al minuto.
Negli uomini di buona tempra l'amore non elide la speculazione. L'idea di stabilire a Gerusalemme un negozio di salami era balenata alla mente imaginosa dell'ex-apostolo, all'indomani delle sue nozze.
Camilla, in mezzo ai trasporti ed all'estasi dei primi amplessi coniugali, aveva dichiarato allo sposo di conoscere perfettamente l'arte di insaccare ed assodare la carne di majale. Il salame, questo genere[112] di commestibile ignoto agli abitanti della Giudea e vietato dalle leggi mosaiche a buona parte di quella colta popolazione, poteva riescire un solletico anche ai palati più scrupolosi.—Affare eccellente!... Si faccia presto, e non si badi a pericolo!
Si fissò il giorno della partenza. Il padre della sposa fu molto contento di pagare in salami piuttosto che in danaro contante la dote della figliuola—e i due conjugi presero la via di Gerusalemme, trasferendo in quella città una dozzina di casse ripiene di prosciutti, codegotti, mortadelle, bondiole, e parecchie forme di cacio parmigiano... per assortimento dei generi.
Prima di entrare in Gerusalemme, il sedicente Bartolomeo Majocchi entrò nella bottega di un parrucchiere, si fece radere la barba, si pose in capo una parrucca rossa, inforcò al naso un paio di occhiali verdi, si applicò due cerotti, l'uno alla pozzetta del mento, l'altro nel mezzo della guancia sinistra, e così trasformato salì di nuovo in carrozza per proseguire il viaggio.
—«Ho dovuto mascherarmi perchè nessuno mi conosca a Gerusalemme, disse Giuda alla moglie—tu sai il proverbio, nemo propheta in patria—sarei anzi tentato di prendere un nome francese... Basta!... a suo tempo vedremo..?»
La Camilla, che era furba come una bolognese, non volle saperne d'altra spiegazione. I due conjugi, appena arrivati a Gerusalemme, presero in affitto una magnifica bottega sul corso Mardocheo, la decorarono con ottimo gusto, e in termine di una settimana, precisamente il giorno di S. Michele, ne fecero la solenne apertura.
L'insegna del nuovo Stabilimento produsse grande effetto. In essa era scritto a cifre dorate: Alla Bolognesina, grande assortimento di salati—specialità: mortadelle di Bologna e codegotti di Morbegno—Dejeuners a la fourchette, Un franc, compresa la tazza Chiavenna—fuoco, stuzzicadenti e seggiole—Cabinets particuliers pour le deux gratis séxes—Sophàs et fauteuils à discretion.—
Tutta Gerusalemme si accalcava nei primi giorni dinanzi alle vetrine. Il sedicente Majocchi ebbe la soddisfazione di vedere non pochi borsajuoli, sue vecchie conoscenze, far l'orologio e il foulard agli ammiratori più fanatici del suo negozio.
Camilla, abbigliata con molto sfarzo, sedeva al banco per iscambiare le monete. I lions, gli uffiziali di cavalleria e gli studenti dell'Università la fulminavano di occhiate attraverso i cristalli. Il marito non vedeva, e agitando una immensa sciabola, passava in rassegna le mortadelle. La curiosità dei Gerosolimi fece il suo sfogo in una settimana; ma il salsamentario non si chiamava molto soddisfatto del proprio commercio.
Qualche neofito della nuova setta cristiana, il proposto don Anna, cinque o sei canonici della cattedrale e la moglie del vice intendente Caifasso, erano i soli avventori della bottega. La contessa di Caifasso aveva altresì profittato dei gabinetti particolari in compagnia di un tenente degli usseri.
La grande maggioranza dei cittadini, costituita da Ebrei superstiziosi e testardi, vedeva di mal occhio quella scandalosa mostra di salami nel luogo più frequentato della città. Gli scribi e i farisei mormoravano—e tutte le sere, nel momento in cui Giuda saliva sullo sgabello per accendere il lampadario,[114] qualche fanatico si arrischiava di lanciare delle pietre contro le invetriate.
L'Iscariota, filosofo profondo, incominciò a riflettere sui pericoli della propria situazione, e a cercare qualche provvedimento.—Questi ebrei, pensava egli, saranno la mia rovina. Ah! se avessi potuto prevedere... Ma... basta!... ciò che è fatto è fatto! Quel Cristo era un grand'uomo... un gran legislatore... Egli permetteva la carne di majale... Decisamente ho avuto un gran torto a denunziarlo!...
L'Iscariota, dopo una lunga meditazione sulle diverse religioni considerate nei loro rapporti colla carne di majale e più specialmente col salame, finì per innamorarsi del Cristianesimo, come quello che poteva immensamente favorirlo ne' suoi interessi commerciali.
Una mattina, essendo venuti a Gerusalemme gli Apostoli Pietro e Giovanni a predicare la nuova legge, Giuda si presentò ad essi per chiedere il battesimo, e fu battezzato in fatti sulla pubblica piazza insieme con altri convertiti.
In quel giorno il nostro avventuriere fece il suo colpo di stato. Compiuta la cerimonia, egli invitò gli apostoli e tutti i nuovo-battezzati a far colazione nel suo negozio. Pietro e Giovanni lodarono le mortadelle—trovarono eccellente la birra—e promisero di far ricapito al negozio ogni qualvolta si recassero a Gerusalemme per la predicazione.—D'allora in poi non fu celebrato un battesimo in Gerusalemme senza che gli apostoli e i nuovi cristiani non chiudessero la cerimonia con una colazione di salame Alla Bolognesina.
Il Cristianesimo fece progressi—la predicazione degli apostoli si estese alla Grecia, alla Turchia, all'Italia, all'Inghilterra—i missionari presero coraggio per tentare nuove spedizioni in lontani paesi.—Bartolomeo Majocchi col suo zelo, col suo fervore religioso, coll'esempio frequente delle pratiche devote, seppe acquistarsi tanto credito presso gli apostoli, ch'essi lo crearono Provveditore Generale della Società de Propaganda Fide. Da quel momento la fortuna dell'Iscariota fu stabilita. Egli cominciò a negoziare all'ingrosso. Aperse delle botteghe a Corinto, a Costantinopoli, a Parigi, a Londra, a Pietroburgo. I principali banchieri di Europa si associarono come azionisti nella impresa; e i titoli della Rendita Salami furono per qualche tempo i più ricercati alla Borsa.
In tal modo l'allievo dei padri Ignorantelli, il Giuda ex-questurino, il cavaliere di industria processato e condannato alle assisie, la spia degli apostoli, il venditore di Cristo, ladro, falsario, paraninfo.... della propria moglie—non solo era divenuto milionario, ma godeva nell'opinione pubblica il massimo credito, ed era citato come tipo di onesto negoziante, di eccellente marito, di buon padre di famiglia.
Tutte le mattine si alzava di buon'ora per assistere alla prima messa; frequentava i sacramenti—alla terza domenica di ogni mese intuonava l'alleluja in coro e portava il baldacchino—prestava tutte le coperte e i lenzuoli della famiglia per pavesare le contrade il giorno del Corpus Domini—alla domenica spiegava la dottrinetta ai ragazzi...
Tale fu la condotta di Giuda Iscariota dopo il suo ritorno a Gerusalemme—e così visse fino all'età[116] di anni novantaquattro e dieci mesi, ricco, beato, padre di bella e robusta prole, amato e rispettato da ogni ceto di cittadini. Morì della gotta per abuso di pollami—lasciando alla vedova ed ai figli un patrimonio di dieci milioni in denaro suonante, venticinque milioni in cartelle dello stato, ed altri ventidue milioni in lardo, baccalà, olio di Nizza, caviale, sardines di Nantes e salumerie di vario genere.
A nessuno, fra i tanti che avevano frequentata la sua bottega pel corso di quarantacinque anni, venne mai in sospetto che il sedicente Bartolomeo Majocchi, o De Majocchi, come si fece chiamare più tardi, fosse il famigerato Iscariota, oggetto di esecrazione, di abbominio a tutto il genere umano. Il solo Don Anna, che aveva naso da canonico, nutriva qualche dubbio in proposito, ma non osò mai manifestarlo neanche agl'intimi amici.
Il ghiotto prelato doveva al Majocchi più di duemila e seicento franchi per vari generi di commestibili presi nella bottega.—Egli amava troppo le lingue di Zurigo e i mascarponi di Codogno, per disgustare un creditore, il quale era pronto a notare per tempo indeterminato.
I funerali di Bartolomeo De-Majocchi si celebrarono a Gerusalemme con pompa non più veduta, e nella epigrafe piramidale esposta sulla facciata del tempio, il di lui nome per la prima volta si vide accompagnato col titolo di conte.
Fatto è, che dopo la morte dell'istitutore, il negozio detto della Bolognesina restò chiuso parecchi giorni per riaprirsi sotto la nuova ditta Barabba e Compagni. La vedova De Majocchi si ritirò dal commercio cedendo la bottega e l'avviamento al suo primo garzone di macelleria. Maritò l'unica figliuola al figlio primogenito del governatore cavaliere Ponzio Pilato, indi lasciò Gerusalemme per chiudersi in una sua villa sul lago di Como, dove fino alla morte attese agli esercizi spirituali in compagnia di un frate gesuita.
La De-Pilato, unica ereditiera dell'immensa fortuna, menò brillantissima vita, continuando la tradizione paterna quanto a condotta politica e religiosa. Le sue sale erano convegno della più eletta aristocrazia e dei più alti dignitari ecclesiastici. E quando ella, per capriccio o per spirito di opposizione, rifiutava di concorrere a qualche opera pia, o negava il solito tributo alla Cassa di San Pietro, i preti non mancavano di ripeterle: vostro padre... quello sì ch'era un sant'uomo... e Dio gli ha dato del bene!...
Qui la nostra istoria finisce—e noi ci ritiriamo senza aggiungere commenti, lasciando che il lettore formoli spontaneamente il suo concetto morale per applicarlo alle difficili emergenze della vita pratica.
Abbiamo scritto con verità e con giustizia.—Se qualcuno credesse scorgere in questa biografia qualche errore di nomi o di date, o qualche madornale anacronismo, venga, per le spiegazioni e per le rettifiche, a fare una visita al nostro domicilio. Ovvero, senza prendersi questo incomodo, giri un'occhiata intorno a sè, cerchi, fra i suoi conoscenti ed amici gli uomini che, sôrti dal nulla si fecero potenti, che divenuti potenti ottennero fama di galantuomini, ed ebbero maggior agio di fare il birbone... Lettori, confessatelo—nella vita di Giuda che io vi ho narrata l'anacronismo non può sussistere—perocchè i Giuda sieno le figure predominanti di tutte le epoche—ed abbiano un tipo troppo marcato perchè la storia possa sfigurarlo od esagerarlo.
Serafino Longhi, sensale di Borsa e sottotenente della Guardia Nazionale, amava con tutto il trasporto dei suoi venticinque anni la moglie di un onesto droghiere di Porta Nuova.
Il qual droghiere da qualche tempo avea perduta la simpatia della sua dolce metà per uno sviluppo straordinario di pancia ed altre imperfezioni fisiche molto compromettenti.
Nulla più facile che sedurre una moglie, quando essa detesti cordialmente il marito. Angiolina, la moglie del droghiere, fu presa dalle forme snelle ed aggraziate del giovane sottotenente, e un bel giorno accordò a Serafino Longhi un colloquio... nel giardino Balzaretti... I due innamorati furono visti passeggiare più di una mezz'ora, e intrattenersi in discorsi animatissimi presso il bosco... del ricino.
—E non ti basta, o adultera donna, non ti basta il sagrifizio della tua onestà, l'oblio dei tuoi doveri[120] più sacri, perchè tu voglia immolare il buon uomo che forse sta frullando il cioccolatte, mentre tu.... perfida!...
Orrore!... oh!... l'infame, l'obbrobrioso complotto!
—Angiolina! mia bella Angiolina, aveva esclamato il sottotenente... Dunque non potremo unirci mai in qualche andito... segreto? trovarci assieme nel misterioso recesso di una camera più o meno mobigliata?... Angiolina: havvi cosa più barbara... più irritante.. dell'amarsi... in un giardino pubblico?
Angiolina chinò il capo con simulata verecondia, e lanciò con un sospiro il veleno della fatale rivelazione.—Nasconditi, o luna—fuggite o ranocchi dalle erbose rive... dileguatevi nel pantano!—Vedeste mai il tradimento consumarsi con più miti apparenze?—Angiolina ha finto di tremare—Angiolina ha finto di asciugarsi una lacrima—e frattanto, all'orecchio del focoso sottotenente giunsero le orribili parole: «se mio marito fosse almeno guardia nazionale!»
—Che!... tuo marito...?!!
—Gran Dio...!!! Ma bada...!
—Tuo marito, dicesti, non monta... la guardia...?
—Pur troppo... egli non monta...! Che... dico? Finora egli non ha pensato a farsi iscrivere.
—Angiolina!... bisogna che tuo marito... monti la guardia! la patria reclama i suoi militi... E tuo marito non deve godere più a lungo di un privilegio.
—Serafino...!
—Addio!
—Tu dunque....?
—Fra tre giorni... tuo marito sarà chiamato... al servizio.
—Crudele!... Ah! troppo io dissi... o tu intendesti troppo!
Giacomo Pizzalunga, il droghiere, il marito dell'Angiolina, è un buon cittadino, patriota fino alle midolle, vero tipo del popolano ottimista la cui parola d'ordine è: «comunque la vadi, i Tedeschi non tornano più!» Nel 1848 egli fu tra i primi a farsi la divisa del milite cittadino—forse fu il primo a montare la guardia armato di tutto punto. Egli avea conservato scrupolosamente le sue insegne militari durante il triste decennio... Nel 1859, prima ancora della battaglia di Magenta, egli aveva diseppellita l'antica tunica da una enorme cassa di candele steariche... Spazzolò ben bene il drappo—diede il lucido ai bottoni... ma nell'atto di riprovarsela indosso... conobbe tutta la enormità del proprio addome.... Quella uniforme divenne per lui la pietra del paragone—egli si accorse di esser ridicolo. Angiolina, volgendo una occhiata alla pancia formidabile del marito.... sentì che aveva cessato di amarlo!...
Giacomo Pizzalunga svestì con dolore la nobile divisa.... e all'indomani consegnolla al sartore perchè ne facesse un paio di brache al puttino... Da quel giorno il buon uomo parve mutato... Ogni qualvolta, andando a spasso coll'Angiolina, gli occorreva di incontrare un drappello di militi cittadini, egli volgeva il capo altrove... abbassava gli occhi, e cantaticchiava mestamente:
Era anch'io di quella schiera!
E allora Angiolina gli diceva: pretenderesti forse grosso popottamo, di metterti anche tu nella guardia? Eh! sarebbe un bel ridere di tutti i tuoi amici e conoscenti!—E il povero droghiere si toccava la pancia e sospirava...
Ma quella sera Angiolina tornava più lieta dell'usato al domicilio coniugale.—Guardati, Pizzalunga!... le insolite carezze di una moglie fanno male al capo!...—È già un pezzo che Angiolina non ti fa tanta festa!—Povero Pizzalunga! Il tuo gran giorno è venuto!
—Sai tu, marito mio, che cosa ho udito da uno de' tuoi amici...?
—Quale...?
—Da uno dei tuoi amici... e non serve nominarlo...
—Ebbene?
—Ho udito dire che nel quartiere tutti si meravigliano di non saperti iscritto nella guardia nazionale... Dicono che nel 1848 eri un buono e valoroso cittadino, e che ora hai messo tanto di coda....
—Posson dire piuttosto che ho messo tanto di pancia, quei gaglioffi! non vedono a che mi hanno ridotto i Tedeschi con dieci anni di vita sedentaria...? Sono qui tutto infermo... e acciaccoso!...
—Eh! via! Giacomino! Io credo che tu esageri un pochetto... con questa tua pancia... e questi tuoi acciacchi! Ne ho veduti anche oggi dei militi della civica, più formati e più complessi di te... E come manovravano!... come marciavano...!
—Tu di' il vero.., Angiolina?
—S'io dico il vero!...
Il colloquio non ebbe conseguenze per quella notte. Ma dopo tre giorni, un tamburino della guardia entrò nella bottega del droghiere per consegnargli l'invito di recarsi presso il Comando superiore della guardia nazionale. Il Pizzalunga lesse, e poi guardò[123] il tamburino con un certo fare di sorpresa, da cui traspariva un leggero sentimento di orgoglio!
Quattro settimane sono trascorse... Verso le otto del mattino, un giovine dalle forme snelle, e una donna dalle prominenze un po' ardite, l'una dalla porta d'Oriente, l'altra da porta Settentrione, precipitano nel giardino Balzaretti. Le due innamorate creature percorrono i viali
Come colombe dal disio chiamate
per coincidere in un punto stabilito—presso l'isola delle zucche.
Voi conoscete senza dubbio l'isola delle zucche del giardino Balzaretti, così denominata per la copia e la buona qualità di questi interessanti legumi che essa produce. A poca distanza dall'isola, si incontrarono dunque il Serafino Longhi e l'Angiolina, moglie al più onesto dei droghieri.
L'adultera coppia ristette senza proferire parola.—Anche l'adulterio ha i suoi presentimenti, i suoi terrori istintivi... Quel giorno era la vigilia di un domani desiderato e temuto, cui forse... doveva succedere una notte piena d'ineffabili gioie e d'ansie crudeli!...
—Ebbene?... osa chiedere Serafino con voce tremante!...
—Domani egli monta!...
—Dicesti...?
—Egli monta... ma io...
—Che?...
—Angiolina! mia ottima Angiolina! Queste frasi tronche... il pallore del tuo volto... la tua agitazione... Esiteresti forse?... Ora che la fortuna ci è seconda... che ogni ostacolo è tolto; dimmi, uno scrupolo puerile, una paura irragionevole ti arresterebbe...? Quali pericoli, Dio buono?—Tuo marito dovrà stare in fazione per ventiquattro ore... Tu vedi bene che non può esservi pericolo. La guardia cittadina è considerata come la più liberale delle istituzioni, perciò appunto che essa accorda ogni mese ventiquattro ore di libertà alle mogli ed ai mariti...
—Oh! la libertà!...
Angiolina sospira l'ultima esclamazione coll'accento del più vivo cordoglio; ma la virtù ha lottato già troppo contro la passione tiranna...
Il giovine sottotenente volle stringere nella sua mano la mano di Angiolina; ma in luogo delle dita morbide e voluttuose, strinse un corpo solido e gelato—era la chiave del portello!
Angiolina è rientrata nel domicilio coniugale.
Vi ricordate la scena fra Marc'Antonio e Cleopatra nel famoso ballo di Rota?—L'iniqua donna vuol cingere le armi al consorte guerriero... Ma la spada cade a terra, mandando un lugubre cigolio;... e Marco Antonio, colpito da orribile presentimento, esita di cimentarsi alla pugna.—Angiolina e il droghiere trovansi nell'identica situazione di Cleopatra e di Marc'Antonio.—Volendo costringere la enorme pancia del marito nei confini un po' angusti della[125] tunica militare, Angiolina ha fatto saltare in aria i cinque grossi bottoni... come altrettanti turaccioli di sciampagna.
La fronte del droghiere si è rannuvolata... Angiolina ha tremato di un orribile sospetto.—«Se questa notte egli perdesse i bottoni—se tornasse...!» Angiolina prevenne il pericolo, assicurando i bottoni all'orlo estremo della tunica con cento riprese di spago cerato.
Al campanile di S. Bartolomeo battono le quattro ore—En marche!—Tutti i negozianti di Porta Nuova escono sulle porte delle botteghe per vedere passare la più grossa pancia della Guardia nazionale.
Giacomo Pizzalunga, per dissimulare le difficoltà asmatiche della sua posizione, camminava a passo di carica.—E nondimeno i maligni sogghignavano—e il pover'uomo udiva suo malgrado certe esclamazioni poco lusinghiere, le quali sconcertavano i suoi primi entusiasmi bellicosi.
—Certe figure non si dovrebbero ammettere nella guardia nazionale....!
—Questo si chiama oltraggiare la divisa!
—A che serve il Consiglio di ricognizione, se quei signori non riconoscono che quel volume di lardo è incompatibile col decoro della istituzione?...
Giacomo Pizzalunga giunse al corpo di guardia ansante e sbuffante...
I militi della sua compagnia lo accolsero con un oh! di sorpresa. Poi, guardandolo in isbieco, mormorarono sottovoce: fra noi non c'era alcuno che patisse eccezione—questa pancia sarà il disonore della compagnia!
Pizzalunga fu posto in coda al battaglione, nell'ultima linea, costituita da altri scarti, obbrobrio della milizia.
Verso le ore cinque, il battaglione colla banda in testa sfilava dinanzi al caffè dell'Accademia.
Il Pizzalunga che, come abbiam detto, marciava nell'ultima fila, udì fremere al proprio orecchio una crudele invettiva!—«Ecco i sicari del popolo, i poliziotti, i croati...»
—Scellerati! pensò l'onesto droghiere, senza uscire di riga—non osavano dir tanto al sor Giovanni, quando entrava in caffè tutto solo, agitando il frustino sotto il loro naso!
Era quella una giornata di insolita agitazione per la guardia cittadina—Si temeva una dimostrazione in senso repubblicano socialista al grido: abbasso Rattazzi! Alcuni dilettanti di Viarenna avrebbero iniziata la grande riforma della comunione dei beni, assaltando il solito stabilimento del solito Binda, per dividersi fraternamente i soliti bottoni.—Giacomo Pizzalunga, uomo d'ordine come tutti i droghieri, avea giurato al capitano di essere pronto a prestare la propria pancia per uso di barricata.—Questa generosa proferta guadagnò al nuovo milite la simpatia del battaglione. Da quel momento il Pizzalunga e la sua pancia furono considerati come una forza di resistenza degna della più alta considerazione.
—Presto! quattro uomini e un caporale!...
—Cos'è avvenuto?... Che vuole la patria?... Pizzalunga, che dormiva da quattro ore, balzò dal letto come... un sol uomo!—ricinse la daga, e uscì nel cortile del palazzo fra i primi volonterosi. Battevano le dieci della notte.
—Siamo dunque alle solite?
—Sicuramente! una grande dimostrazione a Porta Nuova.
—Alla mia porta! esclama il Pizzalunga, infiammato di entusiasmo.—Possibile che il quartiere più tranquillo della città... che la mia buona e pacifica vicinanza prenda l'iniziativa della ribellione?
—Pur troppo i partiti hanno seminato dappertutto...
—Oh! vi giuro che a Porta Nuova han seminato inutilmente... Parola da Pizzalunga, io non ho che a presentarmi per rimettere l'ordine!
—Bravo! voi che avete tanta influenza nel quartiere, prima di ricorrere ai mezzi estremi, potrete calmare il popolo con delle buone e dignitose arringhe!
—Ne tengo due barili nella bottega, e piuttosto che sparger sangue civile, io le metto a disposizione della patria.
—Dunque!
—Armi in spalla, e avanti!
La pattuglia giunse rapidamente all'estremo del corso di Porta Nuova, dove infatti si udivano grida confuse...
I tumultuanti, con grande sorpresa dell'amico Pizzalunga, erano adunati sotto le finestre della sua abitazione...!
Il buon marito sentì uno stringimento al cuore, pensando alla tenera e sensibile Angiolina... rimasta sola e senza alcun difensore, in una notte come quella!
Il caporale della guardia ordina ai militi di arrestarsi—poi, avanzandosi di alcuni passi, prega gli assembrati a cessare dal baccano ed a disperdersi.
—Noi non partiremo di qui, se prima non ci si rende giustizia!—grida uno della folla.
—Sì! giustizia per tutti!—risponde il caporale—dunque: cominciate a dar l'esempio voi col rispettar le leggi...
—È una vera infamia, una vera abbominazione, signor caporale!
—Queste parole sovversive non stanno bene sulla bocca di liberi cittadini!... Signori: per la seconda volta io li prego di ritirarsi... Loro sanno meglio di me che il ministero, fino a quando abbia il suffragio della maggioranza della Camera...
—Eh! che del ministero a noi non importa un cavolo!... Noi vogliamo una riparazione per la villania che ci venne fatta... Noi non partiremo di qui, se prima non viene arrestato quel mascalzone che osò gettare dalla finestra...
—Ma dunque, loro signori?...
—Ella non sa come sia cominciata questa faccenda... La sappia dunque, signor caporale, che eravamo una compagnia di amici... Si veniva dal Bettolino—si cantava la marsigliese...
—La marsigliese!... Loro signori vedono bene... che non si può permettere...
—Si cantava dunque la nostra marsigliese italiana, che comincia colle parole: Daghela avanti un passo!... Ci fermiamo alcuni minuti sotto quelle finestre per intuonare le voci... Si prova—si riprova il pezzo—e appena riusciamo a metterci d'accordo—patatach! dalle finestre del terzo piano piomba in mezzo al nostro circolo una catinella d'acqua, seguita dal fragile recipiente!
—È dunque vero quanto ascolto!—esclama il caporale, volgendo gli occhi alle finestre del terzo piano.
E tutti gli astanti a ripetere l'istoria coll'accento di una indegnazione sulfurea.
—La guardia cittadina protegge sempre gli oppressi, esclama il caporale—e in questo caso gli oppressi siete voi!
—Viva la Guardia nazionale!
—Presto!—avanzatevi, o militi—Io spero.... cioè credo che noi siamo giunti in tempo per operare un arresto. Si batta a quella porta.
—È inutile risponde una voce dalle file dei militi. Io porto in tasca la chiave...
—Chi ha parlato esca dai ranghi e si presenti... Giacomo Pizzalunga esce barcollando dal drappello, e si fa innanzi mostrando la chiave al caporale!
—Di qual modo siete voi in possessione di questa leva di primo genere?
Il Pizzalunga si asciuga il sudore che gli sgocciola dalla fronte a grosse bolle—poi risponde con voce turbata: pur troppo la casa dove fu consumato il delitto.... è la mia abitazione! Io godo tutto l'appartamento anteriore del terzo piano!
—Che! voi abitate al terzo piano! gridò la folla.—Voi dunque saprete chi abbia lanciato l'acquoso proiettile.... Voi ci darete in mano l'autore del tentato assassinio....
—Fosse anche mia moglie! replica il Pizzalunga con accento spartano—io prometto e giuro che giustizia sarà fatta! Pur troppo in questo momento non sono più marito, non sono più droghiere—io rappresento un membro della forza pubblica, un difensore dell'ordine! Però, signor caporale, oso chiedere una grazia.... Se tutto il corpo d'armata entrasse nell'appartamento di Angiolina, ella forse ne morirebbe di terrore.... Lasciate che lo perlustri da solo.... S'ella è rea—ve l'ho promesso,—ve l'ho giurato—subirà la sua pena.—S'ella è innocente; se altri....
Ma qui il Pizzalunga non potè proseguire...... Quell'altri era troppo inverosimile.—Angiolina, in assenza del marito, doveva necessariamente trovarsi sola!... Ah!—non sapeva l'onesto droghiere quale orribile trama fosse stata ordita contro di lui nel boschetto del ricino, e nell'isola delle zucche.
Il caporale cedette alla preghiera del milite—Pizzalunga dischiuse il portello; entrò lentamente a schiena ricurva—e si perdette nell'ombra.
Gli altri militi si posero in agguato agli sbocchi delle vicine contrade.....
Gli assembrati tacevano... aspettando la vittima...
—Dàlli!... fermalo!... arresta!... si sbarri il cammino!....
Un figuro dall'aspetto sinistro prorompe dal portello, e vuol darsela a gambe per la contrada de' Fiori Oscuri... mentre il Pizzalunga grida l'allarmi!
La fortuna non è propizia al fuggente. Inseguito dai militi e da un'onda violenta di popolo, presso lo svolto della contrada, egli scivola sovra una fetta di anguria, e cade in potere de' suoi persecutori.
Un romanziere meno pressato consacrerebbe una ventina di pagine a descrivere il ridicolo abbigliamento e la strana giacitura del mal capitato fuggitivo. La sua testa è chiusa ermeticamente in un cappello a cilindro di smisurata grandezza, che gli scende fin sotto il mento, toccandogli l'estremità delle spalle colle sue ali immense. Un soprabito abbondantissimo, che somiglia ad una tenda di campo, avvolge la snella persona in una spira di grandi pieghe... Quel cappello, quel soprabito sono una accusa eloquente—fornirebbero argomento di condanna, quando anche altri indizi non rivelassero la colpa....
—Quest'uomo è travestito!—esclama il caporale della guardia.—E quando uno prende abiti che non[131] furono tagliati al suo dosso, vuol dire ch'egli ha delle intenzioni per lo meno.... scellerate!—Militi! Aiutatemi a scoprire l'incognito! Provatevi a rimuovere da quella testa criminale la visiera che ci nasconde l'identità dell'individuo.
L'immane coperchio fu levato non senza difficoltà, il naso del paziente parve ribellarsi e protestare contro quell'abuso di potere.
La testa del sottotenente Serafino Longhi uscì dal bossolo—una bella testa, riccamente fornita di biondi capelli.
—Chi siete? come vi appellate? Donde venite?
—Io mi chiamo... Serafino Longhi, sensale di borsa, e sottotenente della Guardia nazionale.
—Voi usciste poco dianzi da un portello sospetto, da una casa, ove questa notte furono commessi degli atti illegittimi. Potete voi giustificare la vostra entrata e la vostra uscita precipitosa da un luogo, che viene designato come un centro di reazione e di attentati abbominevoli?
—Signori: io non so di reazione e di attentati.... Sono andato in quella casa per mie faccende private...
—Voi non dovete ignorare che le finestre di quella casa vomitarono sui passanti dei liquidi poco omogenei ed altri proiettili offensivi....
—Io sono affatto innocente.... Chiedete delle informazioni sul mio conto, e vi diranno se io sia capace di commettere simili imprudenze.... Io andava in quella casa per cercare un onesto droghiere, onde proporgli un vistoso contratto per una grossa partita di fichi secchi....
—E questo droghiere si chiama?...
—Giacomo Pizzalunga!
—Presente!—gridò una voce affannata dal centro della folla. E apertosi un varco a colpi di pancia, il milite Pizzalunga si avvicinò al sergente, levando la mano all'altezza dei kepì.
—Conoscete voi questo giovane individuo?
—S'io lo conosco? Un momento.... aspettate ch'io lo esamini... Eh! certo... Quel soprabito mi sembra averlo veduto altre volte... Dove mai ho veduto quel soprabito? To! Vedete s'io sono una bestia!... Non ho io forse un soprabito perfettamente uguale?...
—Questo individuo è lo stesso che usciva precipitosamente dal portello della casa incriminata, quando voi siete entrato per fare le debite perlustrazioni...
—Può essere... Io non oserei garantire l'autenticità... Salendo le scale al buio, ho sentito un oggetto mobile urtare contro la mia persona... ed ho creduto bene di mandare un grido di allarme!...
—Ottimamente!... Ora l'individuo arrestato, di sua propria confessione si chiama Serafino Longhi, e dice esser entrato in quella casa per comperare una partita di fichi secchi...
—Onoratissimo della commissione!... Il sig. Longhi potrà trovare nel mio negozio ciò che egli desidera...
—Milite Pizzalunga: si rammenti che in questo momento ella ha cessato di esser droghiere; ella rappresenta una parte molto più nobile. Con quella uniforme indosso non si contrattano fichi, ma si tutela l'ordine pubblico e si impone il rispetto delle leggi.—Noi abbiamo non pochi indizi per sospettare meno veritiere le asserzioni del signor Longhi.—La sua fuga, il suo travestimento, e sopratutto questo enorme cappello a cilindro....
—Signori! rendetemi il mio cappello! grida l'arrestato con qualche vivacità...
Ma il cappello è passato nelle mani del droghiere, il quale, dopo averne considerata la forma, e misurata la capacità d'uno sguardo profondo, se lo mette in capo, esclamando: corpo di mille diavoli! o questo è il mio grande cilindro della domenica, o ch'io ho cessato di essere Giacomo Pizzalunga del quondam Pasquale!
Il momento era terribile... decisivo!...—Serafino Longhi elevossi all'altezza della propria posizione.
—Signor Pizzalunga, disse il giovane sensale con accento solenne—voi non vi ingannate; quel cilindro vi appartiene; è roba vostra, come è vostro il soprabito che io porto...
—Corpo d'un baccalà!—esclama il droghiere con voce da rinoceronte.—Spero bene che voi mi spiegherete come mai, ad ora così avanzata della notte, voi abbiate osato introdurvi furtivamente nel mio cilindro e nel mio gran soprabito color nocciolo!
—È ciò che intendo fare sul momento—rispose Serafino—quando questi signori mi permettano di dirvi due parole all'orecchio...
Il caporale della guardia, che era anche egli ammogliato, comprese per istinto i pericoli di quella rivelazione!.... Pizzalunga e il sensale uscirono dalla folla seguiti a poca distanza dalle guardie e dal popolo...
—Credo aver a fare con un uomo di cuore, disse il Longhi al droghiere con voce sommessa...
—Bando ai complimenti, veniamo all'esposito...!
—Oh? sì!... voi dovete essere un uomo di cuore, poichè siete marito di quella brava signorina del terzo piano....
—Signorina!... terzo piano!... mia moglie!...
—Non negatelo... signor Pizzalunga... Voi siete proprio il marito di quella santa creatura che mi salvò la vita!...
—Che! mia moglie... vi ha salvato?... Ah! in nome di Dio! come c'entra mia moglie in tutta questa faccenda?
—Brevemente... Quei giovinastri urlavano sotto le vostre finestre... Canzoni oscene... sapete!—parole da far venir rosso un missionario di Rho, che ne sentono tante!... In quel punto io vengo a passare... Una voce femminile esce dalle griglie al terzo piano.—Finitela una volta di far questo chiasso, grida la voce: nella casa c'è una malata—Creppa! rispondono quei d'abbasso! e poi, una salva di porcherie da muover lo stomaco.—Questa è una vera indegnità! grido io appressandomi a quei dannati.... Dare dei titoli così infami ad una donna, che potrebbe essere una vergine, o per lo meno una buona madre di famiglia...
—Mia moglie Angiolina non è vergine, nè madre di famiglia... ma è una donna che non patisce eccezioni!... Ciò non serve... Continuate! Sentiamo come risposero gli infami.
—Cominciarono presso a poco come voi.—Eh! gridò uno! Lassù non ci stanno vergini, nè sante!... L'Angiolina Pizzalunga è una...
—Una?...
—Una... Non serve ch'io ripeta quella brutta parola... Vi basti sapere, che, senza conoscere la donna in questione, sentii il sangue montarmi al cervello... Insultai, minacciai! dissi roba da chiodi... Ma un dei ribaldi cavò fuori di tradimento uno stillaccio più lungo della vostra daga—s'io non spiccava quattro salti per evitare il colpo, a quest'ora sarei cadavere!
—Cadavere! esclamò il droghiere abbracciando l'augusta sua pancia.—Voi sareste un cadavere[135] per aver difesa la mia inerme Angiolina!—Proseguite!
—Fortunatamente il portello era aperto... Vedendo l'orribile lama incalzarmi come un serpente—io profittai della buona ventura—precipitai nella buca—e lanciai una irremovibile barriera fra me e l'assassino.—Immaginate le grida, gli urli di quella plebe dannata!... Tentavano di atterrare la porta—pestavano coi piedi, colle pietre, coi bastoni... Volevano entrare ad ogni costo, impadronirsi di me, condannarmi alla morte del Prina!
—Del Prina!... Il vostro racconto mi commuove! Proseguite!
—Confuso, atterrito, incalzato dalle orribili minacce, salgo le scale al buio... Cerco un nascondiglio... Al terzo piano odo una voce di donna... Quella voce usciva dalla finestra che mette sul terrazzo.... «Signore! tante grazie della vostra protezione!.... Se mio marito droghiere fosse in casa, io sarei ben lieta di offrirvi il contraccambio... Quanto mi spiace di non potervi dare asilo, di non potervi salvare! Ma il pudore... il decoro... il buon costume innanzi tutto!..... Quando si porta un nome onorato come quello di Pizzalunga!...»
—Povera Angiolina!... Tuo marito sarà il primo e l'ultimo a dirlo: tu non facesti mai torto alla mia stirpe!
—Frattanto la plebe muggiva.... La porta agitavasi sotto l'impeto di molte braccia.... Finalmente, dopo breve silenzio, mi parve che qualcuno aprisse il portello... colla chiave... Mandai un grido di terrore... Ma in quel punto le griglie delle finestre si spalancarono... vidi cadermi ai piedi un involto... e intesi una voce dirmi rapidamente: travestitevi e fuggite!... Era dessa!.... era la donna che io aveva difesa senza[136] conoscerla. Per salvarmi dal pericolo, ella gettava al piede di uno sconosciuto... il soprabito ed il cilindro maritale!—Signor Pizzalunga! osereste voi condannarmi per aver profittato di quella oblazione spontanea?....
—In caso consimile, anche un Pizzalunga avrebbe agito come voi!
Il droghiere si fermò—e appoggiossi al portello della propria abitazione in attesa dei commiliti.—Quando le guardie ed il popolo furono dinanzi a lui: signori, disse, questo bravo cittadino si è abbastanza giustificato col semplice e naturale esposito dei fatti... Rilasciatelo!... Io, Giacomo Pizzalunga del quondam Pasquale sto garante della sua innocenza.—Quanto a voi, temerario campione del bel sesso, io vi prego, con permissione del signor caporale, di salire in persona nel mio appartamento superiore, a ricevere i ringraziamenti di Angiolina e a deporre il mio cappello e il mio soprabito color nocciolo nelle mani della vostra protetta.
Il caporale fa un cenno affermativo—scambia col droghiere qualche parola a voce bassa, e si allontana cogli altri militi. Pizzalunga e Serafino entrano nella casa....
Non rimangono sulla piazza che pochi curiosi.
L'Angiolina era in preda alla più viva agitazione... La voce del marito e dell'amante giungevano al perfido orecchio... Ma erano suoni indeterminati, parole tronche... e sconnesse. Frattanto il Pizzalunga saliva le scale sbuffante ed ansante.... arrestandosi per prender fiato ad ogni svolto di scala... Egli profittava di quelle soste per volgere a Serafino delle domande che all'adultero ombroso parevano suggestive...[137] Finalmente i due galantuomini giunsero al terzo piano.... Pizzalunga mise la chiave nella toppa... La porta cigolò sui cardini sinistramente.... Angiolina, accorgendosi in quel punto che il cappello e il soprabito dell'amante erano rimasti sovra una sedia—con uno slancio ispirato spalancò le imposte della finestra, per espellere quei fatali accessorii.... Dalla piazza sorse un grido di terrore..... Il soprabito e il cappello di Serafino caddero sul selciato, e ristettero immobili come il corpo di un suicida avventuroso.
Lettore costituzionale, non ti adombrare. Noi non violeremo il domicilio altrui... Nessuno saprà, nessuno potrà mai sapere ciò che si passasse negli appartamenti coniugali del droghiere Pizzalunga in quella notte di misteri e di colpe!...—Serafino, pochi minuti dopo, fu veduto uscire dalla casa e palpare il terreno in cerca di un soprabito e di un cappello... Il droghiere, che aveva promesso in parola d'onore di tornarsene al Corpo di guardia prima di mezzanotte, si macchiò del più orribile spergiuro... Giacomo Pizzalunga uscì di casa il mattino, in abito borghese.... Gli abitanti di Porta Nuova lo trovarono alterato nei lineamenti del volto... E nullameno egli ebbe il coraggio di stendere una protesta contro i quattro giornali della sera, che scambiando un paletot ed un cappello per una persona viva, aveano annunziato nei rispettivi gazzettini il suicidio del droghiere G. P.—Fu l'ultimo e il più importante atto politico di Giacomo Pizzalunga... Da quel giorno il tamburino venne indarno a recargli l'invito pel servizio della Guardia... Il biglietto bianco e il biglietto bleu ebbero uguale accoglienza—un amaro e sinistro sogghigno. In men di tre mesi, con grande stupore di tutti i conoscenti ed amici, la pancia di Giacomo Pizzalunga si era completamente dileguata!
Il Consiglio di disciplina è convocato.—Fra i militi che debbono render conto delle mancanze al servizio, domina il grosso testone di Giacomo Pizzalunga.
—Milite Pizzalunga, domanda il segretario del Consiglio, come può ella giustificare le sue replicate mancanze al servizio della Guardia Nazionale?
Pizzalunga esita a rispondere... Si vede che egli medita un pretesto... che egli cerca una scusa qualunque, tanto da evitare la condanna...
—Signore, dice il droghiere balbettando. Tutto il quartiere di Porta Nuova può testimoniare che un poderoso sviluppo della mia costituzione... Insomma! parlando con poco rispetto di loro signori... altre volte io fui esonerato dal servizio per un difetto.... che propriamente non sarebbe difetto... vale a dire per la mia pancia... eccessivamente ben nutrita.... Questa prominenza un po' marcata... e visibile ad occhio nudo...
Gli occhi dei giudici si volgono alle regioni addominali di Giacomo Pizzalunga, ma la pancia del droghiere non brilla che per la sua assenza...
—Ci è noto, risponde il giudice con qualche serietà, com'ella in altri tempi si facesse rimarcare per questa agglomerazione sottocutanea di umori e di adipe ch'ella un po' volgarmente classifica col nome di pancia—Ma al presente io non mi accorgo che il di lei individuo presenti delle prominenze tanto salienti..,
Pizzalunga portò le mani al ventre, e parve sconcertato....
—Pur troppo! sospirò il droghiere—la pancia è sparita, in seguito ad altre protuberanze... voleva dire... in seguito ad un forte mal di testa...
—Ha ella il certificato del medico del battaglione?...
—Signori.... lor san meglio di me che certi mali[139] di testa..... si sentono..... ma non offrono all'esterno tali sintomi....
—Milite Pizzalunga; finchè ella non presenti i certificati richiesti dalla legge, noi non possiamo esonerarla dal servizio.... Frattanto lo condanniamo ad una multa...
—Ebbene! Sì!... Cento multe! mille multe! prorompe il droghiere battendo la mano sul tavolo—ma l'Angiolina non rimarrà più sola di notte!...
Questa ingenua sortita destò l'ilarità dei giudici—e per quel giorno la condanna fu limitata a un franco di multa.
Quattro mesi dopo, l'Angiolina e Serafino si trovarono di bel nuovo a colloquio nel giardino Balzaretti presso la grotta dei sorci.
—Ebbene, non è egli condannato?
—Sì, a ventiquattro ore di prigionia.
—Ventiquattro ore!... A meraviglia!...
—Ma egli ha presentato un ricorso al Comando Superiore... e può darsi che gli commutino la pena...
—Gran Dio! Sarebbe fatale!...
Il giorno seguente al Comando Superiore della Guardia nazionale perveniva il seguente ricorso:
«Io Giacomo Pizzalunga del quondam Pasquale, di professione droghiere, non ho nulla da opporre alla sentenza che mi condanna, per le mie ripetute mancanze, a ventiquattro ore di prigionia..... Solo domando, in via di grazia, che questo Tribunale emani un secondo decreto che obblighi mia moglie a condividere, come di dovere, la mia sorte. In caso diverso io sono pronto a ribellarmi anche alla forza pubblica!»
Il povero Pizzalunga non fu esaudito... e colla perfida Angiolina il droghiere prendeva dopo alcune settimane il cammino dell'esilio.
Era venuta a Trescorre nella stagione delle acque—venuta, come tante altre, per obbedire alla moda, per emanciparsi dalla soggezione maritale.—Ella avrebbe preferito i bagni di Genova o della Spezia, sendo le donne istintivamente portate all'acqua salsa—forse in memoria di Venere nata dalle spume oceaniche, fors'anco per quegli istinti di seduzione e di perfidia che esse—certe donne—hanno comuni colle Sirene.
La signora Amelia (si chiamava Amelia, come la prima donna del Ballo in maschera) era una di quelle signore, che giuocano la parte di vittima, esagerando la tirannide del marito, per farsi compiangere, per farsi adorare, e sopratutto per iscusarsi dei loro peccati.
Una bella signora, che aveva passati i suoi venticinque anni, e muoveva verso i trenta per un delizioso pendio tutto sparso di fiori primaverili.
Per certe donne la primavera comincia, infatti, dopo i venticinque anni. Prima di quell'età, la loro bellezza è un germe senza forma, un bottone enigmatico, di cui nessuno può prevedere lo sviluppo.
Questo sviluppo—(ed ecco il segreto di mille sventure domestiche) questo sviluppo dipende in gran parte dal marito—da quel laborioso coltivatore, a cui il bottone-fanciulla, tolto appena dalla serra-collegio, si affida per caso, per un'attrazione insensata, per magnetismo di effluvii giovanili, e più spesso[142] per una di quelle leggi di convenienza, che sono il miasma corruttore della moderna società.
Povero marito!—Quante volte la sua coltivazione laboriosa e feconda riesce tutta a vantaggio del prossimo!
La donna che, dopo essersi maritata a dieciotto anni, presenta a venticinque e a trent'anni un tipo ideale di perfezione, difficilmente si appaga di un logoro marito, di un marito che ha già fatto il suo corso!
Ingrata!—Ella dimentica tutto—dimentica che Dio e il marito concorsero del pari a crearla. Iddio mette al mondo delle femmine—ma i mariti hanno la missione di creare le donne....
Tronchiamo queste considerazioni antisociali—noi potremmo riuscire ad una conclusione immoralissima, che molti già ammettono tacitamente, essere il matrimonio un peccato contro natura.
Un po' di storia retrospettiva.
Edmondo Della-Rosa, il marito di Amelia, non si allarmava gran fatto della floridezza crescente di sua moglie. Al contrario, si compiaceva delle nuove attrattive ch'ella andava acquistando, senza preoccuparsi dei pericoli. Egli l'amava di cuore, come l'aveva amata per cinque mesi dalla strada alla finestra prima delle nozze, come non aveva cessato mai di amarla in sei anni di vita condivisa, ch'egli chiamava un po' enfaticamente sei anni di luna di miele.
Ma la signora, collo svilupparsi della bellezza, diveniva ogni giorno più esigente. Ogni mattina, pettinandosi allo specchio, ella imparava ad apprezzarsi davvantaggio. Le sue bianche mani diafane si intrecciavano con voluttuosa compiacenza alle lunghe abbondanti chiome. Ella vagheggiava in estasi deliziosa i bianchi contorni delle sue spalle di velluto. Tutte le scabrezze erano sparite. La muscolatura leggermente tracciata sotto un trapunto di bambagia[143] palpitante, non serbava reminiscenze di una età più gracile ed incompleta. Il giglio e la rosa si fondevano con insensibili gradazioni. Quello specchio era un terribile nemico di Edmondo. L'amore inalterabile e monotono di quello sposo di dieci anni, era omaggio troppo insignificante per lei.... per quella Danae convertita in Giunone.
—Quell'uomo non vede nulla!—esclamava ogni mattina la sposa di Edmondo, ammirandosi allo specchio.—Quell'uomo è divenuto glaciale.... è istupidito!.... Scommetterei che, in luogo di compiacersi, egli si irrita de' miei.... progressi!.... Non l'ho veduto imbestialire anche l'altra sera, per aver letto nei giornali che alla festa di corte.... io era una delle stelle?.... Tant'è, signor marito!.... Io non posso farmi brutta per vostro uso e consumo! Non posso eclissarmi per darvi piacere!.... Ah! badate piuttosto, badate, Edmondo, di non provocarmi!.... Certi mariti non sono contenti fino a quando....
E così, ogni mattina. Abbandonata la sua mobile testolina al pettine del brillante parrucchiere, Amelia si cullava in una fantasia poco sentimentale e non abbastanza legittima.
Allorquando—nell'estate del 1860—Amelia annunziò la pretesa di recarsi alle acque—ed era la prima volta che una tale pretesa si introduceva nel bilancio dei coniugi Della-Rosa—Edmondo pose in campo delle difficoltà di prosa economica, che fecero rabbrividire la bella.
Amelia, anche senza gli articoli dell'Uomo di Pietra e del Figaro, era convinta di essere una stella dell'olimpo milanese; e una stella che, nel mese di giugno o di luglio, non si tuffi regolarmente nell'Oceano, non ha più diritto di brillare in gennaio nei palchetti della Scala o nelle sale della Prefettura.
Gli ignobili calcoli dell'economia privata messi in campo da Edmondo, diedero luogo ad una scena—ad[144] una di quelle scene che si chiamano domestiche, e spesso rappresentano la cosa più selvaggia di questo mondo. Il marito dovette transigere. Promettendo le acque salse per un avvenire indeterminato, egli concesse alla moglie un mese di acque dolci o di acque fetide a libera scelta fra S. Pellegrino, S. Omobono, Barco o Trescorre.
Amelia, per discostarsi il meno che ella potesse dal figurino della moda, prescelse Trescorre.—Ma prima di lasciare Milano, ella protestò rovinosamente contro la spilorceria del marito, saccheggiando senza misericordia i magazzeni di Panseri e Garbagnati.
Quella protesta di stoffe e di cifre rappresentava un totale di quattromila e seicento franchi da pagarsi.... più tardi.
Io non conosceva la signora Amelia prima che la mia buona fortuna me la facesse incontrare alle acque di Trescorre—ma il di lei nome più volte mi era suonato all'orecchio. Qual'è il milanese che non sappia a memoria i nomi delle sue stelle? Qual'è di noi, che a sua volta non abbia subìto il disinganno di queste etichette della bellezza, applicate dalla moda ad una elegante fantasmagoria di merletti e di colori, che vuol essere una donna avvenente?
Ma questa volta l'etichetta non era menzogna—non era solamente una vetrina mobile di Garbagnati e Panseri—era una donna reale, una forma elegantissima di donna.
Quando io vidi la signora Amelia discendere dalla carrozza col suo abito vaporoso, aereo, trasparente come una nuvola di perle; quando ella attraversò il cortile dello Stabilimento, lanciando faville voluttuose dai suoi begli occhi azzurrognoli; quando la sua voce limpida e vibrata risuonò al mio orecchio, io non potei reprimere una esclamazione di meraviglia.
L'esclamazione più comune, più banale: come è[145] bella!—Amelia era inebbriata di felicità. Lasciò cadere su me e sugli altri, che del pari l'avevano ammirata, uno di quei lampi di sorriso dove si fondono deliziosamente la vanità e l'ironia.—Un sorriso che voleva dire: gran novità! lo sapevamo da un pezzo, che siamo.... quel che siamo!
Ma vi era in quell'orgoglio qualche cosa di amabile, di lusinghiero per tutti.
Alla sera, nello Stabilimento, non si parlava che di lei. Una stella a Trescorre!—una stella senza marito....! Figuratevi l'agitazione degli eleganti....!
Dopo mezz'ora dal suo arrivo, tutti i lions si erano cambiata la cravatta.
Buona parte di quei lions—perchè dovrò tacerlo?—non rappresentavano il fiore della giovinezza, nè il fiore della eleganza, nè il fiore dello spirito. Erano quasi tutti provinciali nel senso più traslato della parola. Parecchi erano anche affetti di erpete, malattia poco favorevole alle attrattive personali, e avversa più che altre al romanticismo.—Un Narciso milanese—lo chiamo Narciso piuttosto che Tulipano, per usargli cortesia—era, nella comitiva dei bagnanti, il solo giovanotto che avesse le apparenze di un perfetto gentiluomo. Vestiva col buon gusto di Prandoni—mutava rigorosamente di toeletta tre volte al giorno—cavalcava come un palafreniere—sapeva a memoria una diecina di calembours—e suonava con qualche garbo.... una polka. Sulle sue guancie pallide e brune non spuntavano quelle efflorescenze che esigono la cura delle acque sulfuree, od almeno ne accusano gli effetti. Un bel giovanotto—il vero tipo di quei lions, che non hanno altra ambizione fuor quella di sentirsi classificare lions, anzichè bestie di un'altra specie qualunque dal titolo meno sonoro ma più competente.
Secondo ogni apparenza, il nostro Narciso era venuto a Trescorre per fare delle conquiste; fors'anche egli aveva già designata la sua vittima.—Che[146] serve?... Non facciamo misteri!—Egli sapeva che la signora Amelia Della-Rosa doveva recarsi alle acque—e l'aveva preceduta di alcuni giorni per studiare il terreno delle sue evoluzioni, per prepararsi agli assalti.—Che le sue prime prove fossero cominciate a Milano? Che egli avesse già tentato?... Avrei mille ragioni per supporlo.
I miei lettori, dal seguito del racconto, vedranno che la mia supposizione non era infondata.
Narciso, il mio vero lion, al pari di tutti gli altri che avevano la pretesa ad un tal titolo, dopo aver proiettato sulla signora Amelia una occhiata assassina, corse nelle sue stanze a cambiarsi la cravatta. Anzi, egli si cambiò tutto, dalla cravatta agli stivaletti—e credo anche—ma questa è un'ipotesi assurda—che egli introducesse qualche leggiero cambiamento nel colorito della sua pelle.
Confesso la mia debolezza—quella sera io non ebbi il coraggio di discendere nella sala comune senza prima farmi radere la barba e ritoccare i capelli dal Figaro dello stabilimento.
La bellezza della signora Amelia mi aveva stranamente impressionato. Era stata una commozione subitanea e violenta; un fascino, di cui, per verità, non spettava a lei tutta la gloria—perocchè, a quell'epoca, io avessi appena raggiunti i miei ventidue anni—quell'età solforosa, che non ha bisogno di esca e di faville per infiammarsi ed erompere.
Che poteva io sperare?—Una stella!—Questa idea che ella si chiamasse una stella del mondo elegante, mi sgomentava, mi lasciava impietrito.—Ma in nome di Dio, cosa sono queste stelle? In che differiscono dalle altre signore, dalle altre.... donne?...—Donne!—è il loro nome più vero—e quanto alla loro fibra, mi pare che non possa altrimenti essere tessuta da quella di tutte le figlie di Eva.—Anche una stella è soggetta alle passioni e deve avere i suoi capricci!...
E la mia logica andava tanto oltre, che io finii col persuadere a me stesso essere altrettanto facile conquistare una stella, quanto—mi si perdoni la irriverenza—una ortolana di piazza San Stefano.
Tutto dipende dalle attrazioni o dalle ripulsioni—dalle correnti magnetiche—dal caso—dal luogo e dalle circostanze.
La mia prima esclamazione: com'è bella!—quell'atto estemporaneo di sorpresa e di ammirazione mi aveva già guadagnato la riconoscenza e la stima della signora Amelia—mi aveva aperta la via, non dico del suo cuore, ma della sua vanità.—Due mesi dopo, per aver osato rivolgere il medesimo complimento ad una giovane cuciniera che tornava dal verzaro, io mi ebbi, per tutto compenso, un fusto di sedano tra il naso e la bocca!
Eravamo tutti nella sala comune..... ad aspettare—ed è superfluo aggiungere che aspettavamo la signora.
L'amico Narciso si era impiombato dinanzi al pianoforte, e aveva ripetuto la sua polka una diecina di volte. I suoi occhi dardeggiavano la porta di ingresso—la contrazione della sua fronte rivelava un insolito laborìo di cervello, uno sforzo violento dello spirito. Egli chiamava a raccolta i suoi quindici calembours;—fors'anche—per una circostanza tanto solenne, stava creandone dei nuovi.
La bella milanese non si fece molto attendere. Forse—le stelle mi perdonino!—ella era più impaziente di brillare che nol fossimo noi di bearci nei suoi raggi.
Il mio Narciso balzò dallo sgabello—spiccò un salto da levriero, e stese la mano alla signora col fare spigliato di un amico di casa.
—Voi.... alle acque! disse Amelia sbadatamente—e i suoi grandi occhi vellutati passarono in rassegna tutta la comitiva.
—Ah! non è più il caso di dire alle acque, dacchè il sole della vostra bellezza....
—Così presto!.... Rimettetevi al pianoforte, signor Narciso—ai vostri nuovi calembours preferisco ancora la vostra vecchia polka!
Era una impertinenza proferita col miglior garbo—e il mio lion rispose con un sorrisetto di beatitudine che rivelava tutta la sua fatuità.
La signora Amelia, come la più parte dei bagnanti, era venuta a Trescorre con una lettera commendatizia pel medico dello stabilimento—una lettera, che accusava tutti quei sintomi di perfetta salute i quali, sommati insieme, costituiscono la grave malattia del regime alla moda, il pretesto per recarsi alle acque.
Ditemi che l'arte medica non serve a nulla!—Il dottore dello stabilimento, appena entrato nella sala, si incaricò spontaneamente delle presentazioni, mormorando all'orecchio della signora tutti quei particolari della cronaca locale per cui ella potesse rendersi conto della situazione, e prendere risolutamente la sua parte.—Di tal modo si stringono le relazioni, si annodano le amicizie e gli amori—si creano e si sviluppano quei giocondi pettegolezzi, quei deliziosi scandoletti, che fanno tanto bene alla salute dei bagnanti, e mettono in credito le.... acque!
Il dottore era uno de' miei mille e trecento amici, ed io dovetti a questa circostanza che egli mi dipingesse alla signora con tinte piuttosto favorevoli.
Fatto è che dopo averla intrattenuta pochi minuti sul conto mio, quel buon dottore mi si fece incontro per annunziarmi che la signora gli aveva espresso il desiderio che io le fossi presentato.
Mi lasciai condurre—ci ricambiammo le solite frasi, il formulario di tutte le presentazioni—ma il fremito della mia voce, il fuoco che traluceva dalla mia timidezza, dicevano più assai delle parole.
Frattanto il mio bel Narciso aveva ripetuto quattro volte la sua vecchia polka, meditando un nuovo calembour.
Il caldo era opprimente.—Si deliberò di uscire tutti insieme per una breve passeggiata all'aperto.
Come avviene in tali circostanze, la galanteria[149] degli uomini prese fermento.—Un signore dal naso bernoccoluto, dalle guancie di mortadella, si gettò avidamente sopra una zitellona smilza, che era già uscita due volte nell'anticamera a ballare con lui—un prete rubicondo e tarchiato si impadronì di una sua nipotina tutta modestia e tutta polpa—una vecchia contessa bergamasca sopraccarica di collane e di merletti afferrò il braccio di un interminabile seminarista che tre volte, nel far il giro della sala, avea dato del capo nel lampadario—il medico si pose in mezzo a due bicocche in sottana che esigevano, per tenersi in bilico, un punto di appoggio—e tutti quanti avevano già scelta o subita la loro compagna di passeggio—mentre io....
Vedete un po' se io ragionava da cretino: «Offrirle il mio braccio.... questa sera... così presto!.... Ma con quale diritto?.... E se ella mi facesse l'affronto di rifiutare? in tal caso tutto sarebbe finito.... non oserei più tentare.... che dico?.... sarei costretto a fuggire da Trescorre... a non più rivederla!....»
Io non mi accorgeva che la mia perplessità, oltre ad esser ridicola, mi esponeva a commettere una villania.—La signora si era levata in piedi, e si incamminava per uscire dalla sala....
Crederesti, lettore?—Io fui sul punto di volgermi a Narciso per supplicarlo a fare le mie veci, a togliermi da quell'imbarazzo....
Ma il signor Narciso non aveva bisogno dei miei eccitamenti—nella sua qualità di lion, egli aveva già calcolato che il braccio di Amelia gli apparteneva per diritto—che nessun altro avrebbe osato usurparglielo. Egli aveva indugiato a levarsi dal pianoforte per un sentimento di fierezza, o meglio di fatuità, che era propria del suo carattere—l'unico lion si sentiva indispensabile all'unica stella.
E poi, c'era un'altra ragione a quell'indugio—il calembours.—Non appena questa enorme concezione del suo spirito creatore gli parve degna della luce, Narciso si lanciò verso la signora.... Ma quella, volgendosi a me subitamente, e ponendo la sua bella mano sul mio avambraccio—signore, mi disse; vi prego!.... salvatemi voi da quell'importuno!
Non c'erano più scuse—conveniva rassegnarsi a farle la corte—non fosse altro per quella serata.
La luna, il canto degli usignoletti.... No—m'inganno—il cielo era buio—coperto di nuvole opache.—C è proprio bisogno del chiaro di luna per far all'amore?—Al contrario—io credo si possa anche intendersela molto bene con una giovane e bella signora senza la musica degli uccelli.—Preferisco i ranocchi ed i grilli—fanno più rumore.—Quando si passeggia in numerosa brigata, come appunto ci avvenne in quella sera, la sinfonia monotona e chiassosa che si eleva dai pantani e dalle siepi giova assai meglio a coprire il bisbiglio di due innamorati che non il gorgheggio intermittente degli usignoli.
E qual'era il nostro bisbiglio?—Un ritornello molto comune—voi lo sapete a memoria—e potreste ricantarmelo.
Io non amo riprodurre le frasi banali, i dialoghi insensati, che rappresentano la prefazione di tutti gli amori, di tutte le avventure galanti.
La signora Amelia era una donna vanitosa, uno spirito limitato, un carattere di queste.... che io chiamerei piuttosto femmine che donne.
Parlano di amore.... di passione....—e ne parlano qualche volta seriamente, come se amassero davvero, come se davvero soffrissero.—E forse credono di amare, credono di soffrire....! Creature linfatiche e arrendevoli, che facilmente si conquistano, ma presto anche si perdono!
Io non tardai a comprendere quella donna—la sua volubilità, la sua debolezza, i suoi impeti nervosi ch'ella scambiava per aspirazioni sentimentali.
La signora Amelia non era il mio tipo ideale—ma era giovane, era bella, era elegante—e all'età di ventidue anni si oblia facilmente l'idealismo dinanzi a cotali realtà.
Perchè i lettori non rimangano completamente[151] digiuni di quella nostra conversazione, dirò che la signora Amelia, come la Teresa dell'Ortis, nel ricordare il marito lontano, si fermò sospirosa esclamando: son pure infelice!
Dio!—sono tutte infelici queste mogli!
Ad ogni modo la signora Amelia mi aveva fatto la sua professione di infelicità—ed io era in obbligo di consolarla.
Lettori: non vi allarmate!—io era un consolatore novizzo.—Quella sera tornai dalla passeggiata inebbriato di speranze e desideri!
Come siete bella!—Tre parole, e un punto ammirativo.—Orbene: modulate queste tre parole e questo punto ammirativo in tutti i toni possibili—variateli, istromentateli colle perifrasi più o meno ampollose—la bemolle, re diesis, non importa—alternate il cantabile all'allegretto, il moderato al vivace, il pianissimo al forte pichettato—e tosto o tardi riuscirete all'intento.—All'intento di farsi amare?—Via! non siamo troppo esigenti. Per farsi amare da una donna che abbia cuore e intelletto, ci vuol altro che dei punti ammirativi! Non dimenticate che i miei precetti de arte amatoria si riferiscono esclusivamente alla stella del mio racconto, alla signora Amelia Della-Rosa—la quale, come i miei lettori già sanno, non è altro che una femmina di poco spirito e di molta vanità—oh la vanità! esclamerebbe l'amico Cicconi se mi ascoltasse.
Io vi ho dato il talismano per affascinare le donne vanitose—sappiate approfittarne!
La signora Amelia si annoiava di tutte le conversazioni che non fossero un omaggio alla sua bellezza, un incenso alla sua presunzione di semidea.
Io non amo le donne politiche—detesto le donne letterate—ho in orrore le grandi sapute, che dettano[152] di poesia, di critica musicale, di estetica, d'arte. Ciò non toglie che io ami conversare di politica, di letteratura, di musica e di arte colle donne di spirito e di cuore, che il bello comprendono per istinto, che giudicano rettamente per gusto, che fanno la critica e qualche volta la satira per sentimento o capriccio.
Io adoro la donna che tutto comprende, che tutto sente.—Mio Dio!—La passione domanda le sue tregue—Non si può, anche amandosi fino al delirio, mordersi tutto il giorno e tutta la notte come i gatti sull'abbaino!—Riepilogo il mio concetto per rivelarmi completamente; io non posso amare una donna che non sappia intrattenermi aggradevolmente anche quando le intimità più aggradevoli siano cessate.
Io non poteva dunque amare seriamente la signora Amelia—ella non poteva amare seriamente altra persona fuori di sè stessa.
E nondimeno—ciò si spiega facilmente—la sua bellezza mi aveva colpito, ed ella gustava con ebbrezza i miei enfatici omaggi.—Una sera, fermandoci sotto un riflesso di luna, io le aveva detto: avete il collo di un cigno!—Ella portava, quella sera, una guarnizione piuttosto saliente—all'indomani la guarnizione era tolta, e le spalle rotonde, candide, vellutate, esigevano a loro volta il medesimo complimento.—Tutti i giorni si progrediva—ma quello non era progresso di amore. Se io volessi parafrasare la storia di Otello, riassunta da quei due ammirabili versi:
Ella mi amò per le sventure mie,
Ed io l'amai per la pietà che n'ebbe,
dovrei dire... Ma non voglio profanare l'endecasillabo con un concetto sì volgare—dirò in semplice prosa: io non poteva staccarmi da lei per la sua bellezza, ed ella era attratta a me per... i miei punti ammirativi!
Vi ho risparmiato, con questi pochi tratti, una serie[153] di episodi troppo comuni per essere riferiti, per destare interesse. Questi episodi, che erano la preparazione della grande catastrofe finale, si successero incalzanti e vivaci per quindici giorni...
I bagnanti cominciavano a mormorare... Narciso, il mio elegante rivale, ci importunava col suo spionaggio. Qualche volta egli si prendeva il crudele diletto di intromettersi alle nostre passeggiate solitarie.—Quando noi uscivamo a piedi, egli ci seguiva a cavallo.—Dall'alto del suo bucefalo egli ci dominava superbamente—ci salutava col fare grandioso di Ciniselli, e il suo sorriso cavalleresco pareva dirci: miserabili... che fate all'amore nella platea!
Voi vi aspettate una scena violenta—un duello—disingannatevi!—La fine di questa mia storia potrà sembrare ridicola a molti, ma essa non avrà nulla di comune colle solite istorie di amore.
Come ho detto—i preliminari durarono quindici giorni...
Una sera, la signora Amelia, tornando dal passeggio, era alquanto spossata... Accusava una leggera indisposizione...
La accompagnai nella sua stanza da letto—ella si abbandonò languidamente sopra un divano, e stendendomi il braccio tutto nudo, mi pregò di sentire i battiti del suo polso.
La cameriera—un personaggio che finora abbiamo obliato in quanto nel nostro romanzo intimo rappresentasse una parte affatto secondaria sebbene favorevolissima—la cameriera, prevedendo il consulto e l'ordinazione del medico, si offerse tosto di andare alla farmacia.
—Va pure, Angiolina!
La signora Amelia non aggiunse altro. Ma le cameriere indovinano tutto—e Angiolina partì rapidamente senza attendere la ricetta.
Rimanemmo soli.—Buona Angiolina! che Iddio ti compensi delle tue ottime intenzioni, e ti conceda di[154] impiegare quest'ora, come tu meglio desideri, col sottocuoco dello Stabilimento!
E qui—mi perdoni il lettore—è necessario che io riproduca una parte del colloquio fra me e la signora Amelia—che io chiarisca questa scena culminante del dramma, onde nessuno abbia la temerità di supporre oltre il vero.
—Angiolina!... Mio Dio!... Come è imprudente quella ragazza!... Ella se ne va... ci lascia qui soli!...
—Che serve, Amelia?—Non è la prima volta che noi ci troviamo così deliziosamente accompagnati.... senza testimoni, senza...
—Ebbene: ti pare che io abbia la febbre?...
—Mi pare che tu sia più bella che mai... Non ho mai veduto i tuoi begli occhi brillare di tanta luce!...
—Domani giungerà mio marito!—esclamò Amelia atteggiandosi a vittima.
—Egli!
—Rientrando allo Stabilimento, ho trovata una sua lettera che mi dà questa consolante notizia.
—Domani!...
—Sicuro... domani.
Restammo alcun tempo senza parlare. La signora Amelia mi guardava fissamente, con un'espressione ad un tempo desolata e provocante.
Io sentiva i doveri della mia situazione. Quando anche il fascino voluttuoso di quella donna non mi avesse sollecitato, la paura di rendermi ridicolo, di passare per un imbecille, doveva necessariamente animarmi a tentare il più difficile assalto.
—Amelia—presi a dirle con trasporto—non puoi imaginare la terribile scossa che ho provato! Eppure, tosto o tardi ciò doveva accadere... Non era a sperarsi che questa esistenza potesse durare eternamente....
—Eravamo troppo felici!—rispose Amelia sospirando.
—Sì... abbastanza felici—proseguii con calore—per non avvederci che tutto il nostro paradiso era costituito sull'orlo di un abisso!... Quando tu mi parlavi di lui... di quell'uomo che non ha saputo apprezzarti...[155] che ti ha reso tanto infelice—che vuoi?—io prendeva parte alle tue amarezze, io deploravo il tuo passato, senza riflettere che queste amarezze e questo passato dovevano riprodursi in un prossimo avvenire... La condotta di quell'uomo mi faceva raccapriccio; eppure, io mi consolava con questo pensiero, che se egli fosse stato uno sposo più tenero, più sensibile alle tue bellezze, più affettuoso—il tuo cuore sarebbe rimasto a lui solo... Mi era fatto una singolare idea della nostra situazione..... Appoggiandomi alle ragioni del cuore, mi pareva che fra te e lui tutto fosse finito.—Per quindici giorni ho potuto illudermi in questa chimera di felicità... Ed ora tu vieni a dirmi; domani!... Ma dunque... fra ventiquattr'ore... i nostri giocondi ritrovi, i nostri colloqui, tutti gli anelli di questa catena deliziosa si scomporranno..... avrò cessato di stringere al labbro questa tua mano così bianca... così morbida e soave!...
—Oh! spero bene—mi interruppe la signora col suo fare più milanese—spero bene che la presenza di mio marito non ci impedirà di passare insieme buona parte della giornata... spero bene che non cesserai di accompagnarmi al passeggio—che, finita la stagione delle acque, tornando a Milano, vorrai farmi qualche visita...
—Ma tu credi... Amelia.... tu credi proprio che non ci saranno ostacoli per parte di lui?...
—Lui!... mio marito! Sta a vedere che Edmondo comincerà adesso a farmi l'Otello!... Non te l'ho detto tante volte?... Io non sono una donna per mio marito... Vedrai domani... Egli non crede che vi siano al mondo degli uomini così privi di buon gusto da far la corte a sua moglie!
—Si può esser più cieco?
—E più imprudente, dico io! All'ultima festa del Sindaco, lo scorso carnevale, egli mi ha lasciata tutta la notte in balìa di un uffiziale dei cavalleggeri, un bel giovinotto, che mi ha fatto ballare.... che mi ha fatto ballare!... Crederesti? In tutta quella lunga serata, Edmondo mi si è accostato una sola volta per ringraziare il mio cavaliere della sua assiduità, per[156] congratularsi con lui della sua instancabile condiscendenza! Quasichè, a farmi ballare tutta la notte, quel povero uffiziale avesse compiuto un eroico sacrifizio!...
—Amelia... Ciò che tu mi dici è incredibile!...
—E ti assicuro che quell'uffiziale non perdeva il suo tempo... e che io più di una volta fui costretta di richiamarlo al dovere...
—Basta, Amelia! Mi vengono i brividi a pensarci! Io non potrei tollerare che un altro uomo stringesse nella sua, questa tua mano adorabile...
—Via, moderiamo questi trasporti! Il dovere... l'onore... la pace di mio marito!...
—Questi capelli morbidi e profumati... queste labbra spiranti voluttà... tutti questi tesori della bellezza....
—Calmati!... Dio!... Se qualcuno... se Angiolina.... rientrasse...
Ma in quel momento io era divenuto temerario come si può esserlo a venticinque anni dinanzi ad una giovane avvenente donna, quando gli scrupoli del rispetto e il ritegno di un vero e profondo amore non si oppongano agli impeti violenti del sangue.
Amelia, inebbriata di vanità, opponeva alle mie sollecitudini una resistenza che era tutta di parole.
—Badate! io vado in collera davvero! Io vi lascio... lasciatemi... Io chiamo gente... Mio Dio! Se entrasse qualcuno.... Ma questi non sono modi... Angiolina!.... Angiolina... dico!
Orribile contrattempo!
La signora aveva ripetuto non so bene quante volte il nome della fida cameriera con voce bassa e interrotta dai sospiri.... E nondimeno un rumore di passi, e due colpi bussati alla porta mi fecero trasalire.... mi obbligarono a riprendere una posa che in quel momento era per me la meno naturale.
Angiolina entrò nella stanza con aria affannata....
—Presto, signora!... Una sorpresa... il padrone.... il signor Edmondo è entrato nel cortile in un legno da posta..... Gli ho detto che eravate un poco sofferente... Egli ascende le scale.... egli è là...
Mi alzai dal divano colla sollecitudine dell'uomo colpevole...e mossi alcuni passi per uscire dalla camera....
—Restate! disse Amelia levandosi in piedi e afferrandomi la mano.
—Ma se egli!...
—Ma se egli sa tutto!—esclamò Amelia col suo fare più indifferente...
—Sa tutto!... Mio Dio!...
Il sangue mi si agghiacciò nelle vene. La voce del signor Edmondo Della Rosa mi giunse all'orecchio... Egli si era fermato nell'anticamera per dare alcuni ordini al cocchiere.... Amelia, senza abbandonare la mia mano, mi precedette verso la porta per andare incontro ad Edmondo.—Vi ripeto che egli sa tutto! mi ripetè con voce sommessa—e poi, accennandomi di rimanere in disparte, diede una spinta all'uscio e si trovò fra le braccia di suo marito.
Dopo quello slancio di tenerezza coniugale, compiutosi da ambe le parti con sufficiente naturalezza, Amelia si volse a me per presentarmi al signor Edmondo Della Rosa suo marito.
Io mi feci innanzi timidamente.—Non osava levare la faccia.
—Io vi debbo molti ringraziamenti,—mi disse Edmondo coll'affabilità più cordiale—io so tutto... so quanto avete fatto per mia moglie... e spero che non cesserete di essere dei nostri in questi pochi giorni che avrò il piacere di passare alle acque.
Così parlando, il marito di Amelia mi stese la mano ed io gliela strinsi col fare più amichevole. Che non avrei dato per poter detestare quell'uomo?....
E rare volte mi era accaduto di trovarmi in presenza di un uomo, che a primo aspetto sapesse conciliarsi tanta simpatia. Edmondo Della Rosa era uno di quei signori che hanno l'aria di artisti, od anco—se meglio vi piace—poteva passare per uno di quegli artisti che hanno l'aria da gran signore. La[158] sua statura nè alta nè bassa, i lineamenti delicati, lo sguardo sicuro e vibrato, la fronte serena e spaziosa, il sorriso benevolo e arguto. Vestiva con quella eleganza emancipata che è proprio degli uomini di buon gusto, ritraendo dal figurino della moda solo quel tanto che basta perchè un uomo della buona società non venga tacciato di eccentrico. La sua voce, i suoi modi seducevano.
Dinanzi ad una figura così distinta, così nobile, tutte le mie prevenzioni si dissiparono in un istante. Invano io studiava quella superficie seducente per sorprendervi una ruga, una contraddizione sinistra, la quale accennasse a qualche istinto meno eletto. Il piacere che egli aveva espresso nel rivedere sua moglie era naturale, spontaneo, animato. Le trasparenze del suo linguaggio lasciavano indovinare un affetto profondamente sentito; l'affetto dell'amante che vorrebbe un poco dissimularsi sotto la compostezza del marito. Accoglieva i complimenti un po' comuni di sua moglie colla massima buona fede. Quando ella si accusava indisposta, le accarezzava i capelli, e sorrideva amorevolmente come uno di quegli innamorati felici che sanno di possedere essi soli il segreto per guarire le piccole infermità della donna adorata. Quelle carezze, quei sorrisi mi turbavano il cuore; e il signor Edmondo mi guardava tratto tratto, aspettando che io intramettessi una parola od almeno un leggero cenno amoroso.—Io era là come istupidito. Io sentiva tutto il falso della mia posizione; ma ciò che mi colpiva più dolorosamente, ciò che più ripugnava alla mia schietta coscienza, era il contegno di Amelia, erano gli artifizi delle sue occhiate, delle sue parole a doppio intendimento, la imperturbabile franchezza della sua dissimulazione.—Quel giovine marito e quella giovine donna, seduti l'uno accanto dell'altra sul medesimo divano, rappresentavano un contrasto di caratteri che era tutto in favore del marito. Fra la schiettezza e la menzogna, il mio cuore non esitava. Io non poteva a meno di sentire che in quel momento Edmondo rappresentava la parte più nobile. Quella donna, così abile a fingere col marito[159] e così disinvolta ed ardita nell'ostentare la sua finzione dinanzi all'amante—dinanzi a me, che ero a parte del suo segreto—provocava nel mio animo una reazione di sentimenti che era tutta a vantaggio di lui.—Io non avrei dovuto assistere a quel colloquio... avrei dovuto uscire dalla stanza... Ma ero tanto istupidito dalla mia falsa posizione!... E la signora, cogli occhi e colla mano, faceva tanti accenni telegrafici!... Che serve? Io non ho la pretesa di essere uomo di spirito, ma so che anche gli uomini di spirito facilmente diventano cretini dinanzi a certe eventualità della vita galante create dalla donna.—Io credo che le donne siano tutte genii nell'arte di far all'amore!
—Ebbene!—disse Edmondo, levandosi in piedi—facciamo a tuo modo! Poichè ti senti spossata e malata, tu rimarrai nella tua stanza.... ti coricherai—- e frattanto io andrò a fare un giro sotto la luna. Laggiù a Milano si moriva dal caldo, ed ho proprio bisogno di empirmi il polmone di questa buon'aria campestre... Se il signore volesse accompagnarmi...?
Amelia mi suggerì la risposta con un'occhiata fulminante... Ma io non ebbi il coraggio di secondarla... e in luogo di improvvisare una scusa qualunque, mi lasciai sfuggire un volontieri, che fece impallidire la signora.
Il signor Edmondo strinse la mano di sua moglie, promettendo di tornare bentosto; e mentr'egli cercava il cappello, la signora Amelia mi diede la buona notte con un accento marcatissimo—e dopo averci accompagnati fino alla porta, si degnò di soggiungere un a domani, che voleva accennare da una possibile amnistia.
Il signor Edmondo Della Rosa non poteva farsi un altr'uomo da quello che egli era per questa sola ragione,[160] che io aveva bisogno di giustificare i sentimenti e la condotta di sua moglie, come anche di sorpassare ai miei scrupoli. In quella breve escursione notturna, in quel primo colloquio espansivo io dovetti necessariamente convincermi di aver a fare con un perfetto gentiluomo, con un carattere nobile ed aperto, con un cuore da artista.
Edmondo sentiva il bello della natura e traduceva le proprie impressioni con parole animate e faconde. Sapeva a memoria e citava opportunamente i brani più sublimi dei nostri poeti. Questi versi, mi diceva, attraversarono la prosa della società nella quale mi è toccato di vivere, ed è miracolo che non siano naufragati con tante altre illusioni!
Tutto ciò mi è stato rivelato da lui in un lungo monologo, interrotto per mia parte da certe esclamazioni melense, da certe mezze frasi, che mi davano l'aria di un pertichino da cavatina—Ma poi, gradatamente, la conversazione prese forma di dialogo. Alle sue espansioni risposero le mie—i nostri cuori si misero all'unisono,—e in quella ineffabile corrispondenza di principii, di idee, di sentimenti e di affetti, noi ci riconoscemmo amici.
Amici!—sì, lo eravamo dopo poche ore—e forse lo siamo ancora al momento in cui sto scrivendo queste linee, sebbene Edmondo da alcuni mesi mi abbia levato il saluto. E se mai avessimo un giorno ad incontrarci, od egli potesse penetrare le misteriose ragioni del nostro distacco... Allora...! Ma pel bene di... tutti, è necessario che ciò non avvenga.
Un passo dopo l'altro, ci eravamo discostati circa tre miglia dello Stabilimento, seguendo una stradicciuola abbastanza seducente per due dilettanti di paesaggio quali noi eravamo—una stradicciuola piena di sassi e di perfidie.
—È tempo di rientrare! esclamò Edmondo vivamente. Le donne hanno ragione.... Qualche volta noi altri mariti commettiamo, senza avvedercene, dei[161] tratti così poco galanti, delle scortesie... La mia povera Amelia sarà là ad aspettarmi... Ella avrà a dirmi cento cose... delle corbellerie... vorrà narrarmi i piccoli scandali della stagione.... vorrà sapere le cento bagatelle della nostra Milano... Le avevo promesso di tornare così tosto!... Ed ecco... sentite?.... battono le ore... Undici ore! Affrettiamoci un poco... Quella povera Amelia!.... Mi par di sentirla.... quando io sarò rientrato da lei... E questa volta io sarò costretto a subire la mia lezione senza dir verbo, come un discolo di fanciullo che ha mancato alla scuola!
Al nome di Amelia, io provai quel medesimo brivido che poche ore prima mi avea sorpreso allorquando l'Angiolina era entrata nella stanza della sua padrona per annunziare l'arrivo di Edmondo. La donna che io aveva amata, od almeno desiderata e corteggiata per quindici giorni—la donna che già tanto mi aveva concesso, e alla quale, senza scrupolo e senza rimorso, io aveva predicata la infedeltà coniugale come un diritto di rappresaglia—quell'Amelia che io aveva istigata alla colpa, che all'indomani, data una occasione favorevole, perseguitata da nuove insistenze, avrebbe forse ceduto... Or bene: da due ore essa era la moglie di un uomo che io non poteva a meno di apprezzare, di un uomo probo e leale, che mi aveva profferto la sua amicizia, a cui io dall'interno del mio cuore avea risposto col nome di amico!
Rimasi paralizzato. Le parole mi vennero meno. Edmondo, senza avvedersi del mio turbamento, proseguiva coll'usata spigliatezza:
—Presto! vediamo di accelerare il passo per quanto ce lo permettono i ciottoli della via.... Non troppo! non c'è ragione che io vi esponga a slogarvi una tibia... perchè io giunga più presto a far le mie scuse a madama.... Per riparare ai miei torti... vediamo!... occupiamoci un poco di lei... Non mi avete detto nulla delle vostre passeggiate... delle vostre escursioni alla campagna.... Dite la verità: qualche volta vi sarete annoiato.... Una donna, come la mia Amelia, non è sempre una compagnia divertente..... Non tutti sono disposti a intrattenersi di quei nonnulla che ronzano[162] eternamente nella sua testolina.... Ella non manca di un certo spirito... di un certo talento.... ma l'educazione che si dà alle nostre donne... Come si fa? Noi altri giungiamo troppo tardi per dare alle nostre mogli un indirizzo più ragionevole... E dall'altra parte, che volete?... nella donna io amo tutto quello che caratterizza il sesso... Le frivolezze, le bugiuzze, quei piccoli errori, quei capricci dello spirito hanno anche essi il loro lato seducente. È poi tanto buona, tanto onesta, quella mia creatura... Vuol essere corteggiata... vorrebbe avere intorno una corona di adoratori—sapete perchè?—anche questo è un capriccio abbastanza piccante. Perchè mia moglie non si tiene paga di sapersi amata—ed io l'amo con tutto il mio cuore: ella pretenderebbe che io fossi geloso.... che io dessi nelle smanie..... che io mi battessi ogni giorno con alcuno di questi rivali imaginari.... Adorabile, non è vero?—Ma qualche volta, ve lo confesso—ciò mi disturba e mi impazienta.... Ella mi vuol troppo bene, la mia povera Amelia.—Vorrei che mi amasse più ragionevolmente... Come l'amo io, per esempio. Io la ritengo onesta a tutta prova, incapace di un pensiero riprovevole.... Ebbene: come si fa ad essere gelosi?... Pure, di tempo in tempo, conviene giuocare qualche farsetta... tanto per secondarla. Oggi, per esempio, arrivai inaspettatamente da Milano..... come un geloso che sospetti, che voglia sorprendere.... Non potete figurarvi quanto ella gusti tali scene..... Ella non crederebbe al mio amore, ella forse cesserebbe di amarmi, se tratto tratto non le fornissi queste prove di diffidenza, se non la sollecitassi con queste farse da Otello!... Tutte le sue lettere sono piene di misteriosi adoratori, di reticenze allarmanti.... Appena giunti a Trescorre, mi scrisse di voi... volle farmi supporre che qualche altro la perseguitasse di omaggi e di profferte amorose... Che volete? io rido... Qualche volta fingo di adombrarmi.... più spesso mi sforzo di convincerla che il vero affetto non può basarsi che sulla reciproca stima, sulla fede più illuminata.... Che fare? Oggimai dispero di convertirla... E d'altronde, poichè queste sue velleità[163] non dipendono, in ultima analisi, che da un falso concetto dei sentimenti umani.... lasciamo correre e tolleriamo... Io so di essere amato e ciò mi basta.... E guai per me se dovesse cessare una tale convinzione, che è la gioia segreta, che è l'orgoglio della mia esistenza.... Amelia non comprende i miei gusti per le lettere e per le arti—ma ella è artista sublime nelle ricercatezze della sua toeletta, nelle cure che ella prende per farsi bella ed amirabile. Questo talento delle mogli costa un po' caro... Non importa... Io lo comprendo e lo apprezzo. Quando Amelia si mette un abito nuovo, quando ella si abbellisce di nuovi adornamenti, io sento che ella vuol dirmi:—Edmondo smetti i tuoi libri... la tua tavolozza... e vedi un poco se non hai torto di perdere tante ore a vagheggiare l'idealismo, mentre io ti offro una realtà le mille volte più incantevole!.... Ma io mi trattengo in un argomento che per voi non può avere interesse.... Perdonate ad un marito, che non ha cessato di essere amante... Frattanto abbiamo rifatto il nostro cammino... Se la mia compagnia non vi tedia, se amate passeggiare di buon mattino, io verrò domani a svegliarvi... Faremo una gita lunga... sbozzeremo de' paesaggi, e parleremo di tutto. Ebbene? convenuto?
—Convenuto!
—Badate che io mi sveglio di buon'ora... Verso le cinque io busserò alla porta della vostra camera.
—Ed io vi prometto che alle cinque sarò in piedi... ad aspettarvi.
Entrati nello stabilimento, ci separammo con una stretta di mano, che questa volta era cordiale da ambo le parti.
Al momento in cui io metteva la chiave nell'uscio, l'Angiolina mi si fece incontro e con aria misteriosa mi porse una lettera.
La presi tremando—mi rifugiai come un colpevole nella mia stanza—e lessi:
«Io non credo che mio marito vorrà sacrificarsi a passare con me la giornata di domani.... Ho già l'anticamera ammorbata dalle sue vernici. Ciò mi[164] prova che egli è venuto a Trescorre per copiare dei paesaggi.... Voglio sperare che non vi sarete offerto di andare con lui a sostenergli la tavolozza... piuttostochè rimanere allo stabilimento a curare una povera malata...»
È inutile avvertire che questa lettera senza firma era scritta da... lei.
Per tutta quella notte non potrei chiuder occhio.—Due figure mi stavano sempre dinanzi—un marito ed una moglie—un uomo ed una donna, i quali parevano disputarsi le mie simpatie, provocare una mia determinazione.
Dalla parte di Amelia stavano le seduzioni del sesso e della voluttà—dalla parte di Edmondo le attrattive di un nobile cuore, di uno spirito elevato, di un carattere omogeneo, tutte doti che conciliano benevolenza e rispetto.
Edmondo adorava sua moglie—l'adorava colla fede più ingenua—e quell'amore pieno di tenerezza, quell'amore indulgente e benefico rifletteva una luce sfavorevole sulla frivolezza vanitosa, sulla indifferenza della donna.... incapace di comprendere un affetto sì vero e già pronta a tradirlo.
Il mio cuore propendeva per Edmondo—passando dall'una all'altra figura, il mio pensiero si arrestava di preferenza innanzi a quella che era la più degna di benevolenza e di stima. La bellezza di Amelia scoloriva, perdeva il suo fascino seduttore. Quelle forme voluttuose di femmina divenivano trasparenti, e sotto quelle io scorgeva un povero cuore, sterile di affetti e viziato dalla educazione.
Ella!.... disconoscere il nobile carattere di quell'uomo!.... adorata.... atteggiarsi a vittima!.... tradirlo!.... Ciò era indegno.... era infame....!
E fu proprio su questo atto di accusa che una ipotesi fatale mi balenò nella mente.... Mentre io mi sdegnava con lei, mentre io lanciava la tremenda condanna,[165] improvvisamente fui assalito da questa grave riflessione:
«Se il mio marito sapesse!»
Ebbene: se il marito sapesse, qual sarebbe il più svergognato fra te e quella donna?
Mettiti là, galantuomo—al posto di lui—vicino a questa Amelia, che ora ti apparisce così frivola, così rea, così indegna della tua stima!—Ed egli—il marito che sa—vi giudichi entrambi.
Ieri a sera tu gli stringevi la mano, a quell'uomo leale e simpatico—tu accoglievi i suoi ringraziamenti, le sue profferte amichevoli. Edmondo espandeva il suo cuore nel tuo; ti metteva a parte de' suoi segreti. Ti diceva: io amo quella donna e ne sono riamato—ti svelava il segreto della sua felicità, colla piena fiducia di parteciparla a un cuore onesto e sincero al pari del suo. Meno male s'egli avesse ostentato quell'indifferenza volgare, o meglio quel brutale cinismo che è proprio dei mariti di buon genere—se egli ti avesse ripetuto gli ignobili ritornelli; mia moglie io la considero un arnese, un mobile di casa, nè più nè meno—è forse possibile amare la propria moglie?....
Ma nulla di tutto questo.—Edmondo, il tipo più amabile di galantuomo, era anche l'ideale più adorabile dei mariti. Non vi era pretesto per lei, come per me non vi era scusa possibile. Se non che, da parte mia c'era un altro ritegno alla colpa, c'era un nobile sentimento che resisteva alle attrattive della voluttà—la stima e la simpatia per Edmondo. La piccola mente, il piccolo cuore di Amelia poteva disconoscere le doti eminenti del marito; ma io che a primo abbordo le aveva comprese ed apprezzate, io non poteva senza rimorso e vergogna, farmi complice di Amelia nell'oltraggiare quell'uomo.
Ho riprodotto incompletamente le agitazioni, le lotte, i tormenti di quella mia lunga veglia.
Allo spuntare dell'alba, scesi dal letto, apersi le griglie e mi appoggiai al davanzale della finestra. I colombi uscivano a coppia dalla piccionaia, e svolazzavano nel cortile perseguitandosi, beccandosi spietatamente per gara di amore—i passeri si gettavano a stormi sul gelso, e le foglie agitate esprimevano un immenso tripudio;—il garzone di stalla, uscito ad abbeverare le sue bestie, salutava la giovane lattivendola con occhiate che erano baci e carezze.—Tutti gli animali obbediscono alla legge dell'istinto... Nessuno è tanto stolto.... tanto ribelle ai moti della natura che, data una occasione favorevole, si arresti a riflettere i pericoli, a tormentarsi con iscrupoli vani, a calcolare se sia bene o se sia male ciò che alletta lo spirito e il senso. Corriamo all'amore, al piacere, alla donna!.... Che importa, se questa donna così ben disposta a secondarci....
In questo punto udii battere tre colpi alla porta. E provai ancora una volta la scossa, il brivido dell'uomo sorpreso in delitto.
Apersi—Edmondo entrò nella stanza. La sua fronte, i suoi occhi erano sereni come l'alba.
—Ah! non credeva trovarvi in piedi, mi disse—accostandomi all'uscio della vostra camera, sono rimasto in forse per alcuni minuti fra il bussare e l'andarmene tutto solo per la mia escursione campestre.
Io aveva dimenticata sul tavolino la lettera di Amelia—non potei articolare parola prima di averla raccolta e posta nelle tasche del mio soprabito.
—Amelia mi ha dato piena libertà per tutta la giornata, riprese Edmondo—ed io sono molto ben disposto a profittare della sua condiscendenza. Non vorrei obbligarvi ad un sacrifizio superiore alle vostre forze.... Via! siamo sinceri!.... La campagna non può avere per voi delle grandi attrattive, sopratutto con questi calori!.... Io non vi tengo obbligato dalla vostra parola, non voglio imporvi un sacrifizio....
—Ma no.... vi assicuro al contrario....
—Che serve? Amelia mi ha messo in guardia contro le vostre proteste... Diamine!.... Io posso andar in volta da solo a calunniar la natura co' miei pennelli, ma questa non è ragione perchè un amico debba sudare fra la polvere ed il sole tutta una giornata di luglio!.... Bando ai complimenti! Rimanete!..... Io sarò di ritorno verso le quattro.... Pranzeremo insieme... e stassera.... nel caso vi sentiate in lena di far qualche passo al chiaro di luna, io mi farò un piacere di accompagnarvi.
—In verità non so comprendere....
E rimasi a mezzo della frase, comechè io riconoscessi di profferire una menzogna.
—Volete che io mi spieghi più chiaro?—soggiunse Edmondo col suo sorriso più amabile.—Non è vero che pochi giorni sono avete confessato a mia moglie che non vi è cosa più detestabile per voi quanto il battere la campagna pel solo gusto di fare dei passi e di ammirare ciò che si vede a tutt'agio dalle vostre finestre? Ebbene: mettete che ella si sia fatta un dovere di avvertirmene, mettete che poco fa, quando io usciva dalla stanza, Amelia mi abbia detto: io ti prego di risparmiare quel nostro povero amico che probabilmente non ha nessuna voglia di seguirti...! E dopo ciò: a parte ogni scrupolo.... trattiamoci da veri amici.... e a rivederci.... alle quattro.
La buona fede, la ingenuità, la schietta natura di Edmondo spiccavano da queste parole siffattamente, che io sentii una vampa di rossore espandersi sul mio volto. Quella donna che si faceva istromento del marito a' suoi disegni colpevoli, che spingeva il più affettuoso, il più tenero degli amanti a rappresentare la parte del mezzano e del complice, mi apparve in quel momento un essere degradato e deforme.
Arrossii per me stesso, per lei, per tutti.—Volli parlare, ma il coraggio mi venne meno. Non potendo smentire quella donna, avrei dovuto sostenere a mia volta la parte dell'ipocrita; dinanzi a quel carattere integro e leale rappresentare una menzogna abbominevole.
Edmondo, interpretando il mio turbamento nel senso che per lui era più verisimile, mi battè amichevolmente sulla spalla—e acceso uno zigaro: Così va bene!—mi disse—vedo che mia moglie ha detto il vero, e che voi siete un amico quale io lo desiderava.—Tenete compagnia ad Amelia, e preparatemi un lieto pranzo.
Dopo queste parole, Edmondo si allontanò. Io gli tenni dietro fino alla scala, e a stento ebbi il coraggio di profferire una mezza frase: «Poichè voi... lo credete....»
Rientrai nella mia stanza coll'animo agitato. Io sentiva che quell'uomo aveva ottenuto una piena vittoria, che io non aveva più il diritto di discutere la mia risoluzione.
In tutta fretta finii di abbigliarmi, discesi nel cortile, e con rapidi passi, come un uomo inseguito, mi allontanai dallo stabilimento.
Qual'era la mia meta? io l'ignorava—il mio scopo era di allontanarmi da una donna, di sottrarmi ad una tentazione. Io camminava per le strade più ignorate e più deserte, mi soffermava sotto un albero, mi sedeva sopra un macigno per asciugarmi il sudore e riprendere lena—poi di nuovo mi gettava nella carriera.
Lettori del mondo elegante: io vi permetto di sorridere—E voi annientatemi sotto il vostro sarcasmo, o tigri dalla pelle di velluto!—Io ve l'ho detto alle prime pagine di questa istoria; non potrò mai arrossire nè pentirmi di avere in quella occasione, ceduto al sentimento dell'onore, anzichè agli stimoli più solleticanti della bellezza.
Non vi dirò come si passasse per me quella eterna giornata. Verso le quattro ore, mentre io dirigeva i miei passi allo Stabilimento, dal quale ero poco discosto, sentii chiamarmi per nome.
Mi volsi. Era Edmondo che tornava dalla sua escursione artistica.
—Voi vedete ch'io sono esatto, mi disse.
Io mi fermai per attenderlo.—Egli mi narrò brevemente i piccoli episodii della sua giornata—mi mostrò dei graziosi paesaggi schizzati sul suo album—e così, famigliarmente conversando, noi entrammo nel cortile dello Stabilimento.
Vi confesso che il mio cuore tremava. Sì: io tremava come un fanciullo al momento di dover ricomparire innanzi a lei..... di dover subire uno sguardo schernitore, un complimento pieno di crudele ironia. Ma il contegno della signora valse ben presto a rassicurarmi. Ella aveva prediposto la scena per quell'incontro—ella aveva contato sovra un artifizio che, in luogo di assicurarle il trionfo, doveva pregiudicarla d'avvantaggio nella mia opinione, e rassodare i miei propositi.
La signora Amelia mosse ad incontrarci festevolmente, tutta vezzi, tutta sorrisi. Non mai l'eleganza della sua toelette mi era apparsa più studiata, più artistica e, diciamolo pure, meglio riuscita. Le dame milanesi, che pure hanno tanta prosa nel cervello e nel cuore, sono tutte poetesse nell'arte di abbigliarsi.
Ella appoggiava il suo braccio (e questo era il gran colpo di effetto, questa era la prima strategia delle sue vendette)—sì—ella appoggiava il suo braccio a quello di.... Narciso, che voi, lettori, dovete conoscere..... quel fatuo pretenzioso e ridicolo, che passava le sue giornate a cambiarsi le cravatte, a ripetere una quindicina di calembours.
Ed ella si abbandonava a quel Narciso colla famigliarità di un'amica, di una sorella—lasciando penzolare la sua testa voluttuosa sulle spalle di lui, e volgendogli degli sguardi che parevano accennare ad una intimità di desiderii e di accordi segreti. Quel Narciso, o tulipano, che aveva preso il mio posto così repentinamente, che in balìa di una frivola donna era divenuto un istrumento di rappresaglie dispettose, di meschine vendette—in luogo di irritarmi mi fece sorridere, m'ispirò compassione. Quanto poi alla donna.... tutto l'incanto della sua bellezza, tutto il fascino era sparito. Io mi vedeva dinanzi una artefice[170] scaltrita di menzogne e di intrighi, che ingannava ad un tempo il più affettuoso dei mariti e il più imbecille dei cortigiani, per punire la mia onesta resistenza, per combattere uno scrupolo di lealtà, che in quel momento mi rendeva orgoglioso.
La mia risoluzione era presa, e oramai nessun artifizio, nessuna seduzione poteva cangiarmi.
Pranzammo tutti insieme nella gran sala. Io seppi dissimulare il mio imbarazzo, portando la conversazione sul tema della letteratura e delle arti, acciò il marito di Amelia avesse campo di sfoggiare tutta la coltura del suo spirito. Narciso ci interrompeva tratto tratto co' suoi vecchi calembours, e la signora mostrava apprezzarli e gustarli enfaticamente con certe risatine prolungate, per le quali ella poteva far brillare due file di denti splendidi e bianchi come perle.
Appena levati da mensa, io posi in campo un pretesto per ritirarmi nella mia stanza. Salutai cortesemente gli amici, stesi la mano ad Amelia, e quand'ella mi porse la sua, io la strinsi senza affettazione, senza darle alcun indizio che potesse in qualche modo rivelare i miei divisamenti. Appena fui solo, mi posi al tavolino, e scrissi queste poche linee:
«Gentile Signora,
»Quando riceverete questa mia, io sarò in viaggio per Milano. Vi prego di perdonare e di obbliare. Il vostro Edmondo mi ha fatto l'onore di chiamarmi amico; in poche ore egli ha saputo guadagnarsi la mia stima e il mio affetto più vivo. Rimanendo, io correrei pericolo di demeritarmi la sua amicizia, di tradire la nobile fiducia che egli ripone nel mio carattere. È un uomo adorabile vostro marito, ed io per mia parte, sento di aver già dei gravi torti verso di lui.—Io spero che a Milano ci rivedremo tutti, e potremo stringere una intimità più degna di noi. Scrivo due linee ad Edmondo per dirgli che una lettera[171] giuntami da Milano questa sera fu causa della mia repentina partenza. Nuovamente vi chieggo perdono, e mi raccomando alla vostra buona amicizia.»
Suggellata la lettera, uscii nel corridoio per confidarla ad Angiolina, ond'ella il mattino seguente la recasse alla signora.
Poi scrissi ad Edmondo—chiamai il cameriere per aggiustare i miei conti ed ordinargli di svegliarmi di buon'ora.—Lo pregai di tenermi il segreto per quella sera, e di attendere l'indomani per consegnare la mia lettera ad Edmondo.
All'alba del giorno seguente, io saliva sulla vettura che doveva condurmi a Milano.
Lettori: voi non vorrete astenervi dagli epigrammi—voi avete riso, e forse ridete tuttora della mia dabbenaggine, ma pure dovete confessare che il mio racconto fu pieno di moralità.... Ohimè!.... Vorrei pure lasciarvi questa buona impressione—ma pur troppo quella ch'io vi ho narrato è una istoria vera—e la verità non può sempre modificarsi a benefizio della morale.
Io rividi il signor Edmondo a Milano—io rividi anche lei.... la quattordicesima stella del nostro Olimpo celebrato.
Orbene: credete voi che la mia condotta onesta e leale mi abbia giovato a qualche cosa?
Misteri del destino coniugale!—Edmondo ed io abbiamo cessato di chiamarci amici.... Il nostro saluto, incontrandoci, è quasi glaciale—è il saluto di due cilindri e non più di due cuori.
Alla Scala, nel palco di Amelia, veggo ogni sera il mio bel Narciso, che ostenta la famigliarità pretenziosa del seduttore soddisfatto.—Nell'alta società corrono.... delle dicerie un po' equivoche. Per parte mia, ho motivi di credere che, nel caso di Amelia e di Narciso, la malignità si mostri anche troppo discreta.
Cosa avrebbe perduto quell'ottimo Edmondo, se io avessi preoccupato la piazza?....
Nulla....
Conclusione desolante!—Il solo che veramente abbia perduto sono io!
Ho perduto le buone grazie di una elegantissima donna—ho perduto l'amicizia e fors'anche la stima di un uomo eccellente—ed ora ho perduto il mio tempo a proporre un esempio di virtù e di abnegazione, che non troverà imitatori.
La chiave di tutto l'enigma è codesta:—Io mi sono arrestato per paura che il marito sapesse—ma appunto perchè mi sono arrestato innanzi tempo, il marito ha saputo.—Ed ha saputo dalla moglie, che è quanto dire a tutto mio danno e a maggior comodo altrui.
Due dita di coda.
Il contino crollò leggermente la testa, e proseguì di tal guisa:
—Non c'è che dire: Lodovico Albani è un perfetto gentiluomo. Avvenente della persona, giovane, ricco, elegante... Peccato ch'egli abbia quel difettuccio! Un difetto da nulla...—tanto è vero che infino ad ora qui nella borgata nessuno si è accorto?...
—Che! il signor Lodovico Albani avrebbe dunque... un difetto?
—Mi sono espresso con poca esattezza... Non è propriamente un difetto.... sibbene un accessorio... un ornamento, un vezzo, che la prodiga natura ha voluto accordargli per una di quelle bizzarie che essa talvolta si permette... onde variare la specie umana....
—Via signor contino.... voi ci fate morire d'impazienza...
Il parroco e il coadiutore ingrossavano gli occhi e allungavano il collo come avrebbero fatto dinanzi ad un cappone arrostito con ripieno di salsiccia.
È d'uopo sapere che don Cecilio Speranza e don Domenico Crescenzio, parroco l'uno, e l'altro coadiutore nella borgata di L..., detestavano con fervore cattolico il cavaliere Lodovico Albani.
Quali erano i torti del cavaliere Lodovico Albani rispetto ai due uomini di Dio?—Molti e gravi.
Lodovico Albani era cavaliere dei SS. Maurizio e Lazzaro, e aveva acquistato il titolo onorifico coi suoi talenti, colle sue opere letterarie e scientifiche,[174] con generosi sacrifizi di patriottismo.—I preti hanno poca simpatia pei cavalieri dei SS. Maurizio e Lazzaro, per gli uomini di spirito, e meno ancora pei patrioti.
Dippiù, il signor Lodovico, venuto di recente ad abitare la borgata, si era introdotto nella casa di donna Fabia Santacroce, ed era riuscito ad istillare nella antica bigotta qualche idea libertina. A dispetto dei due reverendi, la marchesa aveva accordata al signor Lodovico la mano dell'unica sua figliuola. Già s'erano fatte due pubblicazioni; il fidanzato era ito a Milano per provvedere i regali da nozze—al di lui ritorno la cerimonia dovea compiersi senza indugio.
Tutte le pratiche del parroco e del coadiutore onde impedire questo pericoloso connubio, erano riuscite vane.
Lodovico Albani, colla sua condotta incensurabile, avea completamente trionfato delle cabale e dei raggiri..... In paese egli era citato a modello di onestà. Generoso coi poveri, affabile, modesto, anche in casa della marchesa, egli sapeva uniformarsi alle pratiche devote, alle abitudini alquanto rigide della vecchia bigotta, adoprandosi però lentamente a combatterne i pregiudizi. Dietro consiglio del futuro genero, la marchesa aveva già introdotte nella famiglia non poche riforme. I due reverendi non eran più invitati a prendere la cioccolatta ogni mattina... I pranzi divenivano meno frequenti... Don Cecilio e don Domenico in casa della marchesa perdevano ogni giorno qualche residuo del loro potere temporale.
Guardati, o lettore, dall'odio di un prete: dall'odio di due preti non può guardarti che Dio!
Dopo tali premesse, è facile comprendere con quale ansia, con quale impazienza febbrile, il parroco ed il coadiutore attendessero le rivelazioni del contino Tiburzio.
Ed ora mi chiedete; chi è il contino Tiburzio?
In poche parole ve lo presento.
Il contino Tiburzio è un nobile della massa, mediocremente brutto, mediocremente ignorante, mediocremente[175] maligno. Un bel giorno egli credette amare la marchesa Virginia, la chiese in moglie a donna Fabia, ma in grazia del signor Lodovico, egli ebbe una chiara e formale ripulsa
La marchesina consultata del suo voto, avea recisamente ricusato colla sentenza inappellabile: è troppo brutto.
Il contino Tiburzio si sentì trafitto nel profondo del cuore... e giurò vendicarsi.
Bisognava perseguitare il rivale.... combatterlo.... schiacciarlo... perderlo nella opinione del mondo...
Pensa, medita, studia. Che si fa? L'arte cattolica dei due reverendi aveva abortito... Che poteva sperare un uomo del secolo?
Ma l'amore è più scaltro, più maligno dell'odio. Questa volta la fantasia del contino ebbe un lampo di ispirazione. Scoperta la breccia, e concepito il piano d'attacco... egli scelse i due preti per alleati.
Io credo che il lettore non abbia d'uopo d'altre spiegazioni... Ripigliamo il dialogo interrotto.
—Dunque, signor contino; questo difetto?...
—Per carità, don Domenico, non mi fate parlare...! Temo aver già detto di troppo... Non dimentichiamo che Lodovico è alla vigilia delle nozze... Poichè finora il difetto è rimasto occulto... lasciamo correre l'acqua al suo mulino.... ed usiamo prudenza... I maligni credono che io mi abbia in uggia quel bravo giovine, perchè madamigella Virginia ebbe il capriccio di accordargli una preferenza che io non ho mai desiderata.... nè sollecitata.... Egli mi ha salvato da un abisso, ed io gliene son grato di cuore. Che altro infatti è il matrimonio se non un abisso coperto di fiori, ove l'uomo precipita inavvedutamente... e per sempre?
—Signor contino... voi sapete con chi avete a fare... Noi siamo avvezzi a serbare scrupolosamente il segreto in casi ben più gravi che non quello di cui ora si tratti... Questo difetto del signor cavaliere Lodovico non sarà di tal natura da portargli pregiudizio, ove fosse divulgato. A quanto pare si tratta di una imperfezione fisica, che certo non è molto rilevante, s'egli ha potuto nasconderla fino ad ora.
—Ah! gli abiti ne celano molte delle magagne!... e delle mostruosità. Se le fanciulle, prima di scegliersi un marito, potessero penetrare collo sguardo il fitto velame degli abiti, sono d'avviso che più tardi non avrebbero luogo tante delusioni, tanti scandali coniugali, tanti divorzi! Io vi giuro, signor don Domenico, che se alcuno susurrasse all'orecchio della marchesina il segreto che io solo conosco, queste nozze andrebbero in fumo, e il mio povero amico dovrebbe allontanarsi da L... come ebbe già ad allontanarsi da Pavia...
—Il caso è molto più grave che io non avrei immaginato, disse don Domenico fiutando una enorme presa di tabacco.
—Gli è un caso di coscienza! soggiunge gravemente don Cecilio Speranza. Perdonate s'io mi permetto di farvi un po' di morale, signor contino; ma io credo che nella vostra qualità di uomo d'onore, nella vostra qualità di amico della marchesa, voi siate in obbligo di impedire gli scandali, di salvare una povera innocente creatura dall'abisso in cui sta per cadere, di impedire una unione fatale...
—Vi confesso che qualche volta mi è passato per la mente uno scrupolo di tal genere.... disse il contino Tiburzio, coll'accento della più viva compunzione.... Povera marchesina! sì ingenua! Sì bella....! Sì buona! Vi giuro che io ne sento pietà.
—Signor conte!... disse don Domenico, levandosi in piedi...
—Signor don Tiburzio! soggiunse don Cecilio, andando a chiudere la porta...
—Bisogna salvare questa povera fanciulla.
—Voi lo dovete.
—Voi non potete esimervi...
—La chiesa parla chiaro: Chi sapesse esservi fra' contraenti, impedimenti, ecc., ecc., è tenuto a notificarlo a noi... quanto prima...
—In caso diverso, incorrerebbe la pena della scomunica.
—Fidatevi a noi, signor conte.
—Rimettetevi al nostro arbitrio...
Il contino esitava:
—Se, come dite voi, signori reverendi, io sono tenuto per dovere di coscienza...
—E per dover di religione...
—E per ingiunzione dei sacri canoni...
I due preti si fecero a brontolare vari testi latini. Don Tiburzio ad ogni parola, ad ogni frase, inarcava le ciglia, ed annuiva col capo in segno della più profonda venerazione.
Le argomentazioni e le citazioni sacre e profane dei due reverendi erano troppo incalzanti.... Il contino Tiburzio si lasciò strappare dalle labbra il terribile segreto...
—Ebbene! la responsabilità della mia indiscrezione ricada su voi, che mi avete istigato! sclamò il contino, atteggiandosi da vittima.... Il nostro ottimo amico cavaliere Lodovico Albani, ha... nel... fondo.... della schiena...
—Nel fondo della schiena? ripetono i due preti spalancando le bocche...
—Nel fondo della schiena il nostro amico ha una escrescenza anormale...
—Una escrescenza anormale!... ripetè don Cecilio, enfiando le gote...
—Un'appendice osseo-muscolosa, ricoperta di pelo, e lunga circa due dita...
—Una coda!!! sclamano ad una voce i due reverendi, rizzandosi sulla punta dei piedi...
—Voi l'avete detto! conclude il contino ripiegando la testa all'indietro. Il cavaliere Lodovico Albani.... il fidanzato della marchesina Virginia Santacroce.... ha la coda lunga circa due dita!
La coda si prolunga.
Sono le dieci del mattino.
La marchesa donna Fabia Santacroce è seduta nella gran sala di ricevimento.
—C'è là fuori una visita, dice Clementina, posando sulla tavola una guantiera d'argento...
—Una visita a quest'ora?
—È don Cecilio Speranza.
—Un'altra chicchera di cioccolatta... e il reverendo venga introdotto!... Questi reverendi sanno cogliere il momento! Essi non possono rinunziare alle buone abitudini!
Il reverendo parroco di L..., appena entrato nella sala, fece un profondo inchino, e baciando la mano alla marchesa, lanciò una occhiata furtiva al cioccolatte!
—Qual buon vento, signor don Cecilio?... Presto, Clementina! Una chicchera per il nostro degno curato!... Spero che la reverenza vostra vorrà accettare!...
—Tutto che viene dalla gentilissima... ed onorandissima signora marchesa...
—Sempre disposta... ai vostri servigi...
—Obbligatissimo alle vostre grazie, colendissima signora marchesa...
Don Cecilio Speranza avea già fatto mezza dozzina di profondissimi inchini. Appena la fanticella rientrò nella sala per versargli la cioccolatta, il reverendo si assise, tolse dalla guantiera un biscottino, e immergendolo devotamente nella bevanda profumata, prese a parlare di tal guisa:
—Non è il caso, o il solo piacere di farvi una visita, che oggi mi ha condotto da voi, colendissima signora marchesa.... Io debbo parlarvi di un'affare assai grave, debbo svelarvi un segreto, dal quale dipende il decoro della vostra casa, l'avvenire della vostra famiglia, l'onore, la pace, la tranquillità della vostra amabilissima figliuola in questo mondo, e la sua salute eterna nell'altro... Siete voi ben sicura che nessuno possa spiare le nostre parole?...
La marchesa suonò il campanello.
Clementina ricomparve.
—Bada che nessuno deve entrare in questa sala, nè tampoco avvicinarsi alle porte, disse la marchesa alla cameriera in tono solenne. Io debbo conferire col signor don Cecilio di affari molto importanti...
La cameriera fece un inchino, girò intorno uno sguardo scrutatore, uscì dalla sala, fece traballare l'anticamera con quattro salti rumorosi, poi leggiera, leggiera, sulla punta de' piedi, tornò presso la porta, e pose l'orecchio al buco della serratura.
Don Cecilio Speranza, con voce pecorina riprese a parlare:
—Voi non ignorate, signora marchesa, quanto amore io porti alla vostra nobile e generosa famiglia, quanto mi stia a cuore il vostro decoro, e qual sentimento di predilezione paterna mi leghi a quella cara e buona fanciulla che è la marchesina Virginia. Io l'ho battezzata, io l'ho iniziata alla prima comunione, l'ho diretta fino dai primi anni co' miei consigli, colle mie esortazioni, sia in casa, sia nel sacro tribunale di penitenza... La vostra Virginia mi ha sempre ascoltato... mi ha sempre obbedito... Grazie agli aiuti della divina provvidenza, ella è cresciuta nel santo timor di Dio... In una parola ella è degna figlia di una madre, che noi abbiamo sempre citata come modello di tutte le virtù.
La marchesa crollò leggiermente la testa, facendo un sorrisetto di compiacenza.
—Era a desiderarsi, che a complemento di tante belle doti, quella santa fanciulla prediletta da Dio vivesse mai sempre fra le dolcezze della verginale innocenza... Ma questa vocazione delle anime elette non è oggidì molto comune alle fanciulle... all'età di sedici anni quasi tutte propendono verso il sesso più forte.... La vostra buona ed amabile Virginia in ciò seguì l'esempio delle altre...
—E di sua madre... interruppe la marchesa sorridendo.
—Il che prova, soggiunse don Cecilio inchinandosi, che anche nello stato coniugale si può vivere santamente... purchè la donna sia tanto avventurata da trovare un degno marito...
—Io vedo a che tendono questi vostri preliminari, disse la marchesa con qualche impazienza.... Trovereste forse a che dire sulla scelta da noi approvata... Avreste mai qualche dubbio sul carattere[180] e sulla onestà del signor cavaliere Lodovico, il fidanzato di nostra figlia?...
—Iddio mi guardi dal nutrire il menomo sospetto sulle doti morali di quell'ottimo giovine! rispose don Cecilio ponendo la mano al petto; ed è appunto perchè io l'amo assai, e lo stimo, e vorrei dissipare ogni ombra di dubbio...
—Vedete dunque ch'io ho colto nel segno, disse la marchesa alquanto turbata... Qualcuno ha cercato insinuare nel vostro animo...
—Non nego... Il caso ha voluto che giungessero al mio orecchio certe voci...
—Ebbene, che hanno trovato a dire i maligni sul conto di questo nobile cavaliere? chiese la marchesa con vivacità. Badate, don Cecilio, che io sono in questa casa la ammiratrice più entusiasta del signor Lodovico. Se alcuno osasse dubitare della sua virtù...
—E chi mai l'oserebbe, signora marchesa? Io vi assicuro che, quanto al morale, io vi starei garante pel vostro futuro genero. Ma vi hanno, o signora marchesa (e don Cecilio immerse un altro biscottino nella cioccolatta), vi hanno certi difetti organici.... leggeri... di nessun conto, che facilmente si possono dissimulare... coprire....
—Oh! sta a vedere che qualcuno è venuto a dirvi che il signor Lodovico Albani ha il gozzo o la gobba?... Egli! il più avvenente, il più perfetto gentiluomo, che abbia posto piede nelle mie sale!
—Di tale avviso pochi mesi or sono erano tutti gli abitanti di Pavia, dove quell'eccellente amico era stato inviato dal Governo come segretario di Intendenza. Colà pure il signor Lodovico in breve tempo era divenuto l'idolo delle società eleganti e sopratutto delle donne...
—Lo sappiamo...
—Colà pure.... egli aveva trovato una giovinetta di casato nobile e ricco, alla quale stava per unirsi in matrimonio...
—Lo sappiamo...
—Ebbene, lo credereste, signora marchesa? Quando si venne a sapere che il signor Lodovico Albani[181] aveva una certa imperfezione fisica... un certo prolungamento...
—Un prolungamento! ripetè la marchesa credendo comprendere. Ma siete voi certo, che il signor Lodovico Albani abbia un prolungamento?
—Perdonate, signora marchesa, se io debbo scendere a certi particolari che per avventura devono offendere il vostro orecchio delicato. La coscienza e il dovere soltanto mi spingono a parlare... Quanto vi narro mi fu riferito da persone degne di fede... da uomini onesti e prudenti... Il signor Lodovico Albani, come poco dianzi io vi diceva, avrebbe dunque un muscolo superfluo...
—Che orrore! Ma chi dunque ha potuto sapere...?
—Relata refero... Non appena in Pavia si ebbe sentore che il signor Lodovico era in trattative di matrimonio colla figlia di un ricco e nobile fabbricatore di formaggi, una rivale gelosa.... che probabilmente era stata in intimi rapporti col nostro gentiluomo... divulgò il fatale segreto... In meno di una giornata tutta la città seppe che il segretario del regio Intendente... aveva una coda!
—Una coda!!!
—Sì, una coda lunga quattro dita; disse il reverendo, facendo il segno della croce.
—Quattro dita di coda! ripetè la marchesa giungendo le mani.
La cameriera, che stava alla porta origliando, si alzò lestamente, scese le scale, venne in cucina, adunò il cuoco, i camerieri, ed i guatteri..... e fattasi in mezzo al circolo:
—Sapete che c'è di nuovo?...
—Che c'è Clementina?...
—Lo sposo della signora Virginia...
—Il signor Lodovico Albani!...
—Il signor Lodovico... Albani... Ma silenzio... che nessuno lo sappia per carità!.... Io l'ho udito poco dianzi per caso da don Cecilio Speranza.....
—Ebbene!
—Il signor Lodovico... Albani... ha una coda...
—Una coda!!! gridarono il cuoco, i camerieri ed i guatteri...
—L'ha detto don Cecilio Speranza alla marchesa: Il signor Lodovico Albani, lo sposo di madamigella Virginia... ha una coda lunga un braccio!
Due braccia di coda.
La marchesa donna Fabia e il molto reverendo parroco don Cecilio Speranza si intrattennero un buon paio d'ore a discutere sulle code in generale, e in particolare sulla coda del cavaliere dei SS. Maurizio e Lazzaro.
Esaurita la questione, la marchesa fece un solenne giuramento che essa non avrebbe consentito mai che un animale codato sposasse l'unica sua figliuola. Potete imaginare come il reverendo parroco si partisse edificato dalla sala della marchesa.
—Ma come trovare un pretesto per sciogliere questo matrimonio?... Come avrò io il coraggio di dire al signor Lodovico Albani: voi non potete divenire mio genero, voi non potete sposare la mia bella Virginia... perchè in fondo della schiena... Quale orrore!!! E come si fa a persuadere Virginia? Che dirle?.... Ella ama tanto il suo Lodovico! Ella è sì contenta di queste nozze!....
Mentre donna Fabia passeggia per la sala in preda alla più viva agitazione, Clementina viene ad annunziarle due visite.
Sono due amiche del cuore, donna Letizia Novena, ed una vedova bigotta di circa sessant'anni, la contessa Marta Passeroni, donna attempata e carnosa, ma fresca, gioviale, burlona, che non ha rinunziato alle galanti avventure.
Le due visitatrici non hanno che a scambiare colla marchesa i primi complimenti, per accorgersi ch'ella è preoccupata da grave turbamento.
—Che hai tu, mia buona amica? Che vuol dire quell'insolito pallore?...
Donna Fabia risponde con un sospiro.
—Quali novità?... Non tenerci in pena più a lungo; dice la contessa. Saresti forse malata?
—No!... grazie al cielo... io sto bene di salute...
—Forse la tua cara Virginia...
—Povera Virginia! sospira la marchesa, crollando la testa coll'espressione del più vivo dolore.
—Malata?...
—Peggio!
—Qualche ostacolo.... qualche impedimento alle nozze?...
—Hai proprio indovinato, mia buona amica. Queste nozze sono divenute impossibili!...
Donna Letizia Novena torce gli occhi verso la soffitta, mormorando una giaculatoria in latino.
—L'ho sempre detto io, prorompe la contessa; l'ho sempre detto che quando nel mondo si incontrano due esseri come il cavaliere Albani e la tua Virginia, fatti l'uno per l'altra, creati per intendersi, per amarsi, per adorarsi, per esser felici.... sul più bello il diavolo ci mette la coda!...
—Pur troppo, mia buona amica!... Il diavolo questa volta ci ha messo proprio la coda.... Ma una coda vera... reale... una coda mostruosa... spaventevole!
E qui donna Fabia si fa a ripetere parola per parola quanto le venne rivelato dal reverendo parroco, non mancando per l'amore dell'effetto, di allungare altre due dita alla coda dell'infelice fidanzato.
Chi potrebbe indovinare quali diaboliche fantasie si destassero nella mente di donna Letizia Novena in udir proferire la parola: coda! Ella fu sul punto di svenire...
—Oh! ma s'ha da sentirne ancora! sclama la vecchia bigotta coprendosi il volto colle palme. I preti hanno ragione di predire che il finimondo è vicino! Un uomo colla coda dev'essere indubitamente l'anticristo.
—Io non credo alle baje del finimondo e dell'anticristo, soggiunse la contessa, ma credo che un uomo colla coda non abbia diritto di chiamarsi uomo...
—E voi comprenderete, mie buone amiche, prosegue la marchesa coll'accento della disperazione[184] che io non potrò mai permettere a mia figlia... di aver commercio con un animale privilegiato di un organo, che suol essere il distintivo dei bruti...
—Capperi! hai ragione! La povera Virginia morrebbe di spavento!...
E le tre donne stettero parecchi minuti a guardarsi l'un l'altra in silenzio...
La mente umana, e più spesso la mente femminina, si lascia talmente soverchiare dalle inattese impressioni, che in luogo di esaminare i fatti ed i principii, trascorre immediatamente alle conseguenze, balzando così dall'abisso all'abisso. La contessa Passeroni, dopo breve silenzio, riportò la questione sul vero terreno.—È egli possibile, che un uomo abbia la coda? E quando ciò fosse possibile, avete voi qualche prova che il signor Lodovico Albani goda veramente di questo privilegio?
Donna Letizia Novena avrebbe creduto peccare investigando tali misteri. Ella si tacque, e cercò distrarre il pensiero dallo scandaloso argomento, meditando una parabola del vangelo.
La marchesa cominciò a riflettere seriamente...
—Mia buona amica, prese a dire donna Marta.... A me pare che innanzi di rompere le trattative di matrimonio, innanzi di contristare la buona Virginia, e di suscitare uno scandalo in paese convenga accertarsi del fatto, e averne qualche prova. Forse don Cecilio Speranza fu tratto in inganno da qualche malevolo... Questa coda nessuno l'ha veduta... nessuno la toccata... Hai detto che il signor Lodovico Albani ha dovuto fuggire da Pavia in grazia della coda... Ebbene! si scriva per telegrafo a Pavia! Io conosco il signor Frigerio, socio del club repubblicano, un novelliere, un chiaccherone che non ha il suo pari.... Egli potrà informarci d'ogni cosa.... Fra pochi minuti avremo una risposta... Se coda esiste... a monte il matrimonio!
—Questa è proprio una buona inspirazione, dice la marchesa.—Presto!.... Si spedisca il dispaccio... Il cavaliere Albani deve tornare domattina.... Prima ch'egli rimetta il piede nella mia casa, avremo nelle mani le prove di fatto....
La marchesa suonò il campanello, ed ordinò a Clementina di chiamare il maggiordomo.
Questi, che già sapeva l'istoria della coda, entrò nella sala con quell'aria di falsa compunzione, che i domestici sanno fingere tanto bene quando ai padroni tocca sciagura.
—Canella: va all'uffizio del telegrafo, disse la marchesa, e spedisci questo dispaccio.... Trattasi d'uno scherzo, d'una burla che si vuol fare al signor Albani.... Sopratutto il massimo silenzio....
Il maggiordomo, appena uscito dalla sala, si arrestò nella camera per leggere lo scritto.
—Dunque Clementina non si è ingannata.... Dunque c'è proprio di mezzo una coda! il dispaccio parla chiaro:
Signor Frigerio—Persone interessate chiedono se cavaliere Lodovico Albani abbia sei dita coda. Risposta subito.
Contessa Marta Passeroni.
E il maggiordomo corse all'ufficio del telegrafo come avesse le ali...
La risposta si fece attendere tre quarti d'ora... Donna Letizia Novena, malgrado i suoi scrupoli, malgrado il profondo orrore ch'ella avea manifestato per lo scandaloso avvenimento, offrendo al Signore un sacrifizio di insolita pazienza, rimase immobile sul suo seggiolone...
La marchesa guardava ad ogni tratto il pendolo dorato che stava sul camino... Contava i minuti... imprecava alle lentezze del telegrafo.
La Passeroni, meditando in segreto sulla natura del nuovo fenomeno, avea insensibilmente concepito una specie di simpatia per la coda del signor Albani. Ella avrebbe speso mille franchi per vedere co' propri occhi qual sia l'effetto d'una coda applicata ad un essere ragionevole...
Finalmente i tre quarti d'ora trascorsero.... Il maggiordomo rientrò nella sala col dispaccio suggellato...
Donna Fabia lo aperse tremando....
Attratte al medesimo centro per impulso di curiosità magnetica, le teste delle tre donne si urtarono...
Lorenzo Frigerio, il fiero repubblicano di Pavia, interpretando a suo modo il dispaccio della contessa, avea succintamente risposto:
Albani Lodovico due braccia coda—perciò segretario Intendenza, presto deputato.
—Due braccia di coda! sclamò il maggiordomo!
La marchesa balzando impetuosamente dal seggiolone, sfogò i primi impeti della sua collera contro il curioso subalterno, apostrofandolo delle più violenti invettive.
—Povera marchesa! esclamò donna Marta, giungendo le mani.—Oramai non vi è più dubbio... Conviene rassegnarsi, ed agire...
Donna Letizia Novena uscì dalla sala inorridita.
—Due braccia di coda!!! Ma costui non può essere che il diavolo!
L'arrivo di una coda.
I mercanti chiudono le botteghe, gli impiegati desertano dagli uffizi, gli operai cessano dal lavoro.
Già da un'ora la piazza è gremita di curiosi....
Suona il mezzogiorno... Fra pochi minuti la vettura del Ciccino deve tornare da Milano; con quella vettura giungerà il cavaliere Lodovico Albani e la sua.... coda.
—È dunque vero? chiede il calzolaio al suo compare falegname.
—Caspita, se è vero!... Il matrimonio è andato in fumo, e la marchesa ha dato ordine al portinaio che il signor Lodovico non debba metter piede in palazzo.
—Ma questa coda, chi l'ha veduta? chi l'ha toccata? domanda la moglie del parrucchiere.
—C'è chi l'ha veduta, c'è chi l'ha toccata, c'è chi l'ha misurata, risponde una vecchia. È una coda lunga[187] tre braccia.... Bisogna giuocare il tre di primo estratto.... ovvero il settantaquattro (coda) e il ventisette (età del signor Lodovico).
Il medico del paese passeggia gravemente tra la folla in compagnia del sindaco, arrestandosi di tratto in tratto per rispondere alle interpellanze.
—Che ne dice lei di questa coda, signor dottore? S'è mai dato un fenomeno più strano, più sorprendente?
—Io non trovo nulla di strano, nulla di sorprendente che un uomo abbia la coda, risponde il medico. La natura è varia ed infinita nelle sue produzioni. Chi conosce le cause, non può meravigliarsi degli effetti. Io respingo l'opinione di quei dotti naturalisti, i quali pretenderebbero che l'uomo ad origine fosse animale codato, e che, degenerando le razze, egli abbia insensibilmente perduto questo accessorio parassita. Ma come in cielo fra milioni e milioni di astri scodati, vediamo a certe epoche apparire delle comete con una coda incommensurabile, così non trovo ragione a sorprendermi che il signor Lodovico Albani riproduca nella specie umana questo grande fenomeno, che più volte vedemmo ripetersi nelle regioni celesti.
Mentre il vecchio Galeno della borgata spaccia, a chi degnasi interrogarlo, siffatte teorie, e spiega le misteriose influenze degli appetiti o voglie femminine, le cause degli aborti e delle mostruosità; il contino Tiburzio trapassa rapidamente dall'uno all'altro gruppo, tutto lieto del proprio trionfo. Per istornare ogni sospetto, egli interroga, sorride, crolla la testa, dà la baia a questo e a quello, perfino a donna Marta Passeroni, che in tutta confidenza gli ha mostrato il dispaccio del signor Frigerio.
Don Cecilio Speranza e Don Domenico Crescenzi hanno anch'essi le loro buone ragioni per mostrarsi increduli. Il secondo è venuto sulla piazza, ma si tiene in disparte, evitando d'immischiarsi alle conversazioni. Il parroco è trattenuto in chiesa da donna Letizia Novena, la quale ha voluto consultare il suo direttore spirituale per un brutto sogno che ha fatto la notte a proposito della coda.
Ma un grido sorge dalla massa.... poi silenzio solenne.... Tutti gli occhi si convertono verso il fondo della contrada, ove la vettura del Ciccino entra rumorosamente. Perchè mai questa folla? chiede a sè stesso Lodovico Albani, mettendo il capo agli sportelli della carrozza.—Questa buona gente vuol forse darmi una prova di simpatia.... Eh! non vi è dubbio!... Si grida: viva lo sposo!..... Grazie..... bravi e buoni popolani... Io non credeva meritare sì cortese dimostrazione....
La vettura entra nell'albergo del Pavone.... Tutti i viaggiatori discendono.... Lodovico Albani, leggiero come un daino, balza di serpa in un salto....
Sbalordito dalla stanchezza, del sonno, dall'appetito, il giovine fidanzato non si accorge della ironica espressione dei volti.
Egli non può udire gli epigrammi sommessi dei circostanti.... Se qualche strana parola gli ferisce l'orecchio, è ben lungi dell'immaginare che a lui sia diretta.
Nello scendere dalla vettura, la mente del giovane sposo fu però contristata da una grave sorpresa. Perchè mai donna Fabia non è venuta ad incontrarlo? Dov'è l'amabile Virginia? Ella sapeva del mio ritorno. Come avviene che ella non si trovi qui a farmi festa, mentre tutto il paese si è mosso? Ma ecco l'amico Tiburzio.... Egli forse potrà darmi novelle.... Ben trovato, mio caro contino....
—Ben trovato cavaliere!
I due titolati si danno di braccio, e insieme attraversano la folla, mentre da ogni parte crescono le risate e i motteggi.
—Vedete come egli cammina! dice il calzolajo..... Eh! non deve essere molto comodo il portarsi attorno tre braccia di quella mercanzia!
—Ei deve trovarsi meglio di presente che non poco dianzi nella vettura....! dice un altro.
—Io non so comprendere—osserva il barbiere—io non so comprendere dov'egli possa collocare tutta quella roba.... Probabilmente è una coda a criniera come l'hanno i cavalli.
—Scommetto che ei la striglia ogni mattina e la riduce a gomitolo....
—Eh! non v'ha dubbio, dice il sartore. Se ben gli guardate, vedrete, che il paletot gli fa una piega molto pronunziata presso la spaccatura.
—Povero Lodovico! sospira la Passeroni. Quel giovine ora mi interessa più che mai... Sì, elegante! sì bello!..... Io poi.... non avrei tanta paura di una coda.... io!
Lodovico saluta colla mano e col sorriso quanti gli occorrono per via, ma egli è troppo interessato a chiedere notizie della sua Virginia, per comprendere il senso di quelle strane conversazioni.
—Tu dunque non sei più tornato in casa della marchesa? chiede Lodovico al contino.
—Durante la tua assenza, ho creduto mio dovere l'astenermi....
—Ma in paese non sarebbe corsa qualche sinistra notizia?
—No.... ch'io mi sappia.... Ma ieri e ier l'altro io sono stato a cacciare nelle paludi di Ticino in compagnia di alcuni amici.... A dir vero, anch'io mi sono meravigliato di non vedere la tua Virginia presso la vettura....
Usciti dalla folla, al primo svolto di contrada, il conte trovò un pretesto per allontanarsi da Lodovico. Questi raddoppiò il passo, e pieno il cuore di tristi presentimenti, si diresse alla propria abitazione.
Sulla porta stava ad attenderlo una donna, Clementina, la cameriera di donna Fabia, la confidente di Virginia, altre volte messaggiera d'amore, ed ora di sventura.
Il volto di Clementina annunziava disastri.
—Mio Dio!.... che sarà mai?
—Entriamo! che niuno ci vegga parlare insieme, disse la fida ancella.—Io sarei perduta.
—Vieni nella mia camera, Clementina....
—Non posso.... Non ho tempo.... Povera signora Virginia!
—Che è dunque avvenuto?.....
—È avvenuto, signore.... che qualche birbone....[190] qualche vostro nemico ha scoperto ogni cosa.... Voi mi intendete.... signor Lodovico!.... La marchesa sa tutto! La signora Virginia sa tutto! Il signor curato sa tutto! In tutto il paese non si parla che di questo brutto affare....
—Ma.... spiegati, mio Dio!.... Cosa si è saputo?....
—Eh! via! non stiamo a fare delle scene.... Io non ho tempo da perdere.... La mia povera padroncina è là che piange, che si dispera, che si strappa i capelli....
—Oh! presto! corriamo da lei....! esclama Lodovico, muovendo per uscire.
—Ci mancherebbe altro, signor cavaliere, per accrescere lo scandalo!.... Io sono espressamente qui venuta per avvertirvi di non provocare altri guai.... Il portinaio ha avuto ordine di non lasciarvi più entrare in casa della marchesa.... Se voi vi presentaste, nascerebbe una scena.... e al punto in cui siamo bisogna evitare nuove pubblicità!....
—Ma vorrai tu piegarmi una volta, che vogliano dire tutte queste novità, tutti questi misteri?...
—Voi lo saprete questa notte.... signor Lodovico.—Virginia avrà forse il coraggio di parlare... Io non ho potuto resistere alle lagrime, alla disperazione di quella poverina. Ella dice che non è possibile.... Ella sostiene che qualche vostro, o suo nemico vi ha calunniato.... per mandar a monte il matrimonio....
—Ah! trattasi dunque di una calunnia! sclama Lodovico.... Ma che possono aver detto sul mio conto di tanto grave, che la marchesa mi chiuda l'accesso alla sua casa.... mi tolga il mezzo di giustificarmi? In questo paese io non ho nemici.... Io non ho mai fatto male ad alcuno....
—Eh!... lo sappiamo che finora non avete fatto male ad alcuno.... Ma potreste farne.... e molto.... del male.... alla signora Virginia!..... signor Lodovico..... Le ho detto che non ho tempo da perdere... Dunque, sbrighiamoci.... Punto primo: non uscire di casa durante la giornata, e sopratutto guardarsi bene dal metter piede nel palazzo della signora marchesa. Punto secondo: questa notte, alle ore undici precise,[191] trovarvi presso la porticiuola del giardino che mette al sagrato... Virginia verrà ad aprirvi.... Io sorveglierò perchè nessuno interrompa il vostro colloquio... Voi vedete ch'io rischio di compromettermi pei voi....Non domando altro compenso che un po' di sincerità da parte vostra.... Guardatevi dall'ingannarla, quella povera figliuola!.... Franchezza! Schiettezza!.... Coraggio!.... Se non l'avete, tanto meglio.... se l'avete, tanto vale una confessione sincera.... Badate di non alterare la misura; poichè braccio più, braccio meno, il matrimonio non avrebbe effetto....
Quella inesplicabile conclusione pose il colmo allo stupore di Lodovico....
Clementina non attese risposta, e disparve.
Non v'è più dubbio.
Virginia Santacroce, la fidanzata di Lodovico Albani, ha di poco oltrepassato il terzo lustro, ed è bella come un angioletto.
Non è sorprendente—a sedici anni poche ragazze son brutte. Ciò che forse recherà meraviglia è il sapere che Virginia Santacroce ha oltrepassato il terzo lustro nella ignoranza completa di certi misteri naturali, che oggidì la più parte delle fanciulle all'età di dodici anni hanno già indovinato per istinto.
È ben vero che Virginia non fu educata in collegio; che nei primi anni ella non venne affidata alla tutela di una badessa pinzocchera; che vivendo in una borgata, ove per caso non erano altre fanciulle di nobile casato, potè scansare le pericolose amicizie e la comunanza non meno pericolosa de' primi sollazzi infantili.
Nondimeno il fatto è meraviglioso, tanto più che alla tavola della marchesa pranzavano sovente il reverendo parroco don Cecilio Speranza e il di lui degno Coadjutore don Domenico Crescenzi, morigerati entrambi[192] e prudentissimi a tutte l'ore del giorno, fuor che nell'ora della digestione.
La semplicità, l'innocenza della giovinetta avevano più che la bellezza affascinato il cavaliere Albani. Ne' più intimi colloqui colla fanciulla, Lodovico non si era permesso mai una di quelle parole, uno di quei motti ambigui, di che sembrano compiacersi i giovani fidanzati alla vigilia delle nozze. Quand'anche gli fosse sfuggita inavvedutamente una allusione meno sentimentale, Virginia non l'avrebbe compresa.
Senza tali premesse, il lettore si troverebbe molto imbarazzato a indovinare per quale accidente il notturno colloquio di Virginia e Lodovico riuscisse fatale ad entrambi.
Oh! perchè non ci è dato assistere a quella scena di sublime tenerezza, a quell'ingenuo abbandono di due anime santamente innamorate! Perchè non ci è dato riprodurre il dialogo vivo, animato, interrotto da lagrime, da sorrisi e baci più eloquenti d'ogni parola?
Ma i due amanti erano celati dietro un cespuglio, e parlavano a voce sì bassa, che la fedele Clementina, stando di sentinella a poca distanza, non riusciva a comprendere un motto.
Il colloquio dei due amanti durò tre quarti d'ora... È verisimile che l'ingenua e timida fanciulla provasse una istintiva ripugnanza a profferire la parola in cui si racchiudeva la spiegazione del grande mistero....
La situazione era molto difficile.... Una marchesa di sedici anni, una creatura poetica, innamorata, inebbriata di sublimi e caste illusioni, dover chiedere all'amante, all'essere adorato: è vero e non è vero che tu possegga una.... coda?!
Io mi appello a voi, o giovanette dall'anima pura ed ingenua—ditemi—non vi trovereste molto imbarazzate nel formulare una domanda di tal genere?...
La sventurata Virginia, dopo aver lottato per tre quarti d'ora contro sè stessa, finalmente ebbe il fatale coraggio....
Immaginate la sorpresa, lo stupore di Lodovico.
—Ella osa... chiedermi.... s'io mi abbia una coda?...
Tutta la poesia, tutte le illusioni, che da parecchi mesi alimentavano nel giovane la fiamma dell'amore, svanirono al suono di quella orribile parola.
Poco dianzi mi sono appellato alle fanciulle dall'anima pura ed ingenua;—ora mi appello a voi, o giovani dall'anima ardente.—Che avreste fatto, come avreste agito nel caso di Lodovico?
Una tale domanda mi dispensa da ogni spiegazione. Come si comportasse il giovine fidanzato, nessuno potè mai indovinarlo. Fatto è che Virginia, balzando poco dopo dal frondoso ricovero, qual se avesse toccata una serpe, gettossi fra le braccia di Clementina mandando un grido di dolore, mentre Lodovico si involava per la porticella segreta.
Il grido di Virginia fu udito.
La marchesa donna Fabia, che stava in quel punto alla finestra cogli occhi fissi alla luna e la mente assorta nella coda, si riscosse, abbassò lo sguardo, e vide fra i platani del giardino correre una figura bianca... Il cuore materno indovinò che quella bianca figura non poteva essere che Virginia.
Sciagurata ragazza...! Ella avrà voluto abboccarsi col signor Lodovico..... sapere da lui se.... Ma quale imprudenza!.... Quel grido mi ha commosso le viscere.... Oh! bisogna ch'io sappia sul momento....
E la marchesa uscì da' suoi appartamenti per correre alla stanza di Virginia....
La povera fanciulla si era gettata sul letto come persona affranta.... E nondimeno, vedendo entrare la madre, ella ebbe forza di levarsi, di correrle incontro e di gettarsele ai piedi per disarmarne la collera....
Oh! che hai tu fatto... figliuola mia!... A quest'ora!... in giardino!.... con un uomo.... che forse non è uomo...!
—Per pietà... non rimproverarmi, non affliggermi d'avvantaggio, mia buona madre!.... Confesso che io mi ebbi torto.... e te ne chieggo perdono. Quando tu lo dicevi.... avrei dovuto credere.... senza bisogno di altre conferme.... Mi era venuto un dubbio.... Mi pareva tanto inverisimile che il mio Lodovico....
—Ed ora?....
—Ora non v'è più dubbio!
—Dunque egli stesso ha confermato?...
—Ma se ti dico, mamma... che non v'è più dubbio!
E all'indomani, per mezzo della solita messaggiera,
Virginia inviò a Lodovico una lettera di formale congedo. Quella lettera non ammetteva repliche.
Due giorni dopo, il cavaliere Lodovico Albani lasciava la borgata di L.
La calunnia.
Scorsa una settimana, in sul sagrato della chiesa, il contino Tiburzio, incontrando ii molto reverendo sacerdote don Cecilio Speranza, ebbe con lui il seguente dialogo:
—Sapete voi, don Cecilio, che è proprio un caso da rimanerne trasecolati?
—Io non ho la fortuna di comprendervi, signor conte!
—Voglio alludere alla istoria del povero Lodovico.... all'affare della coda....
—Ebbene? vi par strano che la signora Virginia abbia ricusato di sposare un mostro, un animale di genere neutro.... un essere intermedio fra l'uomo e la bestia?
—Non è il rifiuto di Virginia che mi sorprende, colendissimo e reverendissimo signor curato.... Ciò che mi reca meraviglia è il sapere che Lodovico abbia realmente una coda...
—Che? non eravate voi sicuro prima d'ora?....
—Io vi giuro, signor don Cecilio, che quando vi ho narrato quella sciagurata istoria della coda, io aveva intenzione di celiare.... di fare una burla innocente.... Non ho dunque ragione di sorprendermi in veder realizzato un fenomeno, che io non credeva esistesse fuorchè nella mia imaginazione?
Il reverendo cavò di tasca la tabacchiera—fiutò un presa di rapè, levando gli occhi al firmamento—poi,[195] traendo il contino presso il vestibolo della casa parrocchiale:
—Mio buon signore—gli disse con voce melata—se è vero quanto asserite, che la coda del signor Lodovico fu da voi inventata per celia innocente, conviene ammirare in questo fatto la mano sagace della provvidenza, la quale talvolta si serve di un errore per condurre i miseri mortali alla scoperta del vero... Il signor Lodovico era un uomo pericoloso... Le sue massime, i suoi principî potevano scandolezzare gli onesti abitanti della borgata.... È bene ch'egli abbia dovuto ritirarsi.... Sarà prudente non riparlare dell'accaduto, e lasciar correr l'acqua pel suo letto.... Ciò che è fatto è fatto.... Ricordatevi bene, signor contino—e don Cecilio fiutò una seconda presa di tabacco—ricordatevi bene, che quando noi preti ci mettiamo la coda, nè anche il diavolo può impedire che essa produca il suo effetto.
Il contino si inchinò profondamente, e, tornando alla propria abitazione, gli ricorse alla mente un testo latino ch'egli aveva appreso in collegio dai reverendi padri gesuiti: calumniare! aliquid semper manet.—Il qual testo parafrasato verrebbe a dire: quando volete rovinare un galantuomo, inventate pure le più incredibili calunnie—e il mondo crederà sempre!
In una bella sera di settembre (non so bene se splendesse la luna) partiva da Monza una carrozza diretta verso Milano.
Sedevano nell'interno quattro persone, tre maschi ed una femmina; e siccome la femmina era più vecchia e più brutta dei maschi, così per evitare la noia del corteggiarla, questi pensarono bene di addormentarsi.
—Come russano questi animali! borbottò fra le gengive la vecchia peccatrice. Poi, lanciando uno sguardo obbliquo al cabriolet, e raccolto il magro ossame in un gran scialle di chachemire, cominciò a russare più sonoramente degli altri.
—La mamma dorme, mormorò Onorina.
—Mi pare che dormano tutti, rispose Federico. Onorina e Federico erano due ragazzi, la prima di dodici anni, l'altro di dieci, ed erano belli entrambi come due bellissime rose appena sbocciate. Il volto di Onorina, sebbene conservasse le tinte ancora freschissime, avea nondimeno perduta quella vernice infantile, che le donne bionde conservano talvolta oltre i quattro lustri.
I capelli acconciati con qualche ricercatezza, scendevanle, come due ale di corvo, dalla fronte fin sotto l'orecchio, dando alla sua fisonomia una espressione piuttosto severa. Quando una fanciulletta di dodici anni si pettina come una donna di venti, ed assume il contegno[198] d'una piccola matrona, è indubitabile che ella ha già perduta buona dose d'innocenza battesimale. O la notte ne' sogni, o il giorno nei fanciulleschi sollazzi, per qualche malcauta paroluzza sfuggita alla governante in un momento di cattivo umore, ad Onorina si erano già svelati certi misteri, la cui completa ignoranza mantiene sulle guancie degli adolescenti il sorriso dei cherubini. Oh, come è funesta la scienza del bene e del male ad un'Eva di dodici anni!
I garzonetti, meno precoci nello sviluppo delle facoltà organiche ed intellettuali, si dedicano più tardi a certi studi fisiologici, cui il nostro malvagio istinto ci trae naturalmente. Federico, sebbene educato in collegio, non aveva fino a quel giorno sospettato che sulla terra vi fossero altri sollazzi oltre il giocare alla palla e percuotere un paleo. Egli amava Onorina come si ama una gentile cuginetta, la sola che dividesse i suoi trastulli nei mesi delle vacanze. Talvolta, senza malizia veruna, se la faceva montare a cavalcioni sulla groppa, e, sotto una tempesta di frustate che la cattivella non lasciava mai di somministrargli, correva.... correva anelante pe' viali del giardino, finchè sfiniti di forze rotolavano entrambi sull'erbetta. Quel giocherello pericoloso non esercitava sull'anima di Federico veruna influenza morale. Troppo egli sapeva investirsi della parte che rappresentava: per Onorina egli era un cavallo e nulla più; tantochè, affaticato dalle corse, e dogliosetto per le frustate ricevute, ogni sera egli si separava da lei per dormire saporitamente, e ricominciare all'indomani gli interrotti sollazzi.
La vacanza era finita; Onorina e Federico tornavano quella sera a Milano in compagnia dei parenti, che come ho detto più sopra, si divertivano russando nell'interno della carrozza. I due fanciulli occupavano il cabriolet, e pareva non avessero alcuna voglia di dormire e tanto meno di starsene zitti; perocchè l'aria della sera e il moto della carrozza, che ai vecchi dà[199] sonno, ravviva all'incontro lo spirito degli adolescenti, che simili ai verginelli fiori si drizzano e rinverdiscono alla frescura delle rugiade.
—Come le vacanze passano presto! sospirò Onorina, levando gli occhi al firmamento.
—Fra pochi giorni torneremo al collegio...
—Dieci mesi di reclusione.... e di studio!
—E tu studii, Federico, quando sei in collegio?
—Oh bella! convien studiare per forza; in caso diverso il rettore mi condanna alla dieta di pane ed acqua... e mi batte con uno staffile....
—Come io, quando si gioca al cavallo.
—Oh! le tue frustate hanno ben altro sapore.... Fra noi si fa per divertirsi....
—Eppure.... mio bel Federico.... bisogna studiare... se vuoi farti uomo. Fra pochi anni non giocheremo più al cavallo.... allora tu sarai un giovane, ed io non sarò come adesso.... una bambina.... Bisognerà pensare a maritarsi.
—Maritarsi... e perchè dunque?
—Perchè le ragazze si maritano? Bella domanda.... Ma tu devi aver freddo... mio bel Federico...—E in così dire Onorina gli gittò sulle spalle un lembo del proprio mantelletto; e tutti e due si tacquero per pochi minuti.
—Chi sa... Ho qui in mente un gran pensiero... Se noi... ci sposassimo... Federico?
—Hai tu inteso dire che i ragazzi si sposino?...
—Non dico che ci sposiamo adesso.... ma in seguito... più tardi... quando saremo grandi...
—Oh! sì.... sì... ci sposeremo... Una volta sposati, non ci manderanno più al collegio...
—Quando un uomo e una donna si sposano, gli è per vivere sempre insieme...
—Ed io starò sempre con te, Onorina?...
—Sempre... sempre... fino alla morte!...
—E giocheremo ancora al cavallo?
Onorina sorrise, e si tacque.
La carrozza fece il suo ingresso in Milano, arrestandosi poco dopo alla porta di una modesta casa in contrada Sant'Andrea. I quattro dormienti si riscossero.
—Presto, Federico, siam giunti, disse il papà diradando la nebbia degli occhi. Gli sportelli della carrozza si aprirono. Federico strinse la mano di Onorina, e baciolla in fronte; alla luce del gaz, avresti veduta una lacrima brillargli nelle pupille. Onorina non piangeva; in età sì giovanile ella conosceva già l'arte della dissimulazione.
—A rivederci.... l'anno venturo!
La carrozza da cui Federico e suo padre erano discesi, si allontanò rapidamente; Onorina dall'alto del cabriolet sventolava in segno di addio il suo bianco fazzoletto.
Sei anni dopo, nel villaggio di Lambrate, Onorina si univa in matrimonio ad un ricchissimo ex-droghiere milanese, il quale a forza di convertire il cacao in cioccolatte, s'era comperato non so quante pertiche di terreno, e si godea tranquillamente in campagna una rendita annuale di circa trentamila lire. È inutile dire che l'amore non si era per nulla mescolato in quel faustissimo imeneo. Una fanciulla appena uscita di collegio non può innamorarsi di un fabbricante di cioccolatte, che non si distingue dagli altri uomini se non pel suo prosaico nome di Pasquale, e per un ventre enorme, simile ad un otre pieno di stoppa mal digerita. Onorina aveva letto dei romanzi; ella vagheggiava un Arturo o per lo meno un Enrico; ma siccome gli Arturi ch'ella aveva incontrati nel mondo non possedevano altra ricchezza fuori di un bel nome e di una bella capigliatura inanellata, i parenti le ingiunsero di sposare un Pasquale con trentamila lire di rendita.
Passarono tre anni ancora. I due sposi, se non felici, viveano per lo meno tranquilli. Onorina si era abituata al soggiorno della campagna; coltivava i fiori, educava le tortorelle, conversava colle galline[201] e coi gatti, rassegnata ad una vita di annegazione e di solitudine, per la quale nei primi giorni di matrimonio sentiva della ripugnanza. Pasquale, dal canto suo, cercava di soddisfarla in ogni desiderio; egli avea introdotta qualche riforma nelle proprie abitudini; vestiva con ricercatezza, si pettinava di tempo in tempo i favoriti, ed aveva educati, a forza di lardo, un bel paio di mustacchi rosso-bigi, ch'erano la delizia della moglie. S'egli non avea tutt'affatto l'aspetto d'un Arturo o d'un Enrico, nessuno in vederlo avrebbe supposto ch'egli fosse Pasquale Bertoni, il droghiere del vicolo delle Galline.
Cionullameno i due conjugi pativano ancora un difetto; dopo tre anni di matrimonio erano tuttavia senza prole. Onorina per distrarsi dalle noie della campagna, oltre ai gatti ed alle galline, avrebbe amato assai di educare un gentil bamboletto.
Un bel mattino, ecco entrar nel cortile un tilbury elegante. Onorina si affaccia al balcone; un giovinotto di circa vent'anni, biondo di capelli, e senza un pelo al mento, la saluta con dolce sorriso.
—Oh! io t'ho ben riconosciuta.... io... Come ti sei fatta bella!
—Che?.... voi.... siete dunque?
—Voi?.... voi?... Che significa questo voi?
—Federico!....
—Onorina!
I due cugini si riconoscono, e corrono per abbracciarsi. L'una precipita dalle scale, l'altro ascende con molta fretta... s'incontrano.... si urtano; e Pasquale, correndo dietro alla moglie, grida a tutta gola:
—Che furia è codesta? Chi è entrato nel cortile? Chi si è degnato di visitarci?
—Mio cugino Federico.
—Un cugino! ben giunto! Quale onore!.... Presto! Sgozzate due capponi.... e intanto, se il signore vuol prendere un cioccolatte....
La parola cioccolatte fa arrossire Onorina. Federico[202] stringe la mano di Pasquale; questi con mille parole e mille gesti gli esprime la sua cortesia, poi corre a dar gli ordini, perchè si allestisca un pranzo sontuoso.
La giornata trascorre rapidamente; Federico intrattiene Pasquale con mille piacevoli baje; parla di politica, di teatri, di scienza, di musica, non lasciando di volgere qualche occhiata alla bella Onorina, che lo contempla e lo ascolta meravigliata. Il pranzo fu servito sontuosamente.
—Oh! qui in campagna si vive pur bene! esclamava il giovinotto con certa affettazione sentimentale. Per un uomo, quale io mi sono, stanco del mondo e delle sue pazze gioie, non vi è soggiorno preferibile a questo.
—La mia casa è a vostra disposizione, s'affrettava a rispondere il buon droghiere. Se vi degnate di rimanere qualche tempo fra noi, sarà per me e per mia moglie un vero favore.
—Basta! Vedremo. E volse furtivamente alla cuginetta una scelleratissima occhiata.
Finito il pranzo, Pasquale fu il primo a levarsi da mensa.
—Voi mi perdonerete, signor Federico, se vi lascio per poche ore. Mia moglie vi terrà compagnia. Presto, Onorina! Perchè non accompagni il cugino... a vedere la vigna?
Federico balzò in piedi, offerse il braccio alla bella cuginetta, e tutti e due se n'andarono a passeggiare nella vigna.
Giunsero ad un magnifico pergolato, ov'erano due sedili di marmo coronati di ellera e di muschio.—Sedettero.
—L'ultima volta che ci siamo veduti, disse Federico, eravamo fanciulli. Dieci anni sono già trascorsi. Qual cambiamento in dieci anni! Hai tu dimenticata quella notte... l'ultima che abbiamo passata insieme? Ci recavamo a Milano... in compagnia[203] dei nostri parenti... i quali erano nell'interno della carrozza.
—Mia madre dormiva...
—Dormivano tutti..
—Noi eravamo nel cabriolet, l'uno accanto dell'altra. Io avevo freddo... tu mi copristi con un lembo del tuo mantello.
—Che età felice era quella!...
—Tu mi dicevi: Federico, ho qui in mente un gran pensiero... Se noi ci sposassimo!
—E rammento che tu mi rispondesti...
—Ebbene? qual fu la mia risposta?
Onorina sorrise, e tacque.
Un'ora dopo, i due cugini, l'uno al braccio dell'altro, rientravano in casa lentamente. Pasquale finiva in quel momento di saldare non so quali partite ai suoi affittaiuoli.
—Ebbene, diss'egli a Federico, che ne dite della nostra vigna?
—Superba... deliziosa, incantevole!
—Resterete voi qualche tempo presso di noi?
—Purchè mi promettiate di trattarmi senza cerimonie...
—Tutti i giorni come oggi, Federico. Io attenderò ai miei affari, voi attenderete ai vostri... senza che l'uno dia impaccio all'altro. Sta bene?
—A meraviglia!
Federico si trattenne circa un mese alla campagna, ed Onorina fu molto lieta di visitare tutti i giorni la vigna col suo bel cuginetto. Rammentando i bei giorni dell'infanzia, i primi innocenti sollazzi, le illusioni, le speranze, le promesse, è probabile ch'essi provassero infinito piacere, giacchè più volte rimasero nel favorito boschetto fino a notte avanzata.
Nel momento in cui Federico montava nel tilbury per tornare a Milano, Pasquale, dandogli una buona[204] manata sulla spalla: voglio sperare, gli disse, che questa primavera sarete ancora dei nostri.
—Ve lo giuro!
—Buon viaggio!
—Buon viaggio! ripetè Onorina con voce fioca.
Questa volta Federico si congedava colle pupille asciutte, mentre invece la cuginetta lasciava sfuggire dalle palpebre una lagrimuzza mal frenata. A vent'anni gli uomini perdono affatto l'abitudine di piangere; le donne sembra invece che l'acquistino.
Del resto, i due cugini si rividero la primavera seguente. Pasquale fu sempre il buono, l'ingenuo, l'onesto Pasquale; Onorina e Federico si recarono costantemente sotto il pergolato a pascersi di rimembranze infantili.
Mi viene assicurato che Onorina è al giorno d'oggi la più felice, la più invidiabile delle spose. Essa ha due figli, che pajono due bottoni di rosa, e pone in educarli ogni sua compiacenza. Pasquale li ama anch'egli coll'eguale tenerezza, e sovente, recandoseli in grembo, e compartendo a quelle guancie rubiconde i più affettuosi baciozzi, dice alla moglie:
—Si direbbe, che quel nostro cugino ci ha portato fortuna! Dal giorno ch'egli è venuto a trovarci la vigna ha prosperato, la raccolta dei bozzoli è andata bene, s'è fatta sempre buona quantità di frumento, e poi abbiamo avuto anche due figli, che sono belli quanto lui. Dimmi Onorina: non ti pare che gli somiglino?
—A lui?—risponde Onorina, sorridendo—guardali bene... e vedrai che sono il tuo ritratto.
Pasquale, sentendosi dar sul muso le naticuzze rotonde de' suoi due figliuoletti;—è vero, risponde—hanno proprio la mia faccia!
Lo stradale che da Milano conduce a Pavia, al cominciare del novembre 1839, presentava l'aspetto di un corso. Era l'epoca nella quale gli studenti si recano all'Università per corroborare l'intelletto colla scienza, e lo stomaco col vino di Stradella e di Voghera.
L'avvocato Griffanti, il giorno cinque di novembre noleggiò dunque una vettura per accompagnare il proprio figliuolo Annibale fino alle porte dell'Ateneo. Il viaggio fu lungo, e le prediche dell'ottimo padre più lunghe ancora e forse più noiose. Annibale ascoltava, fingeva di ascoltare, interrompendo di tempo in tempo il buon vecchio con un: sì, papà, accompagnato da un leggiero chinar del capo.
—Figliuol mio, tu mi costi un occhio della testa. Dal giorno che io e tua madre ti abbiam dato alla luce, ho speso pel tuo mantenimento fisico ed intellettuale diecimila cinquecento trenta lire e sessanta centesimi. È inutile che io ti faccia notare che più cresci in età, e più danaro mi consumi. Ad opera finita mi verrai a costare ventimila lire incirca; somma considerevole, che tu, quando avrai compiuto il corso degli studi, non saprai riguadagnare in vent'anni d'avvocatura. Comprendi tu l'importanza e la gravezza dei sacrifici paterni?
—Sì, papà.
—Io potevo destinarti ad un'arte volgare; e forse a quest'ora tu saresti un eccellente falegname, o un[206] sarto, un parrucchiere, e guadagneresti di che vivere col frutto delle tue fatiche, ed io sarei esonerato da ogni dispendio. Tu desiderasti addottorarti in ambo le leggi: io non mi opposi alla tua vocazione. Bada però che siamo ancora in tempo a far un passo addietro, e se quest'anno non metti la testa a partito, se, trascinato dal tuo mal genio, o corrotto dalle cattive pratiche, non corrispondi alle speranze ch'io ho di te concepite, l'anno venturo ti mando senz'altro a bottega. Lo studio dell'avvocatura non presenta grandi difficoltà; a' miei tempi ho veduto addottorarsi certi pecoroni, che in zucca non aveano due grani di sale; eppure oggigiorno essi occupano cariche distinte, e sanno farsi pagar caro anche dai clienti che mandano in rovina. Ma io so che lo studiare non ti incresce, e da questo lato me ne sto tranquillo...
—Sì, papà.
—Ciò che mi preoccupa maggiormente è il pensiero della tua condotta economico-morale. Ah! quella benedetta economia! Essa è il fondamento di tutto lo scibile umano. Io credo che, a' miei tempi, un giovane regolato, in Pavia, poteva passarsela assai bene con venticinque soldi il giorno, o poco più. È una città dove si vive anche oggigiorno a buon patto; vi sono delle trattorie dove per quindici soldi si hanno due piccole, la minestra e il giardinetto. Il vino (di cui però ti consiglio ad astenerti), costa a un dipresso sei soldi al boccale; come tu vedi, si può quindi con venti soldi circa fare un pranzo lautissimo. Anche gli alloggi sono a buon prezzo; io spero trovarti una camera decente per lire quindici al mese. Ecco dunque, pel prezzo di quaranta lire al mese, proveduto di pranzo e d'alloggio. L'altre spese di colazione, cena, lavatura di biancheria, libri, penne, ceralacca, zolfanelli, ponno ammontare ad altre quindici lire; si aggiungano altre due lire pei minuti piaceri, ed ecco con sessantadue lire te la passi da principe. Non ti pare che io abbia ben calcolato?
—Si, papà.
—Cionondimeno io voglio essere largo. Io ti ho destinata una pensione di lire ottanta, che riceverai regolarmente, di trenta in trenta giorni, dal mio corrispondente. Sai tu che a Milano, con ottanta lire al mese, vivono molti impiegati, i quali hanno moglie e figliuoli, e fanno una bella figura nel mondo?...
—Si, papà... fanno delle belle figure!... borbotta Annibale fra i denti.
—Nella valigia troverai una macchinetta per cuocere il caffè, la stessa di cui mi sono servito io quando studiava all'Università. Il caffè è una bevanda eccellente per isvegliare lo spirito dopo tre o quattro ore di profondo studio; nondimeno ti consiglio ad usarne con moderazione. Una tazza ogni mattina, due tre fette di pane, ed ecco hai fatta una colazione più che sufficiente. Durante il giorno non ti consiglio di farne uso, tranne in caso di indigestione; ma un giovane costumato e dabbene non deve andar soggetto alle indigestioni. Con un pranzo di venticinque soldi, si previene qualunque indisposizione di tal genere; nella valigia troverai tanto caffè e tanto zuccaro quanto ti potrà bastare per due mesi. Posso io sperare che non abuserai delle larghezze paterne?
—Sì, papà.
—Avverti bene, figliuol mio, che noi non siamo ricchi. Tu hai quattro fratelli e tre sorelle, alla cui educazione io debbo pensare. Alla mia morte d'altro non vi lascio eredi che d'un nome onorato; in altri tempi il nome era un capitale, al giorno d'oggi gli è quasi una passività. Oh! potessi prima di chiuder gli occhi all'eterno sonno, vedere i miei figli ben avviati! È l'unico compenso che io vi domando, in mercede del tanto che ho già fatto, e che farò per l'utile vostro. Annibale, tu devi precedere gli altri coll'esempio... tu puoi colla tua condotta essere il decoro ed il sostegno della nostra famiglia, o immergerla nella desolazione e nella miseria. Sovvengati della tua povera madre... dei savi consigli ch'ella spesso ti ripeteva... e dirigi ogni tua azione come s'ella ti fosse presente.
—Sì, papà.
Annibale era commosso. La memoria della madre perduta fece in quel giovine cuore di diciannove anni maggior impressione che non i calcoli e le esortazioni precedenti. Egli profferì mentalmente la promessa di essere mai sempre costumato e studioso, e in pari tempo si asciugò una lagrima dalle ciglia. L'avvocato Griffanti, attribuendo la commozione del figlio all'effetto delle sue eloquenti parole, sorrise di compiacenza e d'orgoglio. Il padre e l'avvocato non avevano ottenuto mai un più grande trionfo.
Quando piacque al cielo, la vettura giunse alle porte di Pavia. Trovata una camera decente, Annibale vi fece trasportare la propria valigia, poscia in compagnia del padre si recò a pranzare in una modesta trattoria, dove malgrado tutte le osservanze economiche, vennero a spendere circa dieci lire.
Un'ora dopo, l'avvocato Griffanti ha risoluto di tornare a Milano. Annibale riceve colla massima compunzione le ottanta lire della pensione e un centinajo di consigli più meno seccanti; il padre ed il figlio si abbracciano teneramente; questi si avvia passo passo alla sua abitazione, e poco dopo s'affaccia alla finestra zufolando, unico mezzo di distrazione per chi non è abituato a fumare dieci o dodici zigari al giorno.
Ed ecco tre studenti vengono a passare sotto la finestra. L'un d'essi è un intimo amico di Annibale, un capo sventato, già celebre al liceo di Sant'Alessandro, per poca volontà di studiare e moltissima volontà di divertirsi.
—Buon giorno, Annibale!
—Oh! tu pure all'Università?
—Mio padre ha secondata la mia vocazione. Intendo applicarmi alle matematiche. E tu, da quando sei arrivato?
—Da sta mattina a mezzo giorno.
—Se permetti, vengo a farti una visita, in compagnia di questi buoni amici.
—Prenderemo insieme una tazza di caffè.
I tre studenti salgono rapidamente le scale, entrano nella camera d'Annibale, e sedendo chi sulle[209] scranne, chi sul letto, cominciano a conversare lietamente delle faccende loro. Annibale, per fare onore ai suoi ospiti, dà fuoco alla macchinetta, e prepara il caffè.
—È permesso?
—Avanti.
—Si può far conoscenza coi nostri vicini?
—Con chi ho l'onore di parlare?
—Con un anziano, che da quattordici anni studia le scienze mediche.
—Ben giunto! Presto; un altro bicchier d'acqua e due cucchiai di caffè.
Il nuovo arrivato è un uomo di circa trentadue anni, di professione studente, grasso, rotondo, barbuto, un naso fatto a guisa di peperone, che a forza di immergersi nelle scodellette del vino piemontese, in sulla punta è divenuto pavonazzo. Nell'entrare egli stringe la mano ai quattro matricolini, ed assumendo un tuono autorevole e misurando a gran passi la stanza, improvvisa una predica, i cui concetti morali sono press'a poco del tenore seguente:
—Voi cominciate, ed io ho quasi finito. Gli anni più belli della vita son quelli che si passano all'Università! guai a chi non sa profittarne! Gli studi sono un pretesto, un eccellente pretesto per emanciparsi dalla sorveglianza, dalla tirannia dei parenti. Allegri dunque, figliuoli! A scuola meno che possibile; la vera scienza si acquista nelle osterie, fra buoni compagnoni, con un fiasco di vino sulla tavola. A Pavia, checchè ne dicano taluni, si può passarsela allegramente; il vino è a buon patto, vi hanno osterie eccellenti, trattorie e caffè dove si paga metà a chiacchiere, metà a pugni, e le donne.... per chi sa snidarle... sono belle ed amabili anche qui come negli altri paesi del globo. Penetrato da siffatte verità, io non mi sono affrettato di troppo a domandare l'alloro dottorale. Ho già veduto due generazioni di studenti passarmi dinanzi, ed ho sorriso di compassione nell'osservare con qual ansia affannosa corrano taluni verso una meta, che è il principio di tutte le calamità. La laurea dottorale è la tomba della giovinezza. Figliuoli,[210] io vi metterò sulla buona strada. Le vostre menti ancora intorpidite hanno bisogno di una scossa. Tutto dipende dai primi passi, dalle prime lezioni. Slanciatevi senza paura, e sarete salvi. Io non dubito che voi abbiate delle disposizioni eccellenti per fare una buona riuscita... Ercole Roccadura, il decano degli studenti di medicina, vi stende la mano, e promette scortarvi coi propri lumi, colla propria esperienza.
Annibale e i suoi compagni son commossi di entusiasmo, e, facendosi intorno all'oratore, con un misto di confidenza e di venerazione, gli dicono ad una voce:
—Qual fortuna d'aver fatta la vostra conoscenza!
—A scuola meno che è possibile!
—Viva l'allegria! viva le donne... ed il vino!
—Viva gli studenti! Viva il decano Ercole Roccadura!
In meno di un quarto d'ora, nella stanza del giovane studente è un vero baccanale. Roccadura invita a salire tutti gli amici che passano nella via; Annibale gli accoglie colla cordialità del perfetto gentiluomo; la macchinetta suda perennemente a preparare il caffè per ogni nuovo arrivato, e dopo aver preparato il caffè, suda di bel nuovo per l'ebollizione dei punchs.
—Che bella compagnia! grida Roccadura, dominando colla sua gran voce e colla sua gran barba l'intera assemblea. Questo si chiama inaugurar bene l'anno scolastico! Veggo che il nostro matricolino ha belle disposizioni... Questi punchs sono eccellenti! Viva gli amici degli amici!
—Viva! urlano ad una voce gli altri studenti.
—Poichè s'è cominciato, tant'è che si finisca allegramente! Se invitassimo a prendere il punch....... Ah!.... vediamo se le due Caruccelli stanno ancora qui dirimpetto...?
—Chi sono le Caruccelli?
—Due ragazze... due modiste... di buona volontà... vere figlie dell'amore... amiche degli studenti... matte per il punch e pel vino d'Asti.... due ballerine numero[211] uno! Ah! vi giuro, se io posso indurle a passare la serata con noi, me ne avrete all'indomani infinite obbligazioni.
—Presto, si chiamino le Caruccelli...
—Io mi incarico di snidarle dal loro coviglio e condurvele innanzi belle e spiumate.
Roccadura esce per pochi istanti, quindi rientra accompagnando le modiste, che non sono nè giovani, nè belle, nè amabili, e nullameno vengono accolte dagli studenti con una esplosione di applausi fragorosi.
—Presto! una tazza di punch... alle donne... Bella Marietta... adorabile Carolina...
Libare a nappo amico
Spero che a voi non gravi!
—Il punch mi fa male, risponde Carolina.
—Preferirei un bicchiere di vino d'Asti... soggiunge l'altra strega.
—Vino d'Asti! Annibale, presto! si mandi a prendere del buon vino d'Asti... Al caffè qui sull'angolo... ve n'ha di squisito... Onore, gloria e servitù al bel sesso!
Le due donne si accovacciano in un angolo della camera. L'una si diverte a masticar caffè tostato, l'altra, per preparare lo stomaco al vino d'Asti, trangugia d'un fiato un bicchiere di rhum, che Annibale le offre recitando una stroffetta di Metastasio.
Poco dopo, Roccadura entra colle bottiglie. La vista del liquore spumante rianima la festa, cui, per dir vero, la presenza delle Caruccelli non aveva aggiunto alcun brio. Carolina e Marietta s'affrettano a vuotare parecchi bicchierini; le loro guancie si colorano di porpora, gli occhi sfavillano cisposi, le lingue si snodano, e ai tanti complimenti, alle tante dichiarazioni e proteste da cui sono assediate, rispondono anch'esse colle espressioni più amabili e più sentimentali, ingemmando i loro discorsi di tutte le eleganze e le grazie del dialetto pavese.
—Ora vediamo di utilizzare queste donne a beneficio[212] di tutti, esclama Roccadura. Io direi che si rinculassero i tavolini e gli altri mobili inutili, e qui senz'altri apparecchi, si improvvisasse una festa da ballo. All'orchestra ci penso io. L'amico Bogni suonerà l'ottavino, io corro a prendere il mio bombardone, e vi giuro che noi due soli faremo tanto fracasso da far ballare anche le pareti della casa. Annibale, tu bada a tener accesa la macchina.
—Dopo il vino d'Asti, queste signore non rifiuteranno di prendere anche il punch..... Io conosco il mal delle bestie... Su! snodate le gambe! e viva l'allegria!
In meno di due minuti la sala è preparata per la festa. Bogni e Roccadura ritornano co' loro strumenti, montano sul letto, mettono la piva in becco, e i ballerini si slanciano, mandando urli frenetici, e facendo traballare il pavimento.
Annibale è pazzo dalla gioia. Il punch, il vino d'Asti, il caffè, il contatto di quelle donne, che sebbene non abbiano le forme ed i vezzi di Venere, hanno però quanto basta ad esaltare l'immaginazione d'un giovinotto di sedici anni, cioè una gonnella e quattro sottane inamidate; la gioia di trovarsi libero da ogni sorveglianza; il frastuono, il ballo, le grida, il polverìo che si solleva dai mattoni, tutto concorre ad infiammargli il cervello. Le due Caruccelli lo esortano a bere, ballano sovente con lui, e nel fervore della danza gli stringono di tempo in tempo la mano in segno di predilezione. Egli ad ogni valzer, ad ogni galoppe, diventa più ardito; fa mille dichiarazioni d'amore in tono patetico e sentimentale, e dopo aver giurato eterna fede ad ambedue le sorelle, promette sposarle appena compiuto il corso degli studi.
L'intemperante allegria degli studenti ha già portato qualche guasto nei mobili. Lo specchio è caduto dalla tavola da notte, ed ha mandato in frantumi una diecina di bottiglie vuote, la catinella ed il vaso dell'acqua. Marietta colla coda delle sue sottane s'è tirata dietro la guantiera con dieci o dodici fra chicchere e bicchieri colmi di punch. Roccadura, battendo la misura col piede, ha spezzato le assi del[213] letto, che dividendosi in quattro parti, sprofonda i due suonatori fra i guanciali ed il pagliericcio, rinversando in pari tempo il vaso da notte.
Due studenti liberatisi dal paletot, si involgono nello scialle delle modiste; queste indossano il paletot degli studenti, e appena Annibale ha finito di aggiustarsi sul capo la cuffia di Marietta e farsi col sughero due enormi mustacchi, la porta si apre inaspettatamente, e l'avvocato Griffanti comparisce in sul limitare.
Annibale rimane interdetto, immobile, pietrificato. Le donne vanno a nascondersi dietro le cortine; malauguratamente, in quella rapida evoluzione, una d'esse spinge col gomito la bottiglia dell'alcool, che, versandosi in sulla macchinetta, prende subito fuoco e cola sul pavimento come una lava.
L'avvocato Griffanti contempla per qualche minuto senza dir parola quello spettacolo di disordine e di devastazione; poi con voce tranquilla, senza avanzarsi d'un passo dice al figliuolo:
—La vettura, con che io doveva recarmi a Milano, è ribaltata in un fosso a due miglia dalle porte; come tu vedi, ho dovuto retrocedere, e questa notte resterò ancora in Pavia. Quando hai sbrigate queste tue faccende, vieni a trovarmi all'osteria della Croce bianca, dove vado ad attenderti.
—Si, papà... risponde Annibale fregandosi colle dita i mustacchi e levandosi coll'altra mano la cuffia di Marietta.
E mentre l'avvocato Griffanti si allontana a lenti passi va mormorando:—Alla sua età ho fatto anch'io lo stesso e forse peggio.. e con tutto ciò sono dottore. Ah! siamo pur ridicoli, noi altri papà!.....
Chi ha moglie, non legga. Le scene che qui trascrivo non possono interessare che gli innamorati e i fidanzati, quei felici che sono ancora in tempo a sfuggire il fatal laccio. I mariti non hanno che a rassegnarsi e a pregar Dio che ammollisca o sdruscisca le loro catene. Che potrebbero essi apprendere di nuovo, qual frutto ricavare dal riflesso di questi bozzetti?
Ecco in qual modo Valentina Cornalbo, alla vigilia delle sue nozze, scriveva a Clotilde Bellocchio:
«Mia tenera amica,
«Domani nella chiesa di San Bartolomeo, in presenza degli uomini e del cielo, io diverrò sposa di Cristoforo Montorio, agente comunale della nostra borgata, ricco possidente, segretario della fabbriceria, capo della confraternita, direttore della banda civica, membro onorifico della Società d'incoraggiamento per l'ingrasso dei campi, ecc. Questo matrimonio, come ti dissi altre volte, fu progettato e condotto a compimento dalla mia buona zia Carmelinda, la quale mi ha sempre raccomandato di preferire uno sposo costumato e dovizioso ad uno di questi azzimati bellimbusti, che hanno molta apparenza e poca sostanza.[216] Cristoforo non è bello, pure ha molte qualità interessanti, e sebbene il suo aspetto non risponda all'ideale delle mie fantasie giovanili, spero col volger del tempo corrispondergli quella tenerezza e quell'amore, che fino ad oggi non seppe ispirarmi. Se tu vedessi i bei regali da nozze! Quando io penso che domani tutte queste perle brilleranno sui miei capelli....! Oh, il mio Cristoforo è un uomo... adorabile. Il vestito da nozze è di una magnificenza..... di una eleganza... E i braccialetti! Figurati... quattro braccialetti.... l'uno di forma di serpente, colle spire screziate a mille colori e gli occhi di diamante; l'altro... una ghirlanda di viole colorita da mille pietruzze; il terzo... un gran medaglione su cui spicca il ritratto di Montorio... in abito di presidente della confraternita... Oh il mio Cristoforo! Io sento che un giorno o l'altro sarò costretta a volergli bene... anche a lui. E i libri di preghiera, legati in velluto, con mille rabeschi d'argento! E il ventaglio! E questo magnifico orologio d'oro..... con una catena lunga dieci braccia! Che posso desiderare di più? Domani mi metterò addosso tutte queste belle forniture. Domani!.. Ah Clotilde!.... come io bramerei che tu mi vedessi così bardata! Mio marito, dopo la cerimonia, vuol condurmi a fare un viaggio... fino a Milano; al mio ritorno verrò a farti una visita. Io non intendo di rimanere a lungo imprigionata in codesto villaggio... Ho bisogno di muovermi... di prender aria... di correre un poco anch'io questo bel mondo, di cui finora non conobbi che l'oscuro angoluccio dove son nata. Sì.... Clotilde... noi verremo a trovarti.... e allora ti dirò il resto... Frattanto, mentre auguro anche a te un buon marito, aggradisci un bacio della tua compagna di collegio, ed amica
Valentina Cornalbo, domani Montorio.»
Seregno, 18 Ottobre 1837.»
Risposta di Clotilde alla lettera precedente:
«Mia buona Valentina,
«Quando riceverai questa lettera tu sarai già sposa. Mentre ti ricambio mille auguri di felicità, mi affretto ad annunziarti che fra quindici giorni anch'io sarò unita all'uomo che adoro..... unita per sempre. Il mio fidanzato non è ricco, nè insignito di cariche illustri.... Egli è un giovine poeta, che da sei settimane venne, per ragioni di salute, ad abitare nei dintorni di Varese. Questo nome di poeta ti farà sorridere, mia Valentina; forse tu ti sovverrai del Cambiaggio nell'opera i Falsi monetari, a cui assistemmo insieme. Pure il mio poeta non ha nulla di comune con don Euticchio. Figurati un bel giovine di venticinque anni, pallido in volto, due occhi neri pieni di tristezza, un labbro vellutato da un bel pajo di mustacchi nascenti, un portamento nobile ed elegante, l'insieme della persona aggraziato e gentile. Quando verrai a trovarmi, io ti narrerò tutta la storia di questo amore, che fu il primo e sarà anche l'ultimo della mia vita.—Quanti ostacoli prima di ottenere da' miei parenti il bramato consenso! Mia madre ha perorato in nostro favore, ed ha vinto. Il giorno stesso ch'io ricevetti l'ultima tua lettera, fu anche deciso il mio matrimonio con Alfredo Leoni—Alfredo Leoni! Che ti pare di questo nome? Non somiglia a quei nomi, che sovente abbiamo letto nei romanzi o nei drammi francesi? Ma il mio fidanzato (perdona se io ti parlo sempre di lui) è veramente un personaggio da romanzo, uno di quegli esseri che io credeva non esistessero se non nella immaginazione degli scrittori.
»Il nostro matrimonio verrà celebrato senza pompa. Il povero Alfredo non può fare di grandi spese per me; nè io lo pretendo. Egli ha ottenuto un impiego, a Milano, dove ora si è recato per farvi ammobiliare[218] un modesto appartamento. Subito dopo il matrimonio, ci recheremo colaggiù a vivere dei prodotti del suo impiego e della piccola rendita che mio padre mi ha stabilita per dote, felici del nostro amore, che durerà quanto la vita. Verrai tu ad assistere alle mie nozze? Oh! come te ne sarei grata! Saremo in piccolo comitato di parenti e di amici; alla mattina ci recheremo alla chiesa; poi, si farà un pranzerello in casa di mio padre; Alfredo reciterà dei versi, tu suonerai una dozzina di polke; balleremo, canteremo, si farà un po' di baldoria e poi ci separeremo.... per rivederci..... Dio sa quando.... A proposito di versi, sai tu che la è una gran bella cosa.... l'esser amata da un poeta! Se tu lo sentissi, quand'è in vena, od è, come si suol dire, infiammato dall'estro! Io mi starei tutta la giornata ad ascoltarlo. Per verità in quelle sue lunghe tirate io non ci comprendo gran cosa; ma l'espressione del suo volto, l'accento della sua voce, quei gesti, quel fuoco, quell'enfasi.... tutto in lui mi rapisce e mi esalta. Egli paragona i miei occhi a due stelle; dice che il mio sorriso è un'aura di paradiso, e che non sarà mai più da me diviso; che quando io canto, lo sforzo al pianto, che quando io rido, il cor gli uccido.... e tant'altre cose tutte belle.... tutte piacevoli ad udirsi. Oh! io voglio che tu lo veda.... che tu lo senta.... Verrai, non è vero? verrai a trovarmi il giorno delle mie nozze. Pensa che senza di te la festa non sarebbe compiuta.
Addio, o piuttosto a rivederci presto, mia buona Valentina. Mille saluti al tuo sposo che desidera vivamente di conoscere.
La tua Clotilde»
«Varese, 18 ottobre 1837.
La sera del 15 ottobre dell'anno 1837 prendevano alloggio all'albergo d'Europa, allora locanda di San Paolo, in Milano, il signor Cristoforo Montorio e sua[219] moglie Valentina, in compagnia di alcuni parenti ed amici che avevano seguiti i due coniugi in quella spedizione di piacere. La numerosa e lieta brigata cenò di buon appetito, poi tutti se ne andarono al teatro della Scala, con sommo dispiacere del signor Montorio, il quale, per sue particolari ragioni, avrebbe preferito d'andarsene a letto. A un'ora dopo mezzanotte la comitiva tornò alla locanda. Montorio si fece recare un brodo all'uovo, quindi accomiatandosi dai compagni, che non cessavano dal perseguitarlo con mille celie e mille equivoci motti, si chiuse in camera colla sposa.
All'indomani, verso le sette del mattino, Valentina era già desta ed abbigliata per uscire. Ella volle salire sulla cupola del duomo, con nuovo rammarico del signor Montorio, che avrebbe preferito di fare una gita in carrozza. Valentina, leggiera e volubile come una capriola, saliva gli scalini a quattro a quattro, visitava ogni angolo, ogni nicchia, correva dall'una all'altra estremità del grandioso edificio. Montorio la seguiva ansante, cogli occhi fuori dell'orbita, la lingua gonfia e schiumosa; ad ogni tratto egli si fermava per riposare su qualche scalino e si asciugava il sudore, mentre Valentina gli gridava dall'alto: Che fai Montorio? Presto! Io son già quasi alla sommità della cupola maggiore! Che? Dove è andato il tuo coraggio? Hai tu già perduta la lena?—E il poveretto si alzava da sedere, e s'arrampicava per quelle scale tortuose, come un giustiziato salirebbe i gradini del patibolo.
I due coniugi soggiornarono a Milano una settimana. Il povero Montorio era visibilmente dimagrato. L'ultimo giorno, quando Valentina gli propose di salire sull'arco del Sempione, egli senti davvero mancare il coraggio. Confidò la infaticabile compagna al servitore di piazza, e, sdraiandosi sulle erbette, rimase per ben due ore immobile come corpo morto.»
La sposa dall'alto del monumento lo chiamava a gran voce:
—Montorio! Montorio! Io ti credeva men pigro e più robusto....
Il ritorno al villaggio fu men gaio che la partenza. Valentina parve noiata, e, durante il tragitto, per dispensarsi da ogni conversazione, pretestò una forte emicrania. Montorio, al primo muoversi della vettura, si addormentò profondamente; i parenti e gli amici che lo accompagnavano, non lasciarono di notare che, durante il sonno, la sua testa pendeva dal lato opposto a quello della moglie.
Quando i due sposi furono soli nel loro appartamento, Montorio disse a Valentina:
—Sono stanco dal viaggio; io vado a dormire nel mio gabinetto. A Milano abbiamo fatto tante salite!
Rispose la moglie:
—Sta bene. Buona notte!
Verso mezzanotte, una voce di tenore, accompagnata da una chitarra, cantava melanconicamente in lontananza:
Fin dall'età più tenera
Tu fosti mia, lo sai;
Tu mi lasciasti, ahi misero!
Anche infedel.... t'amai....
Valentina era ancor desta; Montorio, russando sonoramente, pareva che dal suo gabinetto secondasse quella canzone con un accompagnamento di contrabasso.
Pochi giorni dopo, Valentina riceveva da Clotilde la lettera seguente:
«Mia buona amica,
«Io ti aspettava il giorno delle mie nozze; invece mi pervenne un laconico biglietto, pieno di frasi tronche e sconnesse. Debbo credere che dopo quindici giorni di matrimonio.... tu sii già la più sventurata fra le donne? Via! Fu un quarto d'ora di cattivo umore....! Spero ricever presto un'altra lettera[221] tutta ingemmata di gioconde ed amabile cose. Frattanto, se il sapermi felice può recarti qualche dolcezza, sappi che dal giorno delle mie nozze infino ad oggi, per me la vita fu un seguito di piaceri. Oh, come a torto il matrimonio fu chiamato da alcuni la tomba dell'amore! Se in Alfredo pochi giorni sono io amava il fidanzato, oggi in lui adoro il marito, e col succedersi dei giorni, delle ore, dei minuti, scopro in lui pregi, che vieppiù me lo rendono caro.
«Compiuta la cerimonia nuziale, noi ci recammo alla casa di mio padre, e dopo un lieto convito, a cui intervenne una scelta brigata di parenti e di amici, partimmo alla volta di Milano. Alfredo non volle che alcuno ci accompagnasse. Nulla infatti è più incomodo e più imbarazzante per due innamorati quanto la presenza di persone estranee. No, diceva Alfredo, noi non consentiremo all'avida curiosità dei profani lo spettacolo di queste prime, ineffabili gioie! Noi partiremo soli pel nuovo pellegrinaggio d'amore a cui Dio ci ha chiamati; l'oscena celia, l'equivoco motteggiare degli stolti contaminerebbe la purissima atmosfera che ne circonda, o sfoglierebbe le rose della ghirlanda che io ti posi sul capo.
«Mio padre, mia madre, tutti i nostri parenti ed amici si levarono dal banchetto, e ci accompagnarono alla vettura. Mia madre versò un torrente di lagrime; ella non si restava dal baciarmi e dallo stringermi fra le braccia; poi, volle abbracciare anche Alfredo, e, quando la vettura si mosse per partire, ella levò le sue scarne braccia in atto di benedirci.
»—Amatevi, amatevi sempre, figliuoli miei: tali furono le ultime parole della buona vecchia; Alfredo, fate felice la mia figliuola.
»Allora lo sposo mi avvinse fra le sue braccia, e così abbracciati sparimmo allo sguardo dei circostanti.
»Tu pure, o Valentina, avrai provate le celesti emozioni di quel primo abbandono, di quei primi trasporti d'amore. V'ha egli nella vita nostra un istante di maggior felicità? Amarsi, e trovarsi isolati dal mondo intero, liberi, senza paure, fidenti[222] nell'avvenire! Sapere che l'uomo a cui consacrasti il tuo cuore, l'uomo, che stringi fra le tue braccia, sarà per te un compagno inseparabile, l'amico della tua giovinezza, il sostegno de' tuoi vecchi giorni; e intanto, respirare l'alito della sua bocca, fremere con lui di una ebbrezza voluttuosa, e levando gli occhi al firmamento senza trepidanza e senza rossore, poter dire coll'intima convinzione dell'animo: Queste nostre gioie fanno sorridere gli angioli, e lo spettacolo dei nostri amori rallegra gli abitatori del cielo!
»Giungemmo a Milano a due ore di notte. Quando la vettura si fermò presso la nostra abitazione, il portinaio e sua moglie, con un seguito di vispi fanciulletti, mossero ad incontrarci. Viva gli sposi! battendo palma a palma, gridavano i fanciulli. La portinaia ci accompagnò al nostro appartamento. Entrammo in una sala decorata modestamente, ma con molto buon gusto; di là passammo nella camera da letto.
»—Avete voi quanto vi fa di bisogno? chiese la portinaia in atto di congedarsi.
»—Si, rispondemmo ad un tempo Alfredo ed io.
»La buona donna se ne andò; Alfredo chiuse la camera, e noi restammo soli.
»Allora mi inginocchiai dinnanzi ad un'imagine, e proruppi in lacrime dirotte. Erano lacrime di gioia.
»—Vieni, disse Alfredo (e mi condusse nel gabinetto vicino), vieni a salutare mia madre....
»Levando gli occhi, vidi dinanzi a me il ritratto di una donna di circa trentacinque anni; una fisonomia dolce, melanconica—uno sguardo pieno di tenerezza e di bontà.
»—Eccoti, Clotilde, la sola persona che io abbia finora amato in sulla terra. La poveretta è morta da quattro anni. Ora, dinanzi a questa imagine adorata, rinnoviamo i nostri giuramenti.
»Noi ci inginocchiammo insieme, e proferimmo il giuramento, tenendoci stretti per mano, e terminando la frase con un lungo bacio.
»—Vedi, disse Alfredo rialzandomi; non ti pare che sulle labbra di mia madre spuntasse un sorriso?
»E tornammo alla camera da letto.
»O Valentina: la vita che noi conduciamo da otto giorni potrebbesi paragonare ad un giardino incantato, dove, appena colta una rosa, un altra ne sbuccia più fresca ed olezzante. Ho paura d'essere troppo felice!....
»Non ho veduto ancora un teatro, nè ho visitato alcun monumento di questa bella città. Usciamo rare volte al passeggio, evitando le vie frequentate ed i corsi; Alfredo è occupato a scrivere sei ore al giorno; io gli sto d'accanto lavorando; di tratto in tratto interrompiamo le nostre occupazioni per iscambiarci quattro parole e quattro baci, poi ciascuno ritorna al suo posto. È la vita dei canarini!
»E sai cosa mi ripete Alfredo quasi ogni giorno!—Clotilde: nello stato coniugale, perchè si conservi l'amore, convien conservare innanzi tutto la poesia. La poesia è santa luce del cielo senza di cui ogni cosa scolorisce.
»Ho voluto ripeterti queste parole di Alfredo, perchè tu pure ne tragga profitto.
»Frattanto, abbi un po' di di indulgenza per questa mia lettera, forse troppo lunga e piena di dettagli troppo minuziosi. Ho sfogato il mio cuore, versando in quello di una tenera amica una felicità sovrabbondante.
»Attendo pel ritorno del corriere una tua lettera, che più sarà lunga, più mi riuscirà gradita. Caccia dall'animo i tristi pensieri, ed ama sempre
La tua amica Clotilde Leoni».
Milano, 10 novembre.
Ora mi si permetta una breve digressione.
La barchetta errava in balìa delle onde....
In qual anno? in qual mese? in qual'ora? Era di[224] notte, o di giorno?—Si accomodi il lettore come gli aggrada meglio.
La barchetta errava in balìa delle onde, e il pallido raggio della luna, o se più vi piace il limpido chiarore dell'alba, rischiarava la fronte di Luigia.
Chi era Luigia? Una giovinetta di quattro lustri.—Troppo acerba, dirà taluno.—Aggiunga altri sei anni.—Troppo matura, dirà un altro.—Ne levi cinque.—V'è modo di appagare tutti i gusti.
E mentre in estasi d'amore io mi stringeva al cuore la sua mano, ella introdusse dolcemente l'indice e il pollice nella taschetta del mio gilet (altri direbbe panciotto), e dopo averne frugate le più intime nicchie, ne trasse fuori una dozzina di monetuzze di vario conio; poi, liberandosi dal mio fervido amplesso, si diede a contarle sul palmo della mano.
—Dodici lire!
Erano proprio dodici lire.
—Gli è quanto basta per tornare a Milano.
—E noi torneremo a Milano?
—Si, mia Luigia; convien cedere alla necessità. Vedi; se una di queste monetuzze ci mancasse, noi saremmo nella imbarazzante posizione di dover o l'uno l'altra far tutto il cammino a piedi, ovvero restar qui in ostaggio fino a quando la fortuna non ci inviasse altro denaro: e tranne il caso poco probabile d'una vincita al lotto...
—Una vincita al lotto!.... Sono già due anni che il venerdì d'ogni settimana io palpito di questa dolce speranza. Un terno!... oh! un buon terno secco!...
—Cinquemila lire.... guadagnate senza fatica....
—Sai tu che la è una bella somma: cinque mila lire!... Se mai giungessi a possederle!...
—Via; sentiamo qual impiego ne faresti...
—Io amo tanto di fabbricare dei castelli in aria... In primo luogo, mi affretterei a prendere in affitto quattro stanzette al secondo od al terzo piano. La mia povera madre è sempre malata; mio padre fuma le otto ore al giorno, io stiro continuamente; è ben trista cosa lo starcene così appollaiati in una soffitta priva d'aria e di luce, corrotta dalle esalazioni[225] del tabacco e del carbone! Vorrei che il mio piccolo appartamento sorgesse nelle vicinanze dei bastioni; che dalle mie finestre si vedessero gli alberi, la campagna e largo spazio di cielo; sicchè alla mattina, aprendo le imposte, i primi raggi del sole venissero a corteggiarmi; poi, alla notte, attraverso le invetriate, la luna... mi servisse di lampada quando vado a coricarmi.
—La luna, il sole, le stelle si ponno godere a buon mercato, Luigia mia; eppure anche queste bellissime cose in città non sono tanto belle come qui all'aperta campagna. Se io fossi ricco, mi guarderei bene dal circoscrivere la mia esistenza entro il limite impuro di una capitale.
—Oh certo, se fossimo ricchi.... io... lo saprei ben io... come si fa per vivere felici.
—Supponiamo che il signor lotto ti favorisca un centinaio di mila lire; vediamo qual uso ne faresti.
—Cento mila lire! tu vedi bene, amico mio, che questi sono sogni; la piccola somma ch'io rischio ogni settimana non potrà mai rapportarmi tanto. Contiamo sul positivo....
—Di positivo in questo momento non havvi per noi che una dozzina di lire, e domani, giungendo alle porte di Milano saremo tutti e due senza un obolo. Poichè siamo in sul fantasticare, tanto è che disponiamo di larghi capitali. Metti dunque ch'io sia un tuo banchiere; per ora ti concedo centomila lire: quando altra somma ti abbisogni, ricorri alla cassa.
—Tu vedrai come io sia buona massaia. La nostra abitazione, per esempio, vorrei fosse posta al piede di quella collinetta là in fondo. Due piani di due camere ciascuno; abbasso la cucina ed una piccola sala; di sopra il tuo gabinetto da studio e la camera da letto. Dal lato destro una gradinata di marmo pulito, che scendesse fino al lago, e al fianco di quella gradinata una folta siepe di rose e gelsomini. A sinistra, un giardino, protetto da alte muraglie e da alberi frondosi; quindi una fertile ortaglia irrigata da un ruscello, che scendendo dalla collina, carezzasse[226] in passando le erbette ed i fiori, e noi rallegrasse col suo mormorio.
—Non dimenticare che l'anno si divide in due stagioni (altre volte in quattro), e convien pensare seriamente a procurarci qualche comodità anche nel rigido inverno. Questo paese è dominato dai venti.
—Da una parte ci protegge la collina, dall'altra faremo alzare un gran muraglione alto dieci metri più della casa..
—E per tal modo non godremo più la vista del lago e delle campagne...
—Non ci pensava. Dunque, abbasso il muraglione!... quando il vento soffierà gagliardo, chiuderemo le imposte delle finestre, e staremo nelle nostre stanze accanto al camino. Le nostre camere saranno mobigliate con molta semplicità; un letto, un piccolo divano, una dozzina di scranne, gli attrezzi per la cucina, e basta. Nel vestire eviteremo ogni superfluità di lusso; per me, quattro gonnelline di lana e due di seta pei giorni festivi; per te...
—Un cappotto e un pajo di brache di panno bigio l'inverno e la state; con questa sola differenza, che in estate il cappotto e le brache rimarranno tutto il giorno nella guardaroba...
—Quanto al vitto...
—Perdono, Luigia, ma è tempo di ricorrere alla cassa; le centomila lire sono già esaurite nelle prime spese d'impianto. Il proprietario del fondo, l'architetto, i muratori, il mercante di mobili, il tappezziere, il sarto e la modista si sono portati via ogni cosa; anzi, quando avrai ben calcolato, vedrai che ti rimane qualche debituzzo. Se tosto non ti procuri nuove somme, io temo che noi saremo ridotti a morire di fame nel nostro delizioso casino. Via! Eccoti altre centomila lire; usane moderatamente e con profitto.
—Che? Non ricaveremo noi alcun frutto dal denaro che abbiamo impiegato nella compera dell'ortaglia e nella costruzione della casa? Più volte ho inteso ripetere che centomila lire danno una rendita annua di cinquemila.
—Ciò potrebbe realizzarsi quando tu ti risolvessi ad[227] affittare camere mobigliate, od a portare ogni mattina al mercato l'insalata ed i ravanelli della nostra ortaglia. Ma siccome questo casino dev'essere abitato da noi, e tu non aspiri a cangiare la tua professione di modista in quella di erbivendola, converrà pure che tu accetti le centomila lire che io ti offersi, e le impieghi o in compere di terreni, o in qualche speculazione commerciale, perchè ci rendano tanto da provvedere agli altri nostri bisogni. Non farmi la ritrosa; prendi quanto ti occorre, e tiriamo avanti!
—Quand'è così... disporrò anche di queste cinque mila lire di rendita. Sai tu che cinque mila lire, quando si ha una casa ed una ortaglia del proprio, sono perfino di superfluo?—Ecco adunque come io intenderei di regolare i nostri pasti. Alla mattina (ci leveremo allo spuntar dell'alba), alla mattina, caffè, burro e qualche frutto dell'orto; a mezzo giorno un pranzo frugale di tre piatti e la zuppa: alla sera una cenetta di uova e legami secondo la stagione. Faremo la colazione e la cena, sempre a l'aria aperta, sotto l'ombra dei castani, al chiaro della luna, fra il gorgheggio degli uccelli e il mormorio delle onde...
—Il chiaro di luna, il canto degli uccelli, il mormorio dell'onda, torno a ripeterlo, son tutte cose che si hanno a buon mercato, quindi non devono entrare nei nostri calcoli. Frattanto, Luigia mia, sappi che io non ti permetterò mai di passare l'intera giornata presso i fornelli a invigilare le pentole e i tegami, nè vorrei che tu ti occupassi di spiumacciare i letti e scopare le camere. Io voglio che le tue mani conservino la freschezza della neve, la candidezza dell'alabastro, la voluttuosa morbidezza del velluto.
—Una cameriera è dunque indispensabile. Troveremo una contadinella che sia giovane, bella e di mite carattere; con cinque mila lire di rendita possiamo mantenerci noi ed anche una donna di servizio....
—E di soprappiù un cane, un gatto, e se vuoi, anche un papagallo.
—Eccoci adunque installati nel nostro piccolo Eden....
—Togli quella parola installati; mi suona male all'orecchio.
—Eccoci adunque ricoverati nel nostro delizioso romitaggio, in mezzo al silenzio ed alla pace dei campi; liberi, indipendenti, felici, come due tortorelle innamorate.
—Quale esistenza deliziosa!... Peccato che dugento mila lire di capitale non bastino ancora... Sai tu che accade alle tortorelle innamorate, quando hanno vissuto insieme parecchi giorni?
—Volano pei campi, salgono sui rami degli alberi, scherzano, folleggiano, cantano, si beccano, e poi...
—Poi, viene il giorno in cui una delle tortorelle depone le uova.
—Vedo a che mira il tuo discorso... Tu pensi dunque che noi avremo dei figli...
—Non solo ci penso, ma li desidero con tutto il cuore. I figli sono il vincolo sacro che annoda eternamente due anime innamorate. Talvolta, col lungo convivere insieme, due persone, marito e moglie, per esempio, inaridite le rose della giovinezza o intiepiditi gli istinti del piacere, si addormentano nella indifferenza e nella noia; quindi a poco a poco si scostano, si fuggono, si disgiungono, e l'amore più fervido ed appassionato degenera in reciproca antipatia, sovente anche in odio. Un figlio soltanto può impedire questo doloroso divorzio dei due cuori. Sì, o Luigia; se tu vuoi che il nostro amore duri tutta la vita, implora dal cielo il favore di divenir madre. Forse un giorno, vicini a separarci per sempre, il nostro figliuolo si lancierà in mezzo a noi lacrimoso; ricongiungerà la tua mano alla mia, e mi trasmetterà, come pegno di pace e di conciliazione, il bacio che tu avrai deposto sulle sue labbra innocenti.
—Oh si!... voglio avere un figliuolo!
—Uno?... e se ne avessimo dodici, Luigia mia?
—Dodici figli! Misericordia!... Ciò non è possibile...—È tanto possibile l'averne dodici come l'averne uno. Prendiamo la cifra media; supponiamo che essi non oltrepassino la mezza dozzina. Ad ogni modo, il nostro casino non sarebbe abbastanza capace....
—No, certo. Io non vorrei che i miei figliuoli stessero ammucchiati l'uno sull'altro, come i passerotti nel loro nido.... Ciascuno dovrebbe avere la propria cameretta o il proprio letticciuolo.
—Io veggo che ci converrà fabbricare di bel nuovo... e la sarà una fabbrica un po' dispendiosa. Dimmi: ti bastano altre duecento mila lire?
—Via! si faccian le cose senza risparmio; queste nostre creature non devono soffrire alcun disagio; non basta metterli al mondo, i figliuoli, bisogna anche pensare a renderli felici.
—La loro educazione mi preoccupa seriamente. L'educazione è la prima base d'ogni felicità umana.
—E come si fa in questo romitaggio ad avere dei buoni maestri? Io vorrei che le ragazze fossero istruite di buon'ora in ogni donnesco lavoro, che apprendessero l'italiano, il francese, la musica, il ballo, il disegno; e tutto ciò sotto la sorveglianza della madre. Ai maestri confiderei l'incarico della loro coltura intellettuale, ma il cuore di quelle mie creature vorrei educarlo io.
—E i figli maschi?... onde crescano sani, robusti, degni della stima universale, decoro ed ornamento della famiglia, e quanto si possa desiderare virtuosi e felici, molte cose devono apprendere. Cominciamo dagli esercizi ginnastici: il ballo, la scherma, l'equitazione, sono arti che esigono un istitutore speciale per ciascheduna, e, ben calcolati i vari rami dello scibile umano in che i nostri figliuoli dovrebbero essere versati, la loro educazione verrebbe a costare circa ventimila lire all'anno.
—Questi tuoi calcoli mi spaventano. Basta per oggi; abbandoniamo le regioni immaginarie; rinunziamo al nostro bel casino, ai piaceri della vita campestre... e torniamo alla realtà. Io credo che la vera beatitudine sia riposta nell'amore. Per amarsi non è necessario di possedere un casino in riva al lago, nè una rendita di cinque mila lire. La vera felicità, anzichè un riverbero degli oggetti che ne circondano, è una emanazione di noi stessi, che ha la sua sorgente nell'intimo dei nostri cuori. Amiamoci; e[230] una povera soffitta nuda d'ogni ornamento, esposta alle intemperie delle stagioni, fredda, oscura, tappezzata di ragnateli, sarà per noi un paradiso di delizie!
Luigia mi gettò al collo le braccia, poi, dopo breve silenzio.... Amico, mi disse... quand'è che ci sposeremo?....
—Quando sarò padrone di quattrocentonovantanove mila novecento ottantotto lire, che aggiunte alla somma che oggi possediamo, faranno appunto un capitale di L. 500.000.—Concedo che due amanti possano vivere beati anche in una soffitta; ma un marito ed una moglie...
—Alfredo Leoni non ha forse detto a sua moglie che la sola poesia, nello stato coniugale, mantiene sempre vivo l'amore?
—È vero; ma per mantenere questa poesia, ci vogliono per lo meno ventimila lire di rendita all'anno. Vuoi tu sapere come sia finita la istoria di Alfredo e di Clotilde? Io ti servo sul momento; leggiamo quest'altra lettera:
Clotilde Leoni a Valentina Montorio.
«La mia salute non è gran fatto migliorata. Il medico cerca rassicurarmi con buone parole; ma il suono della sua voce, l'espressione del suo volto, ed il regime che ieri mi ha prescritto, tutto mi fa credere che pochi giorni mi rimangono di vita.
»Non accorarti, mia buona Valentina; io ho già provato quanto vi ha di bene e di male in sulla terra; ho vissuto abbastanza.
»Rammenti la prima lettera che ti scrissi dopo il mio matrimonio con Alfredo?—Allora io ti diceva: «La vita che noi conduciamo potrebbesi paragonare ad un giardino incantato, ove, appena colta una rosa, tosto un'altra ne sbuccia più fresca ed olezzante. Ho paura di esser troppo felice.»—Qual vi è mai creatura umana, che cercando nelle memorie del passato,[231] vi trovi otto giorni di felicità completa e non interrotta? Credilo, Valentina; il sovvenire di quegli otto giorni ha sparso un profumo di felicità sul resto della mia esistenza, e le sciagure che in appresso intorbidarono il sereno della mia anima furono mai sempre consolate da un raggio di felicità: la certezza che Alfredo mi ha amata e mi ama tuttavia.
»Eppure (io n'ho il triste presentimento) quando sarò partita dalla terra, i maligni non lascieranno di scagliare sul mio povero amico i più orrendi anatemi. Taluni spingeranno la calunnia fino ad incolparlo della mia morte precoce.—Povero Alfredo! Sull'orlo della tomba io leverò la mia debole voce in sua difesa; perocchè il suo cuore è onesto e sensibile, e tutti i mali che ci colpirono, furono conseguenza necessaria dell'avermi egli troppo amata—d'un amore, che la corrotta società in mezzo a cui viviamo dovea necessariamente combattere.
»Da quanto ho potuto rilevare dall'ultima tua lettera, la storia de' miei dolori ti è in parte nota. Nulladimeno, perchè non sia indotta in qualche erroneo giudizio sul carattere di Alfredo e sui nostri reciproci rapporti, staccherò una pagina dal libro del mio cuore e te la porrò dinanzi, quasi ultimo ricordo di una amica, che fra poco sarà per sempre divisa da te.
»Alfredo non ha altro torto in faccia alla società se non d'aver sortita dalla natura un'anima eminentemente poetica. La poesia, nel secolo in cui viviamo, è lo stigmate precursore del martirio. Quando ci unimmo in matrimonio, noi non consultammo che il cuore, beati nell'ebrezza di un amore corrisposto, fidammo nelle nostre forze, nella nostra fede, nella santità delle nostre aspirazioni. Elevandoci col pensiero al di sopra delle nubi, abbiamo dimenticato che i nostri piedi erano incatenati alla terra.
»Vivemmo otto giorni felici, nella solitudine del nostro piccolo appartamento. Fin quando l'occhio dei profani non giunse a penetrare nel santuario dei nostri amori, credemmo si potesse per noi realizzare sulla terra la felicità del paradiso.
»Un giorno, Alfredo uscì solo al passeggio. Al suo ritorno lui parve che una leggiera nube gli oscurasse la fronte.—Clotilde, egli mi disse, questo metodo di vita non si può continuare senza esporci al ridicolo del mondo. I maligni interpretano sinistramente il nostro volontario isolamento: dicono che io sono un pazzo geloso, un despota, un tiranno. Vivendo nel mondo, convien concedere qualche cosa ai suoi capricci ed alle sue esigenze. Ho affittato un palco al teatro Re pella stagione corrente, associandomi ad un mio giovane amico, il quale da pochi giorni si è ammogliato. Oggi ha luogo la prima recita; tu mi vi accompagnerai, e d'ora innanzi assisteremo ogni sera allo spettacolo.—Come ti piace, mio buon amico.—E poco dopo, uscimmo per andare al teatro.
»Il dramma era buono, gli attori eccellenti, il nostro palco onorato di parecchi visitatori; la serata fu abbastanza piacevole. Pure... nella mia cameretta, fra i miei ricami, sola con Alfredo, conversando con lui senza testimonii, libera d'ogni atto, d'ogni parola... io mi sarei trovata assai meglio.
»All'indomani, Alfredo era pensieroso e preoccupato.—Clotilde, mi disse, la toilette della signora M..., che era con noi nello stesso palco, brillava più splendida ed elegante della tua. Io non posso permettere che tu rimanga eclissata dalla tua compagna: tu devi brillare come le altre donne.—Io volli opporre qualche osservazione economica, ma Alfredo con un bacio mi chiuse le parole sul labbro. Da quel giorno io dovetti rivaleggiare in lusso colle dame più eleganti di Milano.
»Venne il carnevale; cominciarono i balli, le feste, i giocondi ritrovi. Io ripeteva ad Alfredo: «Il tempo che noi sacrifichiamo al mondo, è sottratto alle gioie più intense del nostro amore; torniamo alla nostra solitudine: i piaceri, che la società ci ha offerti, son forse paragonabili a quelli che l'amore creava per noi ne' primi giorni del nostro matrimonio? Poi... ricordati, Alfredo, che non siamo ricchi... e procedendo di tal passo saremo condotti a brutti guai.
»I miei pronostici si avverarono, ahi! troppo presto....
»Quando il primo frutto delle nostre nozze, la mia dolce Carolina, venne alla luce, Alfredo ed io versavamo nelle più allarmanti strettezze. Povera innocente creatura! unica figlia dell'amor mio! nello stringerti per la prima volta al seno, alla mia mente si affacciò nel suo più orribile aspetto il pensiero della nostra miseria imminente. Il primo battesimo che tu ricevesti furono le lacrime dei tuoi genitori desolati.
»D'allora in poi fu per me e per Alfredo una serie non interrotta di sciagure.
»La miseria!—Un giovine scapolo può ben sopportarla con rassegnazione, e riderne talvolta in compagnia di sollazzevoli amici, ma un marito.... ed un padre! Appena questa lurida nemica penetra nel vostro tetto, colla sua gelida mano ella sfronda ad una ad una le rose della vostra corona nuziale. Svegliandovi ad un tratto dal sogno ridente delle vostre illusioni, voi vi trovate in un abisso di calamità.
»Era il primo anniversario del nostro matrimonio, quando io, Alfredo e la piccola Carolina, abbandonando il nostro elegante appartamento in contrada dei Bigli, ci ritirammo in una oscura stanzuccia al quarto piano nei sobborghi di Porta Vercellina. Oh qual'orribile esistenza da quel giorno in appresso! Alfredo, per non angosciarsi alla vista della nostra miseria, si assentava parecchie ore del giorno, e spesse volte usciva al mattino per non tornare che alla sera a dividere colla sua piccola famiglia una cena frugale. Dal nostro desco era sbandito il sorriso della gioia; dolci colloqui d'amore non rallegravano più le lunghe serate; l'orrore della nostra situazione presente, le incertezze dell'avvenire spandevano intorno al nostro talamo una nuvola tenebrosa, che soffocava ogni piacere.
»Alfredo cercava distrarsi in mezzo alle gioconde brigate de' suoi amici; le ore ch'egli passava al mio fianco erano per lui le più tristi, le più noiose. Gli mossi qualche rimprovero; mi sorsero nell'animo tremendi[234] dubbi sulla sua fedeltà; non potendo spiare i suoi passi, nè osando manifestargli apertamente i miei sospetti per tema di accrescergli noia, io divorava in segreto i miei patimenti. Oh quanti giorni passati nel pianto!
»Quante volte rientrando a tarda ora di notte nel suo tetto coniugale, egli mi trovò sola, intirizzita dal freddo, ad attenderlo sulla soglia dell'oscura cameretta, colla mia figliuola fra le braccia, solo testimonio delle mie lacrime disperate!
»Io caddi malata. Da sei mesi non posso abbandonare il letto. Alfredo passa i giorni e le notti al mio fianco, ed egli pure ha molto sofferto nella salute L'occhio ardente del giovane poeta si è spento nelle lagrime; il riflesso della miseria ha scolorita la sua nobile fronte; si direbbe ch'egli vegeta accanto al mio letto, come un pallido fiore presso una croce del Campo Santo.
»Frattanto, che si dice nella società? Questa perfida cortigiana, al cui capriccio noi abbiamo immolata la nostra felicità, ora per cento bocche versa il vitupero sul nostro capo.—Alfredo è un dappoco, un mentecatto, che secondando i capricci della propria moglie, ha attirato su lei l'infortunio.—Coloro che per pietà gli risparmiano il titolo di mentecatto, lo trattano da libertino, da uomo debole o nullo; nè mancherà, come io più sopra ti ho detto, chi fra pochi giorni andrà ripetendo sommessamente: egli ha ucciso la propria moglie.
»Iniqua, mostruosa calunnia! Sai tu, Valentina, qual fu la vera, la sola cagione dei nostri mali?—Abbiamo creduto che nello stato coniugale bastasse, per essere felici, il colorire la nostra esistenza di una luce di poesia. Ma questa poesia, allorquando non si hanno sufficienti ricchezze per alimentarla, a poco a poco svanisce, e ci abbandona nella tristezza. Forse, in mezzo ai campi, in qualche romitaggio lontano dalla società, la poesia potrebbe supplire alle ricchezze, e l'amore ritrarre da lei un perenne alimento. Ma Alfredo non poteva vivere in un oscuro villaggio. Volendo mettere a frutto il proprio[235] ingegno, onde provvedere ai bisogni della vita, gli fu forza di rintanarsi in queste bolgie cittadine. Egli venne... venne colla fede viva dell'avvenire..... sulle ali delle sue poetiche speranze. Ma il poeta è simile ad una farfalla, che dai fiori soltanto può attingere alimento. Guai se questa farfalla, sdegnando le libere aure dei campi e i fulgidi raggi del sole, si lascia sedurre dalla luce artifiziale delle lampade e delle faci! La povera illusa vi perde le ali screziate di mille colori, e perisce miseramente.
»Se la condotta di Alfredo non fu sempre irriprovevole, io sua moglie, sua amante ed amica, sento obbligo di assolverlo da ogni colpa. Egli mi ha amato, e le sventure a cui entrambi soggiacemmo non furono che la conseguenza necessaria di tanto amore.
»Quando io lo vidi per la prima volta, quando le nostre anime sorelle si ricambiarono il primo saluto, rammento che inginocchiata nella mia cameretta ho innalzato al cielo questo fervido voto: «Un bacio solo d'Alfredo e poi che il resto de' miei giorni si consumi pure nel pianto!» Quel voto fu esaudito. Io porto meco nella tomba il suo amore.—L'amore, o Valentina, è una ghirlanda di rose che abbellisce anche i sepolcri.
»Le mie ultime parole saranno parole di benedizione per lui. Chiuderò gli occhi nella certezza, che dopo di me, egli non amerà altra donna. Egli verrà a trovarmi nel Campo santo in compagnia della mia piccola Carolina; verrà parlarmi quel linguaggio divino, che i poeti soltanto sanno rivolgere alle donne...
»E quando alcuno al tuo cospetto oserà calunniare colui ch'io scelsi a mio sposo, digli pure che Alfredo fu il migliore dei mariti e che un solo bacio, un solo amplesso di un uomo come Alfredo, è bastato a riempiere il cuore di una donna di tanta felicità, da sopravanzargliene anche nei giorni più amari della vita, e perfino nel sepolcro.
Addio per sempre, e vivi felice!
La tua affez. Clotilde.»
Milano, 16 settembre 1860.
Lettera di Cristoforo Montorio a suo cugino Emanuele Montorio, medico di Saronno.
«Carissimo cugino,
»Domani ti attendo senza verun fallo. La tua visita mi è doppiamente necessaria, prima di tutto perchè sono ammalato d'un reuma alla schiena e di un forte raffreddore di testa; poi, perchè questa diavolessa di mia moglie ha bisogno di una tua severa predica, che la riduca al dovere. Altre volte ti ho parlato delle sue stravaganze, de' suoi capricci, delle sue esigenze. L'altra sera ella m'avea preceduto al talamo maritale, ed io poco dopo stava per coricarmi al di lei fianco, allorchè, rizzandosi come una furia e gridando con quanto fiato avea nella gola, mi respinse dal letto. Già da qualche tempo ella muove una guerra accanita al berretto di cotone ed alla flanella di lana che di notte soglio portare indosso fino dalla più tenera età. L'altra sera, essendomi dunque presentato a lei in quell'arnese, mi assalì con tanto impeto e tanta furia, ch'io ne rimasi spaventato;—Oramai non c'è più via di scampo, diss'ella per ultima conclusione; o tu rinunzii alla flanella ed al berretto di cotone, o non accostarti più a tua moglie.—Ma io sono abituato sino da ragazzo a coricarmi colla flanella!—Ora non sei più un ragazzo, rispose più inferocita la megera; scegli: o tua moglie o la flanella.—Anche questa volta ho dovuto cedere; e all'indomani, essendomi svegliato con un reuma alla schiena ed un forte raffreddore di cervello, fui confinato nel mio letto, d'onde non spero di rialzarmi tanto presto! Per pietà, attacca immediatamente la tua rozza al biroccino, e fa d'esser qui domattina. Debbo comunicarti altri segreti coniugali, che da qualche tempo mi tengono in apprensione.
»PS. Figurati che mentre io sono qui inchiodato nel letto con due cataplasmi sulla schiena e una[237] benda sugli occhi, nel salotto inferiore si balla furiosamente! Mia moglie aveva invitati già da tre giorni ad una piccola festa di famiglia non so quanti parenti ed amici, ed oggi, benchè io sia gravemente malato, ella vuol ballare ad ogni costo. L'orchestra si compone di due violini, un trombone e due corni, con che ho l'onore di dichiararmi
Tuo affezionatissimo cugino
Cristoforo Montorio.»
Seregno 18 settembre 1860.»
Alfredo Leoni a Valentina Montorio.
«Vi annunzio con sommo rammarico la dolorosa perdita, che oggi abbiamo fatta della nostra povera Clotilde. Sono troppo oppresso dal dolore per aggiungere altre parole. Questo angelo di bellezza e di bontà si è diviso per sempre da noi. Io non seppi renderla felice; pure io l'ho sempre desiderato ardentemente, e per lei avrei sacrificata la mia vita. Lasciommi un'unica figliuola, un fiore gentile che noi generammo nei primi trasporti del nostro amore, e che, per esser cresciuta fra le lagrime, non è però men bella nè men cara al mio cuore. Qualche giorno, se mi permetterete di farvi una visita, io voglio che voi pure la vediate.... la mia Carolina. Ella somiglia a sua madre nel volto; spero educarla in modo che divenga simile a lei anche per le qualità del cuore. Vivrà oscura ed ignorata fin quando ella non sia in età da prendere marito; poi l'unirò a qualche onesto artigiano od a qualche campagnuolo laborioso e dabbene. Una trista esperienza mi ha convinto che il matrimonio è fatto o per gli uomini che posseggono grandi ricchezze, o pei semplici operai e coltivatori dei campi. Chi alla propria sposa altra ricchezza[238] non può offrire se non un cuore pieno di poesia e di amore, diviene necessariamente il peggiore dei mariti.
Vostro devot. amico
Alfredo Leoni.»
Milano, 30 ottobre 1860.»
L'autore a Luigia B....
«Mi congratulo teco di vero cuore pel tuo prossimo matrimonio. Tu non hai voluto aspettare che io venissi al possesso di cinquecento mila lire, e non so darti torto; giacchè dopo quella conversazione poco sentimentale a bordo della nostra favorita barchetta i miei capitali son rimasti stazionari. Dieci lire più dieci lire meno, come tu vedi, si guazza sempre nelle medesime acque.
»Mi dici che il tuo fidanzato, fra l'altre belle qualità che lo distinguono, è anche un po' sordo, un poco miope, e mediocremente imbecille. Di nuovo mi congratulo, figliuola mia; quel tuo uomo ha tutte le disposizioni per formare un eccellente marito. Pochi giorni sono ho visitato in Seregno il signor Cristoforo Montorio, che, prima di ammogliarsi, avea presso a poco le stesse qualità. Sua moglie da circa venti anni si è adoperata a perfezionarlo; tanto che a quest'ora egli è cieco, sordo, e completamente imbecille. E sai tu quanti figli ebbe il signor Cristoforo? Sedici; tutti belli, tutti sani e robusti. Gli uomini di tal fatta sono creati per ristorare le perdite della società; e siccome sta scritto che il numero degli imbecilli vada di generazione in generazione ingrossando, così madre natura ha in grado eminente dotati costoro della facoltà procreatrice. Fanne tuo pro, Luigia mia, e vivi lieta.
Il tuo sempre fedele amico!
Milano, 31 luglio 1866.
A. Ghislanzoni.»
Enrico Lanfranchi dormiva già da sei mesi nel cataletto, quando, una bella sera d'estate si riscosse, all'improvviso, rimosse il coperchio della cassa, si levò in piedi, e gittato dalle spalle il logoro lenzuolo onde era involto, uscì passo passo dal Campo santo.
Era proprio una bella sera d'estate. Una pioggia abbondante aveva rinfrescato l'atmosfera; i passerotti correvano pipilando dal giardino alle tettoie, e dagli alberi scossi leggermente da un fresco venticello cadevano i goccioloni come un nembo di perle. Chi non è pago di questo schizzo, vi aggiunga una fetta di luna, una dozzina di stelle, tre o quattro rossignoli che gemano d'amore, un ruscelletto che mormori fra l'erbe—ed avrà il quadro compiuto.
Cionullameno, per un reddivivo, quella non era una serata troppo propizia. Grazie alla cortesia degli eredi (che sogliono seppellirci pressochè ignudi sia la state come il verno), il povero Lanfranchi, attraversando le vie del nativo villaggio senz'altro indumento che quello del proprio epidermide, dibatteva le gengive, come un ragazzetto di cinque anni che s'avvia alla scuola sotto la fiocca del mese di gennaio.
Gli antichi (confessiamolo a nostra vergogna) trattavano i loro morti più generosamente di noi. Nella cassa del morto essi collocavano eccellenti pasticci freddi, bottiglie di vecchio falerno, pietre preziose e[240] monete di vario conio, onde se mai quei tapinelli si fossero desti alla vita, avrebbero trovato di che confortarsi lo stomaco, e provvedersi una tunica per far buona comparsa nel mondo. Dal modo che noi usiamo trattare coi nostri morti si direbbe che abbiamo una paura terribile di vederli un giorno o l'altro ricomparirci dinanzi. Diffatti, appena uno de' nostri congiunti ha esalato l'ultimo soffio, noi ci diamo premura di involgerlo in un lenzuolo, di legargli i piedi e le mani: quindi, dopo poche ore, di inchiodarlo ben bene in una solida cassa, e gittarlo in una fossa profonda, dalla quale, s'egli avesse la vitalità, la forza e l'energia d'un Ercole, non potrebbe evadere per verun modo. Per buona sorte, le leggi hanno prescritto l'indugio delle ventiquattr'ore; senza di che, io credo sarebbe maggiore il numero de' sepolti vivi che non quello dei morti.
—Quand'uno è morto non è possibile ch'ei torni al mondo, dirà taluno crollando il capo.
Dite piuttosto quand'uno è sepolto: ed anche su tale proposito potrei farvi qualche eccezione... Ma, via! non perdiamoci in digressioni, e narriamo la nostra istoriella.
Chi era Eugenio Lanfranchi? Un uomo di trentacinque anni, bello della persona, onesto, cortese, vero modello d'ogni virtù. Morendo, egli aveva lasciato sulla terra una sposa ancor giovane ed avvenente, un fratello ed una sorella che molto lo avevano amato e che già da sei mesi si struggevano in lacrime e vestivano a lutto.
—Qual dolce sorpresa pe' miei cari parenti, qual gioia nel rivedermi! Mia moglie! Mio fratello, mia sorella... essi che mi amano tanto... essi che al letto di morte mi prodigavano tante cure, e piangevano inconsolabili nel darmi l'ultimo addio! Sarà una festa di famiglia... Mi correranno incontro, mi opprimeranno di baci e di carezze... Ah! non vorrei che la consolazione soverchia fosse causa di qualche malanno![241] Bisognerà ch'io mi presenti colle cautele dovute... Mia moglie sopratutto...! La mia tenera Carlotta... Da dieci giorni ella ha cessato di visitare la mia tomba... Forse il soverchio dolore ha consunto le sue forze... e, sola, estenuata dalla malattia, implora dal cielo il favore di scendere con me nella tomba, per starmi a lato eternamente... Ma io giungo in tempo... Solleva, il capo illanguidito o troppo sensibile creatura; ravvisa il tuo sposo... il tuo amante... l'oggetto de' tuoi desideri...
Con tali pensieri, il nostro reddivivo s'è avvicinato alla porticella del giardino, di quel giardino, ove, nelle ore melanconiche del tramonto, egli veniva a sedere ogni giorno presso la sposa adorata, inebriandosi delle sue carezze e de' suoi baci.
Una voce soave e melanconica ferisce il suo orecchio. Quella voce ha proferito il nome di Enrico.
—Il mio nome! Ella pensa dunque al suo sposo! Ella confida al salice piangente ed al ruscello i dolorosi segreti dell'anima... Ella invoca la mia ombra, e cerca un sollievo ai mali presenti nelle dolci memorie del passato! Enrico incurva la persona, mette l'occhio al buco della serratura, e vede infatti sua moglie seduta sur un banco di pietra, presso un salice piangente.
Ma non è già al salice piangente ed al ruscello che Carlotta confida i propri dolori. Un raggio di luna che in quel momento rischiara la scena, mostra al curvato esploratore un pajo di pantaloni di tela russa, entro cui si agitano due nerborute gambe da acrobatico, e più in alto un gilet di seta disteso sovra un torace atletico, quindi una ciarpa di raso azzurro, e una barba di becco che serve di appendice ad una bellissima testa di venticinque anni.
—Enrico! torna a ripetere la donna con voce più fioca.
—Lunge una volta queste lugubri memorie! A che giova il piangere eternamente i trappassati? Dimenticate, e pensate all'avvenire di felicità che ci attende.
—Ah! già troppo io l'ho dimenticato quel povero[242] Enrico! E dire che non per anco sei mesi son trascorsi... Ed io aveva giurato di conservargli il mio amore... la mia fede!..
—Siate ragionevole, via! Carlotta... Se vostro marito tornasse al mondo, egli non potrebbe rimproverarvi d'aver ceduto alle attrattive di un amore fondato sulla onestà e mosso da rette intenzioni. Voi siete giovane, voi avete un'anima sensibile, appassionata... Perchè seppellire in eterna vedovanza tanti tesori di bellezza e di virtù? Trovaste un uomo che seppe apprezzarvi ed amarvi... un uomo che giura di rendervi felice. Egli sarà il padre dei vostri figli... egli ravviverà la vostra esistenza, vi darà il coraggio e la forza per adempiere ai santi doveri di donna e di madre...
—Voi mi parlate un linguaggio sì vero, sì insinuante... Lasciatemi! basta... Ogni vostra parola è nuova esca all'incendio che mi arde nel cuore. Lasciatemi... ve lo ripeto.
—Non vi lascio, se prima non mi promettete...
—Quale promessa?... mio Dio! Ma non vedete?.... io sono più morta che viva... Voi abusate della mia debolezza... Sì... sarò vostra... malgrado i giuramenti fatti. Sarò vostra malgrado i rimorsi che mi straziano l'anima, malgrado la certezza che questa nostra unione debba essermi sorgente di gravi sciagure...
—Carlotta!
—Giacomo!...
—Questa tua promessa mi dischiude il paradiso... Dimmi ancora che mi ami...
—Ma non te l'ho ripetuto mille volte, che dal giorno che ti vidi, conobbi che prima d'allora io non aveva mai amato...?
—Ho inteso quanto basta—mormora Enrico allontanandosi dalla porticella. Da uomo prudente è meglio ch'io mi ritiri... Se indugiassi ancora un minuto, potrei udire o vedere qualche cosa di peggio.
E il poveretto se ne va a capo chino, riflettendo alla propria posizione, e studiando a qual miglior partito gli convenga appigliarsi.
Passato il muricciuolo del giardino e giunto al lato destro della propria abitazione, gli par d'intendere una voce sconosciuta. Che fare? Se alcuno lo vede in quello stato di nudità, può nascere uno scandalo, ed egli corre pericolo d'essere accolto a bastonate. Fatti bene i suoi calcoli, e meditati i consigli della prudenza, s'appiatta sotto ad un mucchio di fieno, e si pone in agguato, finchè cessi il pericolo.
A un tratto, ecco spalancarsi le imposte d'una finestra, ed affacciarvisi una donna, che fa cenno della mano ad un giovinotto.
—Pst! Pst!
—Mariuccia!
—Lodovico!
—Buone nuove!
—Tuo padre?
—Ha dato il suo assenso.
—Dunque?
—Fra quindici giorni saremo uniti.
—Lodovico, tu mi fai morire dalla consolazione.
La giovinetta che sta per morire di consolazione è la sorella di Enrico. Ella amava da due anni il signor Lodovico Remoli, e n'aveva ricambio di tenero affetto; ma il padre del giovane, desiderando che suo figlio aspirasse ad un partito vantaggioso, e sapendo che la dote di Mariuccia non ammontava che a venti mila lire, si era costantemente opposto a quelle nozze. La morte di Enrico Lanfranchi tornò propizia ai due innamorati. Mariuccia vide aumentare la propria dote d'altre venti mila lire; e il padre di Lodovico, dopo aver verificata e ponderata la quantità e qualità dei solidi, diede alfine l'assenso desiderato.
Il colloquio di quei due giovani amanti fu in quella sera più lungo e più animato del solito. Era tolto ogni ostacolo alla loro felicità; l'avvenire sorrideva ad essi splendido, bello e senza alcuna nube.
Enrico Lanfranchi porgeva orecchio a quel dialogo, e di tratto in tratto si asciugava una lagrima.
—Povero Enrico! esclamava Mariuccia; ho sofferto tanto quand'egli è morto... ed ora... Lungi questo pensiero abbominevole!.... Benediciamo alla memoria di quel poveretto... Egli contempla dal cielo la mia felicità, e ne gioisce... Mi amava tanto... Pure quando io penso... che s'egli vivesse ancora... il nostro matrimonio non potrebbe aver luogo... Ah! come l'amore ci rende egoisti! Enrico... fratello mio... perdonami questo orribile pensiero.
—Io ti perdono, onesta fanciulla, disse Enrico soffocando le lagrime a stento; e per verun conto non vorrei turbare la tua gioia innocente. Sposati all'uomo che adori e vivi felice; la mia morte ti ha recato qualche vantaggio; se io fossi vissuto più a lungo, ora entrambi saremmo forse infelici.
Tutto commosso di tenerezza e di affetto, Enrico stava sul punto di uscire dal nascondiglio e presentarsi ai due fidanzati; ma temendo che la sua improvvisa apparizione non disturbasse la gioia di quel dolce colloquio, si trattenne; e prorompendo in lacrime dirotte, si lasciò sfuggire per la prima volta dal labbro queste parole:
—Quale stolido capriccio fu il mio di abbandonare il cimitero, ove dormiva sì tranquilli i miei sonni, per venir qui.... a disturbare il sonno e la felicità dei viventi?
Verso mezzanotte, i due fidanzati si separarono ricambiandosi mille teneri baci; Mariuccia chiude le imposte, e Lodovico si allontana zuffolando lietamente come un passero testè sfuggito alla gabbia.
—Non monta, dice Enrico sbucando dal nascondiglio: farò una visita a mio fratello, ed a norma del suo contegno, prenderò la risoluzione che più mi parrà conveniente.
Fatta una breve conversione a sinistra, il dabben uomo tocca il limitare della propria casa. Batte tre colpi; il cane gli risponde dagli atrii con urli di allegrezza; poco dopo la porta si spalanca, e il vecchio[245] portinaio in mutande e berretto da notte comparisce sulla soglia.
—Misericordia! un uomo nudo... a quest'ora...!
—Sì, Bernardo; il tuo padrone...che viene dal Campo santo... ed ha bisogno di ristorarsi con una buona cena ed un buon letto.
Il vecchio domestico lascia cadere la lanterna, e, fatto tre volte il segno della croce, balbetta con voce tremante una dozzina di deprofundis. Frattanto il fido barbone dimena la coda, spicca salti di allegrezza, e lambisce amorosamente le polpe dell'antico padrone.
—Non temere, Bernardo; io non venni qui per farti alcun male, tu mi fosti sempre il più fedele e il più amorevole dei servitori, nè potrò mai scordare le tue cure e la tua assistenza durante la lunga malattia che mi condusse al sepolcro. Io so ancora che non dimenticasti di recitare ogni sera qualche prece pel mio eterno riposo, e te ne sono riconoscente. A Dio è piaciuto ch'io tornassi al mondo, nè saprei dirti come ciò avvenisse. Sentendo in me rinascere la vita ed il vigore, e trovata la cassa aperta, volai senza indugio all'amplesso dei miei più cari. Via! un abbraccio, mio buono, mio fedele e diletto Bernardo!
Il portinaio non può riaversi dalla sorpresa e dal terrore.
—Dunque... siete proprio voi... il mio antico padrone... il signor Enrico... che or fanno sei mesi... abbiamo seppellito con tanti onori?....
—Io son quel desso in anima e in corpo...
—E siete vivo... propriamente vivo.... quale eravate prima di.... morire?
—Se più indugi a darmi una veste e a prepararmi da cena, tu mi farai morire un'altra volta. Presto! vanne alla guardaroba, e cavami fuori qualcuno dei miei abiti, sicchè io mi riscaldi la pelle.
—I vostri abiti... signor padrone...
—Ebbene?
—I vostri abiti furono in parte venduti, in parte donati. Supponendo che voi foste morto davvero, io mi sono appropriato il vostro tabarro, e n'ho fatto dei pantaloni pe' miei piccoli bimbi. La vostra veste[246] da camera fa convertita in due sottane per mia moglie, e quel bellissimo paletot che voi indossavate ai giorni di festa, l'ho fatto raccorciare alle falde ed ai manicotti, e v'assicuro che mi si attaglia mirabilmente.
—Tanto meglio. Vedi se nel forziere si trovasse una coperta di lana, tanto ch'io non m'agghiacci stanotte. Domani ricorreremo al sartore, e provvederemo nuovi abiti. Frattanto dammi notizie di mio fratello. Come se la passa quel caro Aurelio? L'udisti mai lamentare la mia perdita immatura? Pensi tu ch'egli sarà lieto nel rivedermi?
—Vi amava tanto! non passa giorno che egli non versi qualche lagrimuzza proferendo il vostro nome; l'altro ieri lo vidi in istretto colloquio con un valente scultore, al quale diede incarico di farvi un monumento che verrà a costare più di mille lire.
—Giungo in tempo per risparmiargli una tal spesa.
—Oh! il nostro padrone non è uomo che badi a spese!
—Cuore generoso! Io lo conosco troppo per dubitare di lui.
—Dopo la vostra morte si può dire ch'egli abbia ricostrutta la casa. Vedrete che lusso di pitture, di decorazioni, di mobili! Vostro padre, morto due mesi dopo di voi....
—So tutto. Il buon uomo è venuto a trovarmi laggiù nell'altro mondo, e mi ha mostrato il suo testamento che io trovai ragionevole e degno d'approvazione. Aurelio ereditò circa ottantamila lire, Mariuccia quarantamila, ed a mia moglie fu fissata un'annua pensione di ottocento lire.
—Vedo che siete informato di tutto. Ottantamila lire! Sapete voi che la è una fortuna colossale! Il signor Aurelio è al giorno d'oggi il primo estimato del paese. Quanto alla padroncina, vi dirò che, mercè l'aumento della dote, ella sposerà fra pochi giorni il signor Lodovico Remoli, figlio dello spedizioniere.
—Povera figliuola! sono contento di saperla felice!
—Il signor padrone... (scusate s'io parlo sempre di lui) il signor padrone Aurelio sta anch'egli per[247] ammogliarsi, e la sua fidanzata gli recherà in dote, per quanto ne fu detto, cento e più mille lire in denaro sonante. È un partito eccellente che, come vedete, raddoppierà la sua fortuna. Ma... ora che ci penso... converrà bene che il signor padrone Aurelio... e la padroncina... vi ritornino la porzione dei beni che vi spetta di diritto, giacchè in fin dei conti... se siete propriamente vivo... come io non oserei più dubitare all'appetito che dimostrate, la roba vostra, è roba vostra, ed è giusto vi sia resa integralmente. La giustizia avanti tutto. Io vi prego di perdonarmi se ho ardito indossare il vostro paletot e convertire la vostra veste da camera in un paio di gonnelle per mia moglie. Chi mai avrebbe creduto che voi sareste tornato ancora al mondo? Tant'è; abbiamo veduta anche questa! Oh, il signor Aurelio deve rimanere ben sorpreso!
Mentre il vecchio portinaio si stempera in questa lunga cicalata, Enrico, ravvolto in una coperta di lana, smaltisce di tutta fretta un pasticcio freddo, e vuota un fiaschetto di barolo. Ma nè il cibo nè la bevanda giovano a rasserenargli lo spirito; che anzi, abbandonandosi a sconfortanti riflessioni sull'egoismo degli uomini, egli piega il capo sul petto e non risponde parola.
—Ebbene? prosegue il vecchio portinaio; debbo io risvegliare il signor Aurelio e la padroncina?
—No, mio buon amico; questa sera non conviene ch'io mi presenti ad alcuno. La mia apparizione inaspettata produrrebbe cattivo effetto. Converrà attendere il domani, e quando tu li avrai prevenuti del mio arrivo, allora...
—Come vi aggrada, signore.
—Frattanto spegni il lume, e buona notte per ora. Il giorno seguente, verso il mezzogiorno, Aurelio Lanfranchi, Mariuccia e Carlotta erano adunati in una magnifica sala a pian terreno, e ragionavano lietamente vicino al caminetto, quando il portinaio comparve dinanzi ad essi, e, fatto un rispettoso inchino, aperse quattro volte la bocca senza proferire parola.
—Che c'è di nuovo, Bernardo?
—Oh!
—Stamattina m'hai l'aria d'uno spiritato: si direbbe che in sogno ti è apparso il diavolo.
—Non il diavolo precisamente, ma qualche cosa di simile... cioè.... voleva dire... una persona dell'altro mondo...
—Spiegati! via! tu ci fai rizzare i capelli.
—Prima di tutto... conviene ch'io vi faccia una interrogazione.... tali sono gli ordini ch'io ho ricevuti....
—Da chi?
—Da lui stesso.... dalla persona che viene dall'altro mondo.
—Costui per certo è impazzato.
—No, signor padrone, io non sono impazzato; l'ho veduto, gli ho parlato, abbiam passata la notte insieme ed ora è là fuori nell'anticamera...
—Chi dunque? vuoi tu spiegarti una volta?
—Chi? vostro fratello Enrico.
—Decisamente quest'uomo ha perduto il cervello. Carlotta è presa da terrore; Mariuccia volge al portinaio uno sguardo inquieto, mentre Aurelio, assumendo un tono scherzevole, prosegue di tal guisa:
—Il mio povero fratello (che Iddio gli conceda eterna requie) avea troppo buon senso quando era al mondo, per permettersi, ora che è morto, una burla da sì cattivo genere. Sai tu, Mariuccia, che se ai morti venisse il capriccio di risorgere, la sarebbe pei vivi e massime pei parenti una vera desolazione! Supponiamo che il sogno di Bernardo si avverasse; che il nostro Enrico ricomparisse un bel giorno in mezzo a noi; credi tu che la nostra reciproca posizione non sarebbe oltremodo imbarazzante? Converrebbe in primo luogo cedergli una parte dei nostri beni; tu, Mariuccia, dovresti rinunziare a metà della tua dote, e quindi alle speranze d'un felice matrimonio!....
—Basta, fratello, non ragioniamo di cose impossibili...
—Eppure il nostro Bernardo ci assicurava poco dianzi...
—E ancora vi torno a ripetere...
—Che nostro fratello Enrico...
—È la fuori, e domanda il favore d'essere ammesso alla vostra presenza.
L'accento calmo e sicuro del buon vecchio; la voce, il volto, il gesto, da cui traspare l'intima convinzione dell'animo, raddoppia il terrore delle due donne, che, stringendosi l'una presso all'altra, non osano trarre un sospiro, nonchè proferire una parola. Aurelio comincia a crollare il capo in segno d'impazienza; poi, volgendosi al servo con piglio severo:
—Basta per oggi, gli dice: se altro non hai ad annunziarci, vattene per le faccende tue.
—E qual risposta debbo io recargli?
—A chi dunque? risponde Aurelio stizzito.
—A lui... all'altro mio padrone... al signor Enrico insomma...
—Al diavolo entrambi! ch'io sono oggimai ristucco di queste tue baje! prorompe Aurelio balzando in piedi.
Il servo s'inchina, ed esce dalla sala per pochi minuti; quindi, rientrando poco dopo, pallido in volto, i capelli irti in sulla fronte, s'inchina di bel nuovo innanzi ad Aurelio, e gli porge una lettera.
Perchè mai la mano di Aurelio trema convulsa nell'aprire quel foglio?
Sulla soprascritta egli ha riconosciuti i caratteri di suo fratello; le cifre sono recenti ed umide tuttavia; non più dubbio... la mano del morto... ha vergate quelle cifre.
«Dilettissimi!
«Ieri sera ho lasciato il Campo santo colla dolce speranza di rivivere per qualche tempo in mezzo a voi. Le lacrime che voi spargeste intorno al capezzale del mio letto, quando io vi dava l'ultimo addio, e quelle che versaste dappoi sulla mia tomba, m'erano pegno del vostro affetto e guarentigia d'amorevole[250] e festosa accoglienza. Mi sono ingannato. Non temete però ch'io vi muova alcun rimprovero: il torto è mio e son pronto ad espiarlo. Veggendo la vostra esitazione e il vostro imbarazzo, per non accrescerli davantaggio colla mia presenza, io riprenderò fra poco la via del cimitero, e mi adagierò nuovamente nella cassa col fermo proposito di non uscirne più mai. Questa seconda morte mi accora assai meno della prima, essendo io convinto oggimai di questa grande verità: che cioè i parenti morti giovano assai meglio dei vivi.
Correva l'anno 1831.
Paganini, il diabolico Paganini, si era prodotto al teatro dell'Opera in sei concerti, suscitando entusiasmi anche maggiori di quelli lo aveano accompagnato nelle sue trionfali escursioni in Italia e in Germania.—In presenza dell'artista fenomenale, alcuni professori d'orchestra del grande teatro aveano spezzato i loro strumenti.
Alla medesima epoca, era in Parigi un altro violinista dotato di una abilità straordinaria, ma tuttora ignorato nel gran mondo dell'arte. Si chiamava Franz Sthoeny;—era nato a Stocarda, e in quella città avea trascorso la gioventù nella pace della famiglia, alternando alle severe meditazioni della filosofia, gli esercizi dell'istrumento a quattro corde.
All'età di trentacinque anni, Franz era rimasto orfano e solo. Al morire della madre che lo avea adorato, che aveva esaurite per l'unico figlio tutte le economie di un patrimonio assai tenue, Franz si era accorto di esser povero.
La prospettiva dell'avvenire gli si era affacciata alla mente coi più lugubri colori.
Che fare?—Il suo vecchio maestro di musica Samuele Klauss si era incaricato di rispondere alla terribile domanda. E la risposta, muta di parole, era stata eloquente.
Klauss avea preso per mano il suo allievo diletto, e, condottolo nella piccola sala dove tante volte avevano[252] diviso insieme i fantastici diletti della musica, gli aveva additato la piccola cassetta dove il violino stava rinchiuso come un essere vivente in una tomba obbliata.
Quel cenno apriva a Franz Sthoeny una nuova carriera. Vendute le mobilie e le suppellettili della casa, l'artista era partito per Parigi in compagnia del suo maestro ed amico.
Prima che Paganini avesse dato al teatro dell'Opera i suoi meravigliosi concerti, Franz si era fatta, per una serie di esperienze e di raffronti, una convinzione superba ed un proposito irremovibile.—La convinzione era questa: di ritenersi superiore a tutti i più rinomati violinisti ch'egli aveva uditi nella capitale della Francia—il proposito era di spezzare il proprio istrumento, e con esso la sua esistenza, qualora non fosse riuscito a tenere il primo posto fra i suonatori dell'epoca. Il vecchio Klauss si compiaceva di quel nobile orgoglio, e credeva, lusingandolo, di compiere in buona fede una sant'opera.
Ma prima di prodursi al cospetto del pubblico, Franz aveva aspettato con trepida impazienza che il tanto decantato italiano facesse le sue prove a Parigi. Il nome di Paganini era stato, per alcuni mesi, una spina rovente al cuore di Franz—un incubo, un fantasma minaccioso allo spirito del vecchio Samuele.
Sì l'uno che l'altro aveano più volte tremato per quel nome di artista—sì l'uno che l'altro avevano presagito sinistramente della sua venuta a Parigi.
Chi può descrivere le ansie, gli spasimi, gli atroci entusiasmi di quella nefasta serata?—Franz e Samuele, alle prime arcate di Paganini, avevano rabbrividito. Il maestro e l'allievo, compresi da un entusiasmo che era per entrambi angoscia tremenda, non osarono guardarsi in faccia, non che ricambiarsi un accento.
A mezzanotte, dopo il concerto, rientrarono muti e lugubri nel loro appartamento.
—Samuele!—disse Franz gettandosi sovra una seggiola con portamento disperato—va!... noi altri[253] non siamo buoni a nulla—hai capito?—a nulla!... proprio a nulla!...
Le rughe del vecchio maestro divennero livide.—Dopo breve silenzio, Samuele riprese con voce cupa:
—Eppure tu hai torto, Franz—io ti ho insegnato quanto si può insegnare da un maestro, e tu hai tutto imparato ciò che l'uomo può imparare dall'uomo. Qual colpa ci ho io, se questi dannati italiani, per primeggiare nel regno dell'arte, hanno ricorso alle ispirazioni del diavolo ed agli obbrobri della magia?...
Franz fissò gli occhi nel vecchio maestro con espressione sinistra:—quello sguardo parea dire: «ebbene! a che mai tanti scrupoli?... pur di elevarmi a tanta potenza nell'arte, ed io pure mi darei al diavolo, anima e corpo!»
Samuele indovinò quell'atroce pensiero, e riprese la parola con calma simulata:
—Tu conosci la storia miseranda del celebre Tartini. Egli morì in una notte di sabbato, strangolato dal suo demonio familiare che gli aveva insegnato la maniera di dare anima al violino, incorporando in esso lo spirito di una vergine. Paganini ha fatto di più. Paganini, per comunicare al proprio istromento i gemiti, i gridi desolati, le note più strazianti della voce umana, si è fatto assassino dell'uomo che più gli era affezionato sulla terra, e coi visceri della sua vittima ha composto le quattro corde del suo violino fatato. Eccoti il segreto di quel fascino, di quella potenza irresistibile di suoni, che tu, mio povero Franz, non potresti mai uguagliare, se prima...
E il vecchio troncò a mezzo la frase.
La sua voce era paralizzata da uno sgomento misterioso.
Franz, abbassando gli occhi, uscì dopo alcuni minuti in questa domanda:
—E tu credi, Samuele, che arriverei anch'io ad ottenere gli effetti inauditi, a suscitare gli entusiasmi di Paganini, qualora le corde del mio istromento fossero composte di fibra umana?
—Pur troppo!—esclamò il maestro con singolare[254] espressione—ma per ottenere l'intento, non basta che le corde sieno composte di fibra umana; è necessario che questa fibra abbia fatto parte di un corpo simpatico. Tartini comunicò la vita al proprio violino, introducendo in esso l'anima di una vergine—ma quella vergine era morta di amore per lui; e il satanico artista, assistendola nelle ultime agonie, a mezzo di una cannuccia, avea fatto passare nello istromento lo spirito della moribonda. Quanto a Paganini, t'ho già detto che egli assassinò il migliore dei suoi amici, la persona che più gli era legata di benevolenza—e la assassinò per strappargli le viscere e per convertirle in altrettante corde da suono.
—Oh! la voce umana!—il miracolo della voce umana, proseguì Samuele dopo breve silenzio.—Credi tu dunque, mio povero Franz, che io non ti avrei insegnato a produrla, se questa si potesse ottenere coi mezzi dell'arte, di quell'arte nobile e santa che vuol vivere di sè stessa, che vuol risplendere della sua propria luce, che disdegna le bassezze e le ciurmerie, che ha in orrore i delitti?
Franz non ebbe forza di proferire un accento. Si levò in piedi con una pacatezza sinistra che rivelava la più profonda agitazione—prese in mano il violino—fissò nelle corde un'occhiata sprezzante e minacciosa—e poi, afferratele con impeto convulso, le strappò dallo istrumento.
Il vecchio Samuele mandò un grido. Le corde ridotte a gomitolo erano state lanciate nelle brage del caminetto, e quivi si contorcevano stridendo, come al contatto del fuoco un gruppo di serpenti assiderati.
Samuele tolse dalla tavola un candeliere, e si avviò alla sua camera da letto senza salutare l'allievo.
Passarono settimane—passarono mesi. Una cupa malinconia si era impossessata di Franz. Il violino, vedovo delle corde, pendeva dalla parete, polveroso e negletto. Samuele e Franz pranzavano insieme ogni giorno e ogni sera stavano assisi l'uno di fronte all'altro, nel medesimo salottino—ma l'uno non osava[255] rivolgere all'altro la parola—si guardavano in silenzio come due muti. Dal momento che il violino non ebbe più corde, anche quei due esseri animati parvero smarrire l'uso della favella.
—È tempo che ciò finisca!—esclamò finalmente il vecchio Samuele. E quella sera, prima di ritirarsi nella camera da letto, si accostò all'amico per imprimergli un bacio sulla fronte. Franz si riscosse dal suo triste letargo, e ripetè meccanicamente le parole del maestro—«È tempo che ciò finisca!»
Si separarono—e ciascuno andò a coricarsi.
All'indomani, quando Franz aperse gli occhi alla luce del giorno, si meravigliò di non trovare vicino al suo letto il vecchio maestro che era solito levarsi prima di lui.
—Samuele! mio buono... mio ottimo Samuele!—gridò Franz balzando dalle coltri per slanciarsi nella camera del maestro.
Franz fu atterrito dalla propria voce, ma più ancora dal silenzio lugubre che a quella rispose.
Vi sono dei silenzi profondi che annunziano la morte.
Presso al letto dei cadaveri e nel vano delle tombe, il silenzio acquista una intensità misteriosa che colpisce l'anima di terrore.
La severa testa di Samuele giaceva irrigidita sul capezzale—i contorni salienti di quella testa erano una fronte calva sfolgorante di luce e una barba grigia accuminata che pareva erigersi al cielo.
Alla vista di quel cadavere Franz provò una scossa terribile—ma la natura dell'uomo e la natura dell'artista si risentirono in lui ad un medesimo tempo, e in quella lotta di sentimenti, il dolore rimase ben tosto paralizzato. Le passioni dell'artista prevalsero sui più teneri istinti dell'uomo, e li soffocarono.
Una lettera all'indirizzo di Franz giaceva sulla tavola da notte.—Il violinista l'aperse tremando:
«Mio caro Franz,
«Al momento in cui leggerai questo scritto, avrò compiuto il più grande e l'ultimo sacrifizio che io, tuo maestro e tuo unico amico, poteva fare per la[256] tua gloria.—La persona, che al mondo ti amava sopra ogni altro, non è più che un corpo insensibile: del tuo vecchio maestro non rimane oggimai a te dinanzi che la materia organica impassibile. Io non ti suggerirò ciò che ti resta a fare.
»Non lasciarti atterrire da scrupoli vani o da stolte superstizioni.—Io ti immolo il mio cadavere perchè tu abbia ad usarne per la tua gloria—ti macchieresti della più nera ingratitudine rendendo vano il mio sacrificio.—Quando tu avrai ridonate le corde al tuo violino—quando queste corde si comporranno della mia fibra, e avranno la voce, il gemito, il pianto del mio fervido amore—allora, o Franz, non temere di nessuno,—allora prendi il tuo istrumento, mettiti sulle orme dell'uomo che ci ha fatto tanto male—presentati nel campo dov'egli superbamente ha potuto imperare fino a questo giorno—gettagli in volto il tuo guanto di sfida! Oh! sentirai come la nota di amore uscirà potente dal tuo violino, quando tu, accarezzando le corde, ti sovverrai che desse furono parte del tuo vecchio maestro, che ora ti bacia per l'ultima volta e ti benedice.
Samuele.»
Due lacrime sgorgarono dagli occhi di Franz, ma tosto parvero essiccarsi per effetto di una vampa latente. Le pupille del fantastico suonatore, fisse nel morto, lampeggiavano come quelle della strige.
La nostra penna rifugge dal descrivere ciò che accadde in quella stanza di morte, dacchè i medici ebbero praticata l'autopsia del cadavere.—A noi basti accennare che le ultime volontà dell'eroico Samuele vennero compiute, che Franz non esitò punto a procacciarsi le corde fatali onde egli sperava dar anima al suo violino.
Quelle corde, di là a quindici giorni, erano distese sullo stromento. Franz non osava guardarle. Una sera volle provarsi a suonare, ma l'arco gli tremava nella mano come lama di stocco nel pugno di un assassino esordiente.
—Non importa! esclamò Franz, rinserrando il violino nella cassetta—questi sciocchi terrori spariranno quando io mi troverò in presenza del mio potente rivale. La volontà del mio povero Samuele vuol essere compita... sarà un grande trionfo per me e per lui... se riescirò ad uguagliare... a superare Paganini!
Ma il celebre violinista non era più a Parigi. A quell'epoca Paganini dava al teatro di Gand una serie di concerti.
Una sera, mentre il diabolico artista sedeva a mensa circondato da una eletta compagnia di musicisti, Franz entrò nella sala dell'albergo, e muovendo all'indirizzo di Paganini, senza dir motto, gli consegnò un biglietto di visita.
Paganini lesse—lanciò sullo sconosciuto una di quelle occhiate fulminee cui l'occhio più temerario non può sostenere—ma vedendo che l'altro teneva fermo e pareva a sua volta sfidarlo colla impassibilità dello sguardo: Signore, gli disse con voce secca, i vostri desiderii saranno esauditi!—E Franz, salutando cortesemente i convitati, uscì dalla sala.
Due giorni dopo, nella città di Gand era esposto un avviso che annunziava l'ultimo concerto di Paganini. Nelle ultime linee del programma, stampato a lettere cubitali, spiccava una nota singolare che eccitava in sommo grado la pubblica curiosità, ed era oggetto di mille commenti!
In detta sera, diceva la nota, si produrrà per la prima volta l'egregio violinista alemanno signor Franz Sthoeny, il quale si è recato espressamente a Gand per gettare il guanto di sfida all'illustre Paganini, dichiarandosi pronto a competere con lui nella esecuzione dei pezzi più difficili. Avendo l'illustre Paganini accettata la sfida, il signor Franz Sthoeny dovrà eseguire, in confronto dell'insuperato violinista, la famosa fantasia-capriccio che si intitola le streghe.
L'effetto di quell'annunzio fu magnetico. Paganini, che in mezzo alle agitazioni ed ai trionfi, non perdeva mai d'occhio il punto luminoso della speculazione,[258] credette bene, per quella occasione, di rincarire del doppio il prezzo dei biglietti.—È inutile dire ch'egli aveva calcolato perfettamente. Tutta la città di Gand, quella sera, parve riversarsi in teatro.
All'ora terribile del cimento, Franz si recò nella sala del ridotto, dove Paganini lo aveva preceduto.
—Bravo figliuolo! avete fatto bene ad anticipare la vostra venuta—disse Paganini—sarà bene che noi invertiamo l'ordine del programma. Mi preme di sbrigare questa faccenda, per non essere disturbato nella esecuzione degli altri miei pezzi.—Siete voi pronto?
—Io sono ai vostri ordini, rispose Franz pacatamente.
Paganini fece alzare il sipario e tosto si presentò al proscenio fra un uragano di applausi e di grida frenetiche.
Non mai l'artista italiano, nell'eseguire quella diabolica composizione che si intitola le Streghe, aveva rivelato una potenza così diabolica. Le corde del violino, sotto la pressione delle falangi scarnate, si contorcevano come viscere palpitanti—l'occhio satanico del violinista evocava l'inferno dalle cavità misteriose del suo istromento.—I suoni prendevano forma, e, intorno a quel mago dell'arte, parevano danzare oscenamente delle figure fantastiche. Nel vuoto del palco scenico una inesplicabile fantasmagoria formata dalle vibrazioni sonore rappresentava le orgie invereconde e gli osceni connubi del Sabba.
Quando Paganini potè finalmente ritirarsi dalla scena, ove ad ogni tratto lo richiamavano le strepitose acclamazioni del pubblico, nella sala del ridotto incontrò Franz che aveva finito di accordare il violino, e già muoveva per slanciarsi nell'arringo.
Paganini rimase stupito nel mirare l'impassibilità del suo competitore, e l'aria di sicurezza che gli brillava nel volto.
Franz si avanzò verso il proscenio, accolto da un silenzio glaciale. Soggiogati dal fascino di Paganini, gli spettatori guardavano il nuovo arrivato come si guarda un povero ebete, che affronta un assurdo cimento.
Nullameno, alle prime arcate di Franz, l'attenzione degli spettatori si fece vivissima.
Franz era un esecutore abilissimo, uno di quegli esecutori pei quali la difficoltà non esiste. Il vecchio Samuele non aveva mentito il giorno in cui gli aveva detto: io ti ho insegnato tutto ciò che si può insegnare, e tu hai imparato tutto quello che si può apprendere.
Ma ciò che Franz aveva sognato di ottenere per effetto delle corde simpatiche; il gemito della passione, il grido straziante dell'agonia, il ruggito della foresta e l'ululo dei dannati—ciò che il vecchio Samuele avrebbe voluto comunicare al suo allievo ed amico, immolandogli se stesso e dotando di corde umane lo strumento di lui—tutto questo edifizio di illusioni, di speranze, che nell'anima dell'artista alemanno si erano tramutate in fede sicura—tutto svanì in un istante..
Sotto il colpo di un terribile disinganno, Franz smarrì il coraggio e le forze.... Invocò sommessamente il nome del defunto maestro—lo pregò... lo maledì nel segreto dell'anima sua—lo gridò traditore, scellerato. Poi, stanco della prova, disperato dell'esito, strappò dal violino le corde fatali, le gettò al suolo, e si fece a calpestarle con rabbia feroce.
—È pazzo! è pazzo!—fermatelo... soccorretelo! gridarono cento voci dalla platea.
Franz si allontanò dal proscenio, ed entrato precipitosamente nelle quinte, andò a prostrarsi ai piedi di Paganini.
—Perdono! mille volte perdono!—gridò Franz con accento disperato—io aveva creduto... io aveva sperato...
Paganini stese le braccia a quel povero sconfitto; lo sollevò da terra, e, abbracciandolo come un fratello, gli disse:
—Tu hai suonato divinamente... tu sei un grande artista... ciò che ti manca...
—Oh! so ben io ciò che mi manca—esclamò Franz singhiozzando; ma il vecchio Samuele mi ha tradito!....
E Franz narrò a Paganini l'istoria delle corde umane, esponendogli ingenuamente le illusioni a cui si era affidato.
—Povero Franz!—esclamò il violinista italiano con sarcastica pietà—tu hai dimenticato una circostanza per la quale le corde del tuo violino non potevano competere colle mie nella vivacità, nel calore, nell'impeto della passione... Non hai tu detto che il tuo vecchio maestro era tedesco?
—Senza dubbio—egli era tedesco come io lo sono....
—Ebbene: ecco appunto la circostanza sfavorevole—proseguì Paganini battendo sulla spalla del povero Franz.—Un'altra volta, quando vorrai comunicare al tuo violino l'anima, il fuoco, la passione, la vivacità che io possiedo, fa che le tue corde sieno composte di fibra italiana.
E aggiunse sottovoce: «E fa anche di procacciarti, se lo puoi, un'anima da italiano».
Ogni giorno la cronaca dei giornali registra un suicidio per amore.
Eppure: sentiteli un po', questi imberbi filosofi dello scetticismo! Interrogatele, queste larve nuotanti nella seta e nei pizzi, queste mummie intonacate di cosmetico che si chiamano le donne del gran mondo!
Vi diranno che l'amore è una metafora da poeti, un mito ingegnoso e gentile, con che si piacquero gli idealisti raffigurare l'attrazione fisica dei due sessi.
E frattanto, i figli della ignobile plebe amano e si uccidono—e mentre una bella fanciulla del popolo, irradiata di innocenza e di giovinezza tacitamente e coll'estasi in volto, dà il fuoco ai carboni che devono addormentarla per sempre; un colpo di pistola annunzia la fine di un appassionato artista, di un povero operaio, di un bersagliere animoso, i quali lasciarono scritto col loro sangue queste due sante parole: ho amato!
Il suicidio è una grande follia, forse... un delitto; ma le follie e i delitti qualche volta rappresentano l'unico sintomo vitale di una generazione. Le anime candide e serene, che respirano l'amore, hanno bisogno, per rattemprare la loro fede, che qualcuno sparisca dal mondo per aver troppo amato. L'amore è la religione del cuore; è necessario che essa abbia i suoi martiri.
Era un giovane suonatore di tromba, nato—se non m'inganno—sulle coste della Dalmazia, e venuto[262] adolescente a domiciliarsi in Venezia, dove all'età di venti anni aveva preso posto nell'orchestra del teatro la Fenice.
Paolo Rubly aveva sortito dalla natura una di quelle fisonomie caratteristiche, le quali, in chi le abbia vedute una volta, lasciano una impressione indelebile.
Mi ricordo di esser partito con lui da Venezia, nell'estate del 1857. Egli recavasi a Padova per suonare alla fiera del Santo; io doveva proseguire sino a Milano.
Appena lo vidi entrare nella sala d'aspetto, i miei occhi, il mio cuore, tutta l'anima mia furono assorti in lui e nella giovine donna che si appoggiava al di lui braccio.
La più parte dei viaggiatori, vedendolo entrare nella sala, rimasero ugualmente impressionati. Nel volto di tutti io lessi una commozione di vivissima simpatia.
—Chi sono?—domandai ad un signore veneziano che li aveva salutati.
—È il Rubly... un professore della Fenice.... un bravo professore di tromba; e la poveretta che gli sta al fianco è sua moglie—una sposina da tre mesi che forse non ne vivrà altrettanti.
—Voi credete, signore?
—Guardatela bene, e vedrete che non c'è luogo ad illudersi.... Là dentro ci lavora il mal sottile da un pezzo.
Mentre noi parlavamo, il giovine, colla sua pallida compagna, si era posto a sedere in un angolo della sala.
Si tenevano allacciati per le mani con ingenua famigliarità, come due fanciulli—si parlavano cogli sguardi.... coi sorrisi.... come non è dato parlarsi colla voce—Ma i sorrisi erano brevi, e spegnendosi, non lasciavano traccia, o solo una traccia di dolore.
La campanella invitava i viaggiatori a salire nel convoglio; tutti si precipitarono verso la porta. Io feci come gli altri—e, lasciando dietro me quei due simpatici personaggi che tanto mi avevano interessato, andai in cerca del mio vagone di seconda classe.
Sbadatamente entrai in uno di quei compartimenti dove non è permesso fumare, e già io muoveva per uscirne, quando mi si affacciarono i due giovani sposi che accennavano di voler salire.
—Qui dentro non si fuma? domandò languidamente la donna.
—No, Maria! E poi.... non c'è che un solo viaggiatore... e tu potrai adagiarti comodamente.
In luogo di discendere, io mi ritirai verso l'estremità della carrozza—i due sposi vennero a collocarsi sulla panchetta che stava di fronte alla mia, e, come se nessuno fosse là ad osservarli, la giovane donna abbandonò la sua pallida testa sulla spalla del marito, e questi la attirò a sè dolcemente, accarezzando i bruni capelli e baciando la pallida fronte.
—Ciò le farà bene—mi disse—vedrete ch'ella dormirà tosto.
E mi parlava come se io lo conoscessi da un pezzo, come se io, consapevole d'ogni sua disavventura e partecipe de' suoi dolori, avessi a ritrarre qualche conforto dalle sue parole.
Poco dopo (il convoglio era già uscito dalla stazione, e quell'uomo singolare non aveva mai levati gli occhi dalla sua donna) egli portò l'indice al labbro, e volgendosi a me colla espressione della più viva compiacenza «ella dorme!—mi disse—così giungerà a Padova senza avvedersene—non soffrirà! Osservate! Quando ella dorme, la sue guancie prendono un bel colore di rosa... Credete voi che la sua malattia sia grave?»
Io rimasi colpito da quella inattesa interpellanza, ma più ancora dall'ansia affannosa ond'egli attendeva la mia risposta.
Tentai di rassicurarlo. Gli feci osservare che il respiro della dormente era dolce e regolarissimo.
Per tutta risposta, egli mi strinse la mano—e stette parecchi minuti senza profferire parola.
Poi, contemplando con espressione ineffabile la povera malata—no! non è possibile!....—parlava fra sè—una donna non può morire quando è amata come tu la sei, o mia buona Maria!—E voltosi di[264] nuovo a me «Io credo, mi disse, che se questa poveretta avesse a morire, ella mi trarrebbe seco inesorabilmente dopo pochi giorni, o io avrei tale potenza da farla rivivere!»
Queste parole mi afflissero come un lugubre vaticinio.—Ed ora, nel ricordarle, mi sento commuovere da superstizioso terrore, poichè la fine del povero suonatore di tromba fu quale egli stesso la aveva preconizzata in quel giorno.
Quel signore, che alla stazione della ferrovia aveva presagita la prossima fine dell'ammalata, non si era punto ingannato.
Quella debole fiammella, che era l'anima della povera Maria, a Padova si andava spegnendo di ora in ora. Finita la fiera del Santo, la malata espresse il desiderio di trasferirsi ad un paesetto in vicinanza dei colli Euganei,—dove—sperava ella—avrebbe respirato la salute e la vita. Una mattina fu veduta uscire dalla città una grande carrozza tirata da un solo cavallo che andava al passo. Dentro la carrozza, adagiata tra quattro guanciali, stava la pallida Maria sorridendo mestamente al marito che, seduto di faccia, la accarezzava con sguardi di madre.
Giunsero al paesello in sull'ora del tramonto. Dalle colline verdeggianti spirava il tiepido soffio della vita—da ogni parte un cinguettio, un tripudio, una festa. Le contadine uscivano dalle case, e vedendo passare quel lento convoglio, cessavano dal canto e guardavano attonite.
La carrozza si fermò presso una casetta di fresco costruita, bianca come una sposa.
Il Rubly scese a terra.
—Ah! siamo dunque arrivati! Grazie... Paolo!...come si sta bene qui... Oh... qui... non si può morire.
—Vedrai... vedrai la bella stanzetta che ti ho preparata! No... non muoverti, Maria!... Lascia aprire la porta... e poi... Ecco... hanno aperto!... Ora vieni!...
Così parlando, il Rubly si prese fra le braccia la donna, e questa si abbandonò a lui come una bimba dormente—e così entrarono nella casetta, e salirono al piano superiore.
«Che Iddio le renda la salute»—esclamò una giovane donna, facendo il segno della croce.—I fanciulli, che erano accorsi festosamente all'arrivo della carrozza, d'un tratto ammutirono. Un vecchio prete crollò la testa mormorando: «Sarà bene che io non mi allontani!»
Il Rubly frattanto entrava in una cameretta al primo piano, e, deponendo sovra un candido letticciuolo la gracile creatura che non aveva parlato sin là—qui starai bene—diceva—qui vivrai felice, Maria! Domattina verranno gli uccelletti a svegliarti come il giorno... ti ricordi?—Fu appunto in una stanzetta come questa che noi ci siamo destati all'indomani del nostro matrimonio... Tu hai schiuse le finestre allo spuntare dell'alba ed hai esclamato: come il mondo è felice!
Maria aperse gli occhi—portò la mano alla fronte di Paolo, e, accarezzandogli i capelli—è tempo che tu ti riposi, gli disse, son due notti che non dormi—va!—domattina sarai tu che aprirai le finestre; sarai tu che farai entrare nella stanza la bella luce dell'alba. Se dormo, svegliami... Vedrai come sarò bella... come sarò allegra domani!
La tisi ha un presagio infallibile di morte, la gioia. Quando il povero Rubly si destò all'indomani, quando ebbe schiuse le finestre per dar adito alla luce, chiamò dolcemente per nome la sua Maria, ma questa non rispose. La chiamò una seconda volta baciandola in fronte, ma le sue labbra sentirono in quel bacio i geli della morte. Dalle finestre si versava nella stanzetta il tripudio mattutino della natura; ai riflessi di quell'alba, il mondo pareva ancora felice, ma nell'anima del Rubly entrava la notte e la disperazione. A Padova, a Venezia, si disse per alcun tempo che il professore di tromba del teatro la Fenice aveva smarrita la ragione. Era altresì corsa voce ch'egli si fosse suicidato sulla tomba della sua donna. Fatto è che dopo la morte di Maria, il Rubly divenne invisibile nel paesello dov'era accaduta la dolorosa catastrofe; nessuno ebbe più nuove di lui; non vi era quindi chi fosse in grado di darne agli altri.
All'approssimarsi del carnevale, l'impresario della Fenice stava in forse di scritturare un altro professore di tromba per sostituirlo a questo assente misterioso, che non dava più segno di esistere; ma ecco sopraggiunge una inattesa lettera diretta al presidente del teatro—è il Rubly che annunzia il suo prossimo ritorno a Venezia, che promette di trovarsi al suo posto la sera della prima prova d'orchestra.
Il Rubly, all'ora fissata, entrò nel teatro e si assise dinanzi al leggio senza far motto ai colleghi. La sua nobile fisonomia, improntata di mestizia serena, attraeva irresistibilmente gli sguardi. Nessuno osava interrompere quel misterioso silenzio, nel quale si rivelava un profondo cordoglio e una speranza sublime.
Ma ciò che sorprese, ciò che scosse di ineffabile meraviglia i professori dell'orchestra, fu il primo squillo che il Rubly evocò dalla tromba—un squillo potente, febbrile, convulso, ma pieno di dolcezza.
La prova fu sospesa per un istante. Tutti i professori si alzarono come un sol uomo per fissare in volto l'artista.
Il Rubly comprese il suo trionfo, e senza levarsi dallo sgabello salutò i colleghi con uno sguardo irradiato di gioia.—Poi, come uno che parli a sè stesso: non basta ancora, mormorò sommessamente—ma quattro o cinque mesi di esercizio costante mi renderanno onnipotente.
In quel carnevale, la tromba del Rubly divenne famosa a Venezia, e i frequentatori del teatro la Fenice, ad ogni nuova rappresentazione, notavano nell'artista un sensibile progresso. Le signore di temperamento delicato, al prorompere di quegli squilli, impallidivano—gli uomini di carattere appassionato si sentivano compresi da una tristezza inesplicabile, e qualche volta erano costretti a fuggire dal teatro, come si fugge, per istinto, da ciò che affascina e soggioga.
Il Rubly era additato nelle vie come una eccentricità della specie umana. Egli passeggiava sempre solo: suoi occhi si affissavano, con rapida vicenda[267] ora al cielo ed ora alla terra, mutando ad ogni tratto espressione. I più lo dicevano pazzo.
In quell'anno, uno spettacolo insolitamente grandioso si allestiva al teatro di Padova per la fiera del Santo. La stagione doveva aprirsi coll'opera Roberto il diavolo, concertata e diretta da Angelo Mariani.
Il Rubly fu chiamato a far parte dell'orchestra.
Tutti ricordano la fantastica evocazione di Beltrame nel convento di Santa Rosalia: tutti sanno come in quella stupenda ispirazione fantastica predomini lo squillo della tromba. Il Rubly, nell'accentare le potenti frasi del sublime maestro, divenne a sua volta sublime.—Quanti assistevano alla prova si sentirono, a quegli accenti, correre per le vene un brivido di terrore.
Il direttore dell'orchestra impallidì—egli non ricordava di aver udito mai tanta potenza di suoni; gli pareva che quello squillo di tromba rappresentasse qualche cosa di sopranaturale, di divino.—E poichè nessuno alla fine di quel pezzo si levò per applaudire, tanto era lo stupore e lo sgomento di tutti, il Mariani, nel cupo silenzio della sala, si volse al Rubly:—«Quando Iddio avrà bisogno di una tromba per evocare dagli avelli i trapassati e chiamarli al finale giudizio, non potrà affidare meglio che a voi la solenne missione—voi siete predestinato ad essere l'arcangelo del giudizio universale.»
A tali parole, insorse dall'orchestra e dal palco scenico un grido di approvazione.—Il Rubly non si mosse dal suo posto. Solamente affissò il direttore dell'orchestra colla espressione del dubbio e della speranza.—Poi abbassò il capo, e, stringendosi al petto lo strumento col trasporto d'un amico che abbraccia l'amico—ora, a noi due, esclamò sospirando—il momento è venuto!
All'indomani, gli artisti del teatro erano convocati alla seconda prova—il Rubly non comparve. Al direttore dell'orchestra fu presentata una lettera nella quale era detto: «perdonate se oggi manco ai miei impegni—io sono chiamato altrove da una necessità[268] prepotente—se non torno fra ventiquattro ore, non contate di rivedermi più mai.» È egli necessario di aggiungere che quella lettera portava la firma del Rubly?...
E voi avete già indovinato, o lettori, quale via abbia preso il povero suonatore di tromba.—Non chiamatelo pazzo—questa parola rappresenta la nefanda calunnia con che lo scettico mondo pretenderebbe demolire tutte le grandi e generose passioni. Il Rubly era dominato dall'esaltazione dell'amore.
Arrivò nel paesello a un'ora di notte—visitò divotamente la camera dove era morta la sua Maria; poi andò tutto solo a vagare nei campi infino a quando dalle ville, dalle colline non si intese più suono di voce umana.—Il di lui volto, come il modo di camminare, nulla presentava di strano. Era calmo, sereno. Portava sotto le ascelle la sua tromba involta in una tela verde.
Innanzi che battesse la mezzanotte, per una stradicciola obliqua, egli si diresse verso il piccolo Campo Santo che sottostava alla collina.
Il paesello bianco, illuminato dalla luna, era muto. I viventi dormivano come i morti—le case non erano più animate delle tombe.
Si accostò al muricciuolo—si guardò intorno—poi in un lampo lo sorpassò—Le croci erano scarse in quell'ultimo asilo dei poveri—ma una ve n'era, più bianca delle altre e costeggiata da un'ajuola di fiori.—Il Rubly si diresse a quella. Là, da circa un anno, giaceva la sua Maria.
Si inginocchiò dinanzi alla croce, e curvata la testa, parlò sommessamente, come un giovane parla all'orecchio della sua innamorata. Dei suoni indistinti, dei susurri quasi impercettibili si alzavano dalle zolle.—Forse quella ardente fantasia di innamorato credette udire degli accenti conosciuti.
«Io sono venuto, Maria!... Perdonami se mi sono fatto aspettare... Io ho sofferto al pari di te. Ma oramai non è più possibile che noi viviamo disgiunti—o tu verrai meco o io non partirò più da questo luogo.»
Batteva la mezzanotte.—Il Rubly si alzò in piedi, e levato l'involto alla sua tromba, la portò alle labbra, e cominciò ad emettere degli squilli pieni di un fascino sovrumano. Non si può descrivere l'effetto di quei suoni, lanciati così improvvisamente a traverso i silenzi della notte, e ripercossi con varie gradazioni dagli echi delle case e delle colline.
Quegli echi parevano la risposta dei sepolti, il gemito della umanità tutta intera che da un sonno profondo e misterioso si riscuote ai terrori della vita.
Il villaggio sovrastante al cimitero si destò ai primi squilli—le finestre si illuminarono—si vedevano, attraverso la luce, agitarsi delle creature umane che avevano l'aspetto di ombre.
Il Rubly, già stranamente impressionato dagli effetti sonori della propria tromba, parve ravvisare in quella reale agitazione di viventi il miracolo della risurrezione. Le upupe e le strigi, che spaventate battevano le ali mandando strida sinistre, crescevano le illusioni di quella scena fantastica...
Vi fu un momento in cui gli squilli della tromba divennero spaventevoli. Le case dei viventi risposero con un grido di terrore.
La era l'ultima crisi di un sublime delirio. A poco a poco, i suoni rallentarono; la disperazione parve placarsi, gli accenti illanguidirono e l'ultima voce limpida e amorosa, come la nota di un flauto, fu simile all'ultima favilla di una face che si spegne.
Gli abitatori del villaggio chiusero le finestre, e si ritrassero nelle loro stanze.
All'indomani, verso l'alba, il curato ed il sacrista entrarono nel Campo Santo, e quivi trovarono il povero Rubly abbracciato ad una croce di marmo. Lo chiamarono a nome, lo scossero leggermente. Quella nobile fronte era piena di sorriso e di luce, ma irrigidita dalla morte.
La promessa di due anime innamorate si era compiuta.—Maria non era tornata al suo Paolo, ma questi era andato a lei.
—Una lettera da Nyon—disse il cameriere, bussando sommessamente all'uscio della mia camera.
—Chi scrive?... Quel matto di Francesco. Leggiamo:
«Amico carissimo,
»Se mai nel corso della vita ebbi ragione di maledire la precoce canizie e le rughe che mi hanno difformato il volto, fu appunto nel giungere in questo romantico paesello della Svizzera. Spiega sul tavolo la carta geografica; cerca coll'occhio e colla mano quel punto quasi impercettibile ove trovi scritto Nyon, e figurati di vedere un gruppo di case pittoresche, sorgenti dal lago, circondate da colline e poggetti ameni a vedersi, un cielo sempre sereno ed azzurro—un angolo insomma del paradiso terrestre.
»Ma quello che non puoi avere inteso, e che neppure sapresti imaginare, si è, che le più belle ragazze create da Dio a consolazione dei mortali, albergano in quelle case, passeggiano sulla riva di quel lago, e vengono ogni sera a respirare quell'aria balsamica.
»Sette sono le cospicue famiglie di Nyon; voglio dire le ricche—perocchè, anche qui come in tutti i paesi del mondo, la ricchezza costituisce il primato.—E in quelle famiglie vivono, crescono e sospirano d'amore dodici ragazze, ciascuna delle quali presenta un tipo distinto di quella celeste bellezza, che[272] i poeti descrivono negli erotici delirii della fantasia; che i pittori impastano con tanto gusto sulle tele—che noi tutti abbiamo tante volte sognata nel nostro letto di collegio, all'età di quindici anni. Or bene, lo crederesti? In un paese tanto fecondo di bellezze femminili, tu non trovi un solo giovinotto il quale possa destare in cuore di fanciulla il più lieve sussulto d'amore. Coll'animo lacerato io ti dico adunque: le dodici ragazze di Nyon hanno perduto ogni speranza di trovarsi un marito nel proprio paese. Imagina la disperazione delle madri, dei padri, dei tutori e più ancora delle povere figliuole, che non trovano, per quanto girino gli occhi d'attorno, un viso d'uomo che ispiri fiducia.
»Appena qui giunsi un vecchio dabbene mi narrò con le lagrime agli occhi questa grande calamità del paese; perchè anch'egli è padre di due ragazze bellissime, alle quali (riporto testualmente le sue parole) spuntano già evidentissimi gli istinti del matrimonio E cercando io qualche provvedimento a tanto infortunio, risolvetti di volgermi a te, onde, a mezzo dei giornali, tu faccia appello al pubblico cortese perchè coloro che desiderano una bella e ricca moglie si rechino in questo paese tanto favorito, dalla natura.
»Le dodici ragazze di Nyon sono tutte infra i sedici e i venti anni. Educate nei primarii collegi di Francia, parlano il francese, l'italiano, il tedesco, e un po' l'inglese—suonano il pianoforte a due mani, ed anche a una sola, secondo il bisogno—disegnano paesaggi, farfalle, mosche ed altri animali, compresa la figura umana—sono espertissime nei ricami, e scrivono con buona calligrafia, ed hanno poi un'ultima dote—una dote, che io reputo la più interessante, la più magnetica—una dote di circa cinquecentomila franchi per ciascuna.
»Amico.—Spero vorrai compiacermi di questo lieve favore... Non si tratta che d'un semplice annunzio nei giornali più accreditati di costì.—Nè credo necessario spiegarti per quali ragioni io prenda un interesse sì vivo a queste povere figliuole... A suo[273] tempo saprai tutto, e vedrai che, come sempre, ho agito per scopo umanitario.
Tuo devotissimo
Francesco R.»
—Ed io rimango in questa maledetta pozzanghera, a godermi un vento sì nemico alla salute degli uomini ed alla pudicizia delle donzelle!—A Nyon! A Nyon! Corriamo a respirare quell'aria imbalsamata d'amore....—Pretenderebbe egli, quel matto di Francesco, che io additassi agli altri la strada del paradiso, per rimanermene a cento leghe di distanza? Sarei pure il dabben uomo s'io seguissi un tale consiglio.
È inutile dire che il giorno istesso partii da Marsiglia alla volta di Nyon.
Le ragazze di Nyon non rappresentano alla mia fantasia i tipi più omogenei.... per una moglie.... E quand'io mi decidessi a un tal passo—il passo più buffo e più serio della vita umana, che si chiama il matrimonio—forse vorrei rifletterci due volte prima di accordare la mia mano e l'altre estremità del mio individuo a fanciulle che troppo a lungo desiderarono.—Io vorrei una moglie alla buona, nè tanto dotta da addormentarmi colle sue dissertazioni, nè tanto sciocca da costringermi a farle da pedagogo. Non esigerei che mia moglie parlasse quattro lingue, ma vorrei conoscesse l'italiano a perfezione, e che, poco curando la calligrafia, nello scrivere non dimenticasse i punti e le virgole, nè trascurasse gli accenti e le consonanti doppie ove si richieggono.—Pretesa ben minima in apparenza, quantunque alcuni amici miei, esperti in tali materie, mi assicurino che una donna la quale parli bene la propria lingua e scriva colle regole della ortografia, sia fenomeno raro a trovarsi. Nè mi andrebbe a sangue veder la mia donna occupata tutto il giorno in disegni, ricami,[274] intrecci di lane e simili frascherie; ma vorrei all'incontro che ella fosse esperta nel far calze e camicie, nel friggere una cotoletta, nell'improvvisare un buon intingolo. Da ultimo, vorrei bandito dalla mia casa il pianoforte; perchè una moglie che suona il pianoforte è la più pericolosa delle mogli, che sono pur tutte pericolose assai.—La musica tira in casa molta gente; vengono i dilettanti, si combinano i sestetti, poi i terzetti, e si finisce coi duetti, composizione terribile inventata a danno dei mariti.—Da quanto ho esposto, ciascun vede che le ragazze di Nyon non fanno per me, e che io mi reco in quel paese coll'unico scopo di verificare le strane asserzioni del mio Francesco, non essendomi discaro poter ammirare il bel volto di quelle dodici figliuole; perocchè ho ferma opinione che il contemplare anche da lontano una bellissima donna valga meglio che l'abbracciarne una brutta.
Il sole stava per nascondersi dietro le montagne, quando dall'alto della diligenza vidi fumare le tettoie di Nyon. Domandai al conduttore di por piede a terra, onde fare modestamente il mio ingresso.
L'aria spirava dolcissima—sereno il cielo, le collinette d'un bel verde azzurro; gli augelletti svolazzavano fra gli alberi cinguettando; ond'io fui tosto commosso da voluttuosa melanconia. E tutti sanno come la melanconia disponga soavemente all'amore.
Eccomi alle porte di Nyon—ho attraversato la contrada principale—le case sono belle e paiono appartenere a persone agiate; ma dove sono le dodici ragazze? Non un bel visetto che sporga dalle finestre, non una voce flautata che si parta dalle abitazioni. L'amico mi avrebbe ingannato?—Ma ecco che egli mi viene incontro e con poche parole mi leva ogni dubbio.
—Io era ben certo di vederti a Nyon!
—Ti giuro che l'intenzione di prender moglie...
—Fermo là coi giuramenti! tu ignori la gravezza del pericolo...
Nel mentre abbracciavo l'amico e mi intratteneva con lui, mi accorsi che, dalla casa vicina, due grandi occhioni, stupidi e gonfi d'acquavite, due occhi da servitore mi stavano squadrando dal capo al piede.
Quell'uomo, appena fummo entrati nella locanda, venne nel mezzo della piazza, e facendo i più strani gesti, si chiamò intorno gli abitatori del paese.—Che è? che non è? La folla circonda il banditore con rispettoso silenzio, finchè questi con grande solennità annunzia ai circostanti che:
Un giovane civilmente vestito è entrato in Nyon!!!
La novella percorre in breve ora tutte le case, e dalle cantine ai granai passa rapida come baleno.—Tutti parlano del giovine civilmente vestito—Chi è? Donde viene? Cur? quomodo? quando?
Ciascuno fa i suoi commenti; vengono in campo le induzioni più strane, il rumore cresce a dismisura.
Io ceno di buon appetito; do un colpo di spazzetta al mio soprabito, quindi a braccio dell'amico scendo a passeggiare sulla spianata che costeggia il lago. La luna splende bellissima in un cielo di zaffiro. Appena mossi alcuni passi, noi ci troviamo al cospetto di due bellissime fanciulle, vestite in bianco. Esse procedono l'una al braccio dell'altra; il papà e la mamma le seguono a poca distanza, siccome vuole la prudente costumatezza dei tempi nostri.
Ecco il giovine civilmente vestito!—Queste parole furono scambiate sommessamente fra quella piccola comitiva, e le ragazze abbassarono modestamente gli occhi, dopo avermi ben ben squadrato dalla testa ai piedi.—È inutile aggiungere che il papà e la mamma con moto simultaneo appuntarono contro di me il naso e gli occhiali.—Nello stesso modo io dovetti subire l'esame di altre dieci ragazze, e di non so quanti padri, zii e tutori; perocchè, lode alla sincerità del mio Francesco, le belle ragazze di Nyon erano dodici appunto. E debbo ancora aggiungere per debito di verità, che ciascheduna di esse porgeva un tipo di sì perfetta bellezza, che nè io, nè Francesco, nè Paride redivivo, avremmo saputo a cui dare il pomo di preferenza.
Stature alte e mezzane; capelli biondi, neri, castani; occhi neri, azzurri, bigi; fisonomie melanconiche e gioconde, modeste e procaci, ingenue e voluttuose.—Io credo che mai in un serraglio dell'Oriente si adunassero ad un tempo tante beltà femminine.
La toilette era però uniforme; il vestito bianco parve fosse adottato quella sera ad unanime voto; forse perchè il candore più si convenga ad oneste fanciulle, o forse ancora perchè nel fondo bruno della sera facesse meglio spiccare le forme bellissime di quei bellissimi corpicciuoli.
Io passeggiava come assorto in estasi divina; parevami essere nel giardino delle fate, e confesso di aver provato in quel punto un vago desiderio di prender moglie... Le avrei sposate tutte dodici, senza scrupolo di sorta.
Verso le 9 ore, l'aria che dapprima era fresca, divenne a poco a poco freschissima, quindi fredda; e come per segreta convenzione, le bellissime fanciulle si allontanarono silenziosamente, ed entrarono ciascuna nella propria casa.—Ed ecco, non appena trascorsi due minuti, rischiararsi d'improvviso le finestre, ed uscirne i più deliziosi suoni che io mai avessi udito. Di là una fantasia di Thalberg, di qua una melodia Belliniana, più avanti una grande sinfonia a quattro mani, insomma una vera inondazione di musica in tutti i toni e in tutte le misure.
—Che significano questi suoni? Che vogliono esprimere queste melodie ora languide, ora concitate, che dal villaggio di Nyon si inalzano al cielo?
—Te lo dirò io, rispose il grande filosofo che mi dava di braccio.—Le dodici ragazze di Nyon, in tutti i toni, in tutti metri, in tutte le misure, non esprimono che un solo pensiero: Abbiamo bisogno di marito!!!
La notte del 24 maggio fu una terribile notte pegli abitanti di Nyon.—Mi coricai con triste presentimento.—Le[277] varie emozioni del viaggio, le scosse e i trabalzi della vettura, e sopratutto la vista delle bellissime fanciulle mi avevano acceso un vulcano nella testa; i nervi ed i muscoli mi oscillavano, e una mano di piombo, pesandomi sul petto, pareva contrastarmi il respiro. Volgiti a destra, volgiti a sinistra, mettiti boccone o supino, tieni gli occhi chiusi o spalancati, quando il sonno non viene spontaneo a coronarti de' suoi papaveri, le invocazioni e le evoluzioni non giovano: ti convien vegliare a dispetto.
Fu una notte di spasimi—una notte di delirio.... per me, e per tutti gli abitanti di Nyon.
Le sentinelle e le guardie di finanza, che vegliavano le contrade, affermarono aver uditi nell'aere certi gemiti affannosi, certi sospiri e singulti d'equivoca espressione. Parve ancora a taluni aver vedute delle figure bianche e trasparenti disegnarsi nell'ombra, affacciarsi alle finestre, correre su pei tetti leggiere, leggiere...—poi disparire come nebbia.
Alle undici del mattino io dormiva finalmente il sonno dal giusto, sovra un letto che assomigliava ad un mare in tempesta, avviluppato, o per meglio dire intricato dalle coltrici che aveano preso forma di corde da bastimento. Francesco entrò nella mia camera, spalancò le imposte ed uno sfacciato raggio di sole mi percosse le palpebre d'improvviso.
—Presto! fuori dal letto! gridò l'amico—Tutte le ragazze di Nyon sono in volta coi più begli abiti da festa!
Io balzo dal letto; mi vesto, do di braccio all'amico, e scendo con lui sulla piazza—La vista del sole mi ha rallegrato il cuore.... e l'aria che spira dal lago ha ravvivati i miei sensi.
Eccoci di nuovo sulla spianata. Quanta gente! Aspettano l'ultimo richiamo delle campane per entrare nella chiesa.
La domenica ne' piccoli paesi è il più lieto giorno della settimana, ed anche il più propizio agli innamorati. Le crestaie e le lavandaie vanno in giro coi loro cartoni, coi loro panierini ed altri passaporti[278] della professione, ed ho inteso dire da un grande filosofo che col
...Scendere e salir per l'altrui scale
le buone fanciulle lasciano su tutti i gradini una piccola porzione del loro cuore. Ma io non bado alle crestaie.... e molto meno alle lavandaie; in campagna ho bisogno di poesia... e di amore, e tuttociò che mi richiama al pensiero le mie fralezze cittadine, mi fa montare il rossore sul volto. Io cerco avidamente le dodici fanciulle dalla veste bianca e dal nastro azzurro.—Più si avvicina il momento desiderato, più aumentano le mie ansietà.
Ma le campane suonano l'ultimo richiamo, e la turba dei divoti entra confusamente nella chiesa, mentre io e Francesco restiamo nell'atrio ad attendere.—Esse debbono passare per di là, ed io potrò meglio contemplarne la bellezza. L'incerto lume della notte sovente inganna anche i più esperti osservatori; le nostri grandi dame di città, le quali appaiono sì belle al riflesso d'una lampada o d'un becco di gaz, perdono ogni attrattiva quando si mostrano alla schietta luce del giorno!
Io spero aver prodotto in quelle anime sensibili una dolce impressione. Non abituate alla vista di un giovine civilmente vestito, quelle fanciulle non potranno resistere alla seduzione del mio gilet di velluto e della mia cravatta di seta. Ma non ho io giurato di rimaner celibe? È vero; ma ho anch'io la mia piccola dose di vanità, e non ho a male se una donna mi riguardi con compiacenza. V'è tanta eloquenza negli sguardi d'una giovinetta che sente alle estremità dei nervi la prima prurigine dell'amore! Con un solo muover di ciglia essa dice ben più che non il Petrarca col suo grosso volume di sonetti.
Grazie al cielo ho finito di attendere—Le fanciulle di Nyon muovono verso la chiesa, e se ieri sera mi parvero belle, oggi discopro in esse novelli pregi, novelle perfezioni. Decisamente lo apparir belle soltanto di notte è privilegio delle lucciole e delle grandi dame.
Per Dio! che significano questi dispetti? Sono esse[279] timide tanto che non osino levare lo sguardo? Perchè nel passarmi d'accanto le fanciulle di Nyon fanno quelle smorfie disdegnose; mentre i padri, i tutori, gli zii mi fulminano del loro austero cipiglio!
A questa domanda seguì immediatamente nell'interno della mia coscienza una risposta crudele... Ciò che altre volte mi era accaduto nel mio pellegrinaggio sentimentale, ciò che inesorabilmente mandò a vuoto tutte le mie intraprese più serie in fatto di amore; il grande, l'insormontabile ostacolo mi si parava dinanzi all'indomani del mio arrivo—prima ancora che io avessi concepita nonchè espressa una speranza legittima sul conto delle avvenenti figliuole...
Ed esse sfilavano dinanzi a me cogli occhi bassi, e torcevano il collo sdegnosamente, e si affrettavano ad intingere la bella manina nel vasello dell'acqua santa per cacciare la tentazione col segno di croce.
In verità, che a vedere quel gesto di religioso dispetto, mi parve anche intendere parecchie voci pronunciare il vade retro Satana degli esorcisti.
—Francesco! diss'io, stringendo convulsivamente il braccio dell'amico....
«Francesco!!!»
Quegli mi guardò in faccia, e l'impressione del mio aspetto non fu certo promettente per lui, poichè egli mi allontanò a forza dalla chiesa e mi condusse di nuovo sulla spianata.
—Francesco! ripresi meno bruscamente, poichè entrambi ci fummo assisi a poca distanza dal lago; io vorrei un po' sapere chi abbia già detto a quelle... e ai padri, ai tutori, agli zii di quelle... sì, di quelle pettegole... io vorrei un po' sapere chi abbia palesato il segreto della mia professione...
—La tua professione non poteva rimanere un segreto, rispose pacatamente l'amico; poichè ier sera non appena tu consegnasti il passaporto all'albergatore, il piccolo dell'osteria si affrettò a copiare esattamente il tuo nome e i tuoi connotati, onde appagare[280] le numerose richieste.... degli abitanti di Nyon, i quali da circa un'ora assediavano le porte dello stabilimento. Il tuo nome e i tuoi connotati, prima di mezzanotte, furono riprodotti in circa duecento esemplari, e ti giuro che il piccolo ci ha guadagnato delle buone monete pel suo incomodo.
—Dunque... oramai tutti sanno...?
—Tutti sanno che tu sei nato a Macerata, che tuo padre era segretario di un vescovo, che il vescovo per amor di tua madre, ti ha fatto educare in seminario, dove imparasti a cantare da soprano, e che infine, avendo tu cogli anni acquistata una bella voce da tenore, lasciasti la sacristia per tentare la sorte avventurosa del teatro, ove a quest'ora hai già guadagnata una fama ed una pancia molto rispettabile.
—Tutte queste cose si sanno a Nyon... sul conto mio? Ed anche qui.... in un oscuro paesello della Svizzera... in un paese che vanta libere istituzioni, che si crede molto avanzato nelle idee democratiche... anche qui dovrò temere i pregiudizii delle nostre città imbastardite dal clericume! Anche qui... le ragazze faranno le smorfiose dinanzi ad un leale ed onesto cittadino, il quale non ha altro torto in faccia al mondo fuori quello di essersi consacrato ad un'arte.... che egli credette e crede tuttavia la più nobile, la più lucrosa, poetica delle arti...! Sì, la più poetica.... giuraddio!... sono pronto a sostenerlo in barba a tutti gli imbecilli dell'universo.
—Amico!—disse Francesco colla usata sua flemma; tu corri troppo alle ipotesi..!. Tu ti lasci trascinare da un impeto di passione, che finora non trovo per verun conto giustificabile. Aspettiamo... vediamo.... interroghiamo.... giudichiamo.... Finora non si è fatto alcun passo per conoscere i sentimenti di quelle caste e sensibili figliuole.... Se veramente tu avessi in animo di sposarne una... si potrebbe, con buona grazia, colla debita circospezione, farsi innanzi.... persuadere i parenti...
—Sposarne una!... Ascoltami, Francesco.... Tu sai che io non sono l'uomo delle mezze misure.... quando[281] mi sento offeso nell'amor proprio... Ah! Francesco!—E questa volta l'offesa fu tremenda!—perocchè è partita simultaneamente da dodici punti diversi....
—E da altrettante virgole.... Perdono! le donne io le chiamo virgole e non punti; perocchè esse appartengono al genere femminino.... ed anche per altre ragioni che il pudore mi vieta di ripetere...
Questa osservazione dell'amico interruppe il corso della mia collera, ed io dovetti sorridere. Dopo quel sorriso mi sentii l'anima raddolcita.
—Or bene!.... So io come s'ha a finire questa faccenda, dissi all'amico dopo breve silenzio... Credi tu, che se io invitassi gli abitanti di Nyon ad una accademia di declamazione e di canto nella gran sala dell'albergo maggiore, questi si rifiuterebbero di intervenire al trattenimento?....
—Ci avrei qualche dubbio... Tutto sta che il prezzo del biglietto sia piuttosto moderato...
—Quanto, per esempio?...
—Gratis!
—E sia pure gratis!... a patto che il pubblico non manchi. Ciò che mi importa è di avere presenti allo spettacolo tutte le dodici vergini di Nyon, coi loro rispettivi padri, tutori e zii.
—Te ne rispondo sulla mia onoratezza...
—Ed io ti prometto, che se le dodici ragazze verranno al concerto, all'indomani avremo libera scelta tra esse...
—Ho io ben compreso?... Hai tu detto: avremo?...
—Avremo! Io ti farò sposare una dote di cinquecentomila franchi, e la più bella delle belle... Vuoi tu?...
—Se io voglio?!!!
L'amico Francesco pareva ammaliato.
Ci separammo—poichè la gente usciva in quel punto dalla chiesa, ed io non voleva espormi una seconda volta al ludibrio della mia falsa posizione.
Francesco andò a predisporre la sala pel trattenimento. Io noleggiai un battello e feci un giro sul lago—meditando la mia vendetta.
Francesco condusse le cose per bene. Quand'io tornai all'albergo sul far della sera, vidi l'amico ritto in sentinella sulla porta, e tutto rifatto dal capo al piede coll'abito di rigore.
—Le ragazze verranno tutte—mi disse all'orecchio; e la gran sala è disposta perfettamente come tu mi hai indicato.
—Ottimamente!...
Entrai nella mia camera e pranzai coll'amico. E, dopo il pasto, levai dai bauli i miei ridicoli abiti da concertista, e indossai alla mia volta quell'aristocratica uniforme che uguagliando il gentiluomo al parrucchiere ed al garzone di trattoria, ottiene i primi onori nella società moderna, e viene considerata come una bardatura indispensabile a chi frequenta le grandi sale.
Alle ore otto e mezzo della sera la sala dell'albergo era colma—tutte le ragazze di Nyon—tutte!—e lo ripeto ad onore dell'amico—sedevano nella sala, intorno al pulpito predominante.
Io entrai senza farmi annunziare.
Strisciai tra la folla degli abiti neri, colla schiena ricurva e gli occhi dimessi... Salii i quattro gradini dei pulpito; e fatto un leggiero inchino del capo, poichè tutti gli occhi furono a me volti, e il silenzio degli spettatori parve chiedermi la parola, spiegai sul tavolo una cartolina, nella quale erano riepilogati i miei pensieri, e con voce sonora proferii il seguente discorso:
«Se innanzi a voi, gentilissime donzelle e nobili signore di Nyon, io mi presento a difendere l'onore e la fama di quella grande famiglia artistica a cui mi glorio d'appartenere: la carità dello scopo varrà a giustificare l'audacia dell'assunto, e voi di leggieri mi perdonerete se, togliendovi agli ozii delle pacifiche dimore, v'ho qui stassera chiamati a consiglio. Malagevole cosa è per me il combattere un pregiudizio oramai incallito nei vostri cervelli; nè io presumo[283] tanto dalla eloquenza mia, da tenermi sicura la vittoria. Ad operare sì grande rivolta d'idee, non che le mie deboli parole, insufficienti tornerebbero le miracolose gesta degli antichi profeti: tanto l'uomo è ritroso a salire anche d'un solo gradino la scala del progresso e della civiltà. Ma s'egli è pur necessario che alcuno vi dia la prima spinta, a ciò mi adoprerò col seguente discorso, nel quale, dopo avervi dimostrato che l'arte del canto è le più antica e la più nobile delle arti, e in qual pregio fosse tenuta e tengasi tuttora dalle nazioni più incivilite; vi proverò con argomenti incontrastabili come un cantante, pelle sue doti fisiche e morali, non possa a meno di riuscire un valoroso e comodo marito. (Tumulto nelle ultime file). Vi conforti però il pensiero, che, quando anche io riuscissi a modificare le vostre opinioni e a conciliarmi d'un tratto l'universale simpatia, mi asterrò dallo importunarvi con proposte di matrimonio; io soffocherò nel petto quelle dodici fiamme d'amore, che pur troppo vi divamparono dal giorno in cui il tacco del mio stivale si è posato per la prima volta su questo vulcanico suolo. (Movimento nelle prime file). Scoraggiato da molte ripulse, io feci voto di eterno celibato. (Sensazione). Domani lascierò per sempre queste ridenti spiaggie del Lemano, e simile ai nostri primi padri esulanti dall'Eden, io porterò meco l'amarezza nel cuore e le lagrime sulle ciglia. Ma se la giustizia della causa darà qualche efficacia alle mie parole, forse in luogo dello sprezzo e dell'odio, mi seguiranno i voti e il compianto di qualche anima convertita. (Tosse e starnuti). Un giorno... qualche mio confratello... peregrinando a queste terre, troverà presso di voi quell'accoglienza cortese che a me... fu negata. Allora non più le grazie si involeranno sdegnose ai baci ed agli amplessi d'un figlio d'Apollo, ma gli moveranno incontro con festevole gara, per aprirgli cortesemente i nascosti tesori della bellezza. (Agitazioni e contorsioni nelle prime file). Oh, in quel giorno... vi sovvenga per me una parola di benedizione... La vostra pietà, benchè tarda, sarà balsamo alle crudeli ferite[284] che oggi mi avete aperte nel cuore. (Breve pausa).
»Il canto è il linguaggio più naturale dell'uomo.
»Non mi sarebbe difficile il convincervi come i nostri primi padri si intendessero fra loro a forza di scale e di solfeggi, non altrimenti che le allodole ed i fringuelli. Ma quando, insieme cogli altri peccati, nacquero gli odii e le guerre fra gli uomini, la musica divenne impotente ad esprimere i nuovi bisogni e le nuove turpitudini: le note si urtarono disaccordi, e cessata ogni armonia dei cuori cessò di conseguenza anche la dolce armonia del linguaggio. Allora fu inventato l'alfabeto; allora convenne torcere le labbra e contrarre la bocca all'accozzo delle aspre consonanti, ed a forza di complicazioni e di bisticci gli uomini giunsero al punto di più non comprendersi fra loro. La molteplice varietà delle lingue dimostra evidentemente come esse nascessero dalla discordia e dal capriccio, piuttosto che da un naturale istinto dell'uomo, mentre alla musica è concesso tuttora il privilegio di essere compresa ugualmente da tutta la famiglia umana. L'Etiope, l'Ottentotto, il Mamalucco commovonsi al suono d'una melanconica canzone, non meno dell'elegante e colto Europeo. I più nobili e puri sentimenti dell'anima, le grandi gioie siccome i grandi dolori, meglio che con altro linguaggio si rivelano colle varie modulazioni delle note.—Col canto, le madri parlano ai loro bambini lattanti, col canto, il garzone innamorato sfoga le pene segrete sotto il balcone della sua ganza; e col canto voi pure, o nobili svizzeri, riusciste a stabilire una perfetta intelligenza fra voi e le vostre mandrie. (Applausi).
»Io non mi farò qui ad investigare chi abbia dettate le prime leggi musicali e ridotto a regola d'arte questo nobile istinto della creatura umana. Io so che presso tutti i popoli e in tutti i tempi, i cultori dell'armonia furono oggetto di venerazione e di culto. Gli Egizii eressero statue al celebre Eocri, il quale nelle feste di Osiride dominava colla sua voce baritonale un coro di ben settemila cantori. Io non vi parlerò di quel favoloso Orfeo, nè di quell'Anfione, che colla soavità del canto ridussero a civiltà gli[285] uomini e le pietre. E tacerò di Talete che colla musica guariva i Cretesi dalla peste, e di Peone che col canto è fama risanasse gl'infermi e i morti risuscitasse. I Greci e gli Spartani avevano in tanta stima i cultori di quest'arte divina, che Temistocle, forse per ciò solo che non sapeva cantare, fu assai meno stimato di Epaminonda.—La popolazione romana provò tanto dolore alla morte del cantante Tigellio, che i cittadini vestirono a lutto e si cosparsero di cenere come all'annunzio di pubblica calamità; il divino Alighieri non isdegnò celebrare nel suo poema il tenore Casella, della cui amicizia si tenne, mentre che visse, onorato.
»Ma che vado io rammentandovi queste viete istorie dei tempi andati? Volgete piuttosto gli sguardi alle regioni più incivilite della moderna Europa, e mirate a quale sublime altezza noi privilegiati figliuoli dell'armonia fummo dal pubblico buon senso e dalla pubblica riconoscenza elevati. A noi per unanime voto tributato il titolo di virtuosi; in noi concentrate le speranze ed i voti dei popoli; noi scopo di ogni conversazione ne' privati circoli, nei caffè, nelle piazze e nei corsi; noi arricchiti ed ingrassati dal plauso universale. Duemila e cento ventitre giornali si contendono il vanto di registrare i nostri trionfi ed i nostri raffreddori, e noi diamo di rimando l'alimento e la vita a tanti giornalisti, che ben si può dire la letteratura moderna vegeti e cresca irrigata dai nostri gorgheggi e dai nostri marenghi. Che più? A noi si dedicano biografie, a noi si innalzano busti e monumenti, a noi si gettano corone, a noi si decretano gli onori del trionfo. (Oh! Oh!). Dubitereste?—Si vede o Svizzeri innocenti, che voi siete rimasti ben addietro nel cammino della civiltà.—Io era presente... vidi io stesso lo spettacolo commovente: una carrozza tirata dai più reputati gentiluomini della città, i quali non isdegnarono logorare il molle guanto e curvare la schiena alla generosa fatica del cavallo... E sapete voi chi sedesse trionfalmente in quel cocchio? Poveri Svizzeri, voi noi crederete—un tenore! (Fischi, urli ed altre manifestazioni)...[286] Egli sedeva radiante di gloria, come Febo nel suo carro luminoso, e mentre i bipedi corsieri lo traevano nelle più popolate vie, e le dame dai balconi sventolavano i fazzoletti e gittavano fiori e ghirlande sul suo passaggio. A completare l'augusta cerimonia altro non mancò in quel giorno se non che il festeggiato cantante, afferrato uno scudiscio, lo esercitasse sulla groppa de' suoi fanatici ammiratori. (Applausi universali).
»Ma io sto per porgervi l'ultima e la più manifesta prova dell'alta considerazione in che noi siamo tenuti. Vi piaccia seguirmi col pensiero in uno dei principali caffè di Milano, voglio dire nel caffè Martini, sulla piazza del grande teatro della Scala.
»Tutto che vi ha nella Capitale Lombarda di gioventù nobile ed elegante, le individualità più notevoli.
Sia per titoli e blasoni
Sia per cedole e dobloni:
i lions più famigerati per imprese d'amore o per lusso, per splendidezza di vita, hanno quivi ritrovo.
«In quelle sale privilegiate non osi l'umile proletario introdurre il lezzo del suo vecchio paletot, nè l'equivoco colore de' suoi collaretti; e si astengono parimenti dal porre là dentro il piede gli stremati seguaci di Temi, gli avvocatuzzi senza clientela, gli impiegati alle strade di ferro, i ragionieri del Censo, i segretari delle case fallite, gli squattrinati studentelli di Brera, e simile genìa. Costoro vi si troverebbero a disagio, umiliati, annichiliti come irsuto cagnuzzo da vetturale che osasse accovacciarsi sui tappeti d'un aristocratico gabinetto fra due lindi cagnolini inglesi, puro sangue.—Noi soli, noi, augusti sacerdoti delle Muse; abbiamo il diritto di portare in quelle sale le nostre barbe di becco e le foggie cosmopolite della nostra toilette; noi sediamo su quelle scranne al volgo contese ed abbiamo l'onore di sorbire il caffè da quelle medesime tazze ove l'alta società milanese tuffa ogni giorno i profumati mustacchi.[287] (Sensazione). E si noti, a maggior orgoglio dei cultori dell'arte, che mentre questa eletta società dal blasone dai censi occupa il lato sinistro della sala, a noi venne riservata esclusivamente la parte destra—ben inteso, che la destra e la sinistra voglionsi determinare dalla posizione del proprietario, il quale tiene anche due libri maestri per registrare i debiti degli avventori—due libri, che messi a confronto, farebbero ragione dell'onestà e della buona fede prevalente negli artisti.
»Ma io credo aver accumulate sufficienti prove, onde trarre al mio partito anche le anime le più ritrose. Se il colèra, le guerre, le pesti e il mal delle viti non pongono ostacolo al rapido incivilimento del mondo, io prevedo che fra venti anni si rinnoveranno gli aurei tempi di cui più sopra vi ho parlato, e la musica sarà di bel nuovo il solo linguaggio degli uomini. Nelle nostre città d'Italia un tale miracolo si va di giorno in giorno operando. I fanciulli appena spoppati imparano le messe di voce ed i gruppetti; trillano nella culla, solfeggiano sui ginocchi della madre; e più tardi, nelle scuole cantano alla distesa l'abbecedario e la grammatica; e avventurati si dicono i parenti quando il loro figlio all'età di cinque anni sappia cantare tutta di seguito una cavatina. Nè i fanciulli soltanto, ma gli adulti di tutte le condizioni, di tutte le classi, trovano più comodo oggimai esercitare la laringe, piuttosto che le braccia e il cervello. Io non vi parlo de' calzolai, de' falegnami e dei sartori, che, gittata la lesina, la sega e l'ago, si dedicarono e riuscirono eccellenti nell'arte del canto. Persone di rango distinto, e che già occuparono luminose cariche, riconosciuta l'importanza dell'arte nostra, sfidando ogni difficoltà, ogni pericolo, a quella si dedicarono a corpo perduto. Gli avvocati disertarono il foro, i medici ripudiarono Esculapio, i poeti spezzarono la lira, e purchè riuscissero a trarre dalla gola un suono che assomigliasse alla voce umana, cercarono pei teatri applausi e denari, e giunsero a tanto colla magia delle note e più colle sterline guadagnate, da essere finalmente tenuti in conto d'uomini dabbene. (Tumulto e segni d'impazienza).
»Ma nei vostri volti, o gentili uditori, io veggo i segni manifesti della compunzione e del ravvedimento. Epperò con animo alquanto rassicurato io passerò ora a dimostrarvi come un cantante, pelle sue doti fisiche e morali, debba necessariamente riuscire ottimo marito; scabro e difficile assunto, dovendo io parlare ad un'assemblea di innocenti fanciulle, a cui non vogliono essere svelate certe misteriose leggi della natura (attenzione nelle prime file), sulle quali baserà l'intero edifizio delle mie argomentazioni.
»Pertanto, piuttosto che offendere, o donzelle, il vostro delicato pudore, io vi consiglio ad uscire dalla sala per pochi minuti, e allora, procedendo io con maggior libertà di parole, il trionfo della mia causa riuscirà più pronto e più completo. (Bisbiglio—Ciascuno rimane al proprio posto—Le donne raddoppiano d'attenzione).
»Quando l'abate Parini, in odio dei canori elefanti, dettava quella sua bellissima ode la musica, una legge stolta ed iniqua imponeva ai cantanti tali sacrifizi, che io mi meraviglio si trovassero uomini tanto virtuosi da assoggettarvisi. Certo, se io fossi vissuto in quell'epoca, nè l'amore dell'arte, nè le illusioni della gloria, nè la sacra fame dell'oro mi avrebbero indotto a seguire una carriera per la quale era forza immolare le due appendici più caratteristiche della virilità. (Applausi). Nè, se durassero quelle barbare costumanze, io vi consiglierei, o gentili donzelle, a prendervi per marito un cantante; troppo disaggradevole sorpresa vi attenderebbe sul talamo nuziale.
»Ma grazie alle invettive del Parini ed al ravvedimento dei popoli, i cantanti si trovano oggi in migliori condizioni; essi possono senza vergogna presentarsi nei campi di Imeneo, ed in quello hanno già date sì luminose prove di valore, che nelle città, nelle borgate, nei villaggi, dovunque infine passarono, lasciarono traccie gloriose, e riportarono onorevoli diplomi dalle dame, damine e damaccie che vollero assecondarne gli sforzi generosi. Oh, quante istorielle leggiadre, quanti bizzarri aneddoti mi si affollano alla mente che volentieri vi narrerei se non mi frenasse[289] il soverchio pudore! (segni di impazienza e di mal umore). Il mondo si prostri con venerazione a voi dinanzi, ed i secoli avvenire registrino a cifre d'oro i vostri nomi, o magnanime donne, che, dopo aver resistito alla magnetica attrazione dei marenghi, al fascino dei nomi gloriosi, alle eloquenti proteste di spasimanti adoratori, vi lasciaste finalmente sedurre da un gruppetto, da un trillo, da una ben vibrata appoggiatura! Voi non ignoravate come il canto e l'amore sulla terra nascessero gemelli, e come la sonorità della voce e il grande sviluppo della laringe sieno eccellente indizio di altre qualità organiche troppo desiderabili, troppo preziose in giovine marito. (Sensazione).
»Mi giovi, o Svizzeri, la vostra istessa esperienza. Avete mai osservato come, nel regno degli animali, quelli sieno più inclinati all'amore che più veemente sortirono lo istinto del canto?—L'usignuolo è il più fedele e il più romantico degli innamorati. Il merlo ed il passero solitario sono dai naturalisti citati come modelli di fedeltà coniugale; il gallo, che nè la notte nè il giorno si ristà dal cantare, è un tipo di galanteria e di operosità e d'altre virtù che ogni moglie desidererebbe nel proprio marito. E tu, sventuratissimo tra i quadrupedi, a cui la malvagità ha tolto insieme la libertà e l'onore, tu sì crudelmente compensato de' tuoi generosi sacrifizi, orecchiuto abitatore dei presepi: con quale potenza di note non assordi le campagne e le valli, allorquando il sole di maggio, scaldandoti le reni, ti sprona alle dolcezze dell'imeneo! (Interruzioni). Perdonatemi se io m'appello ad un animale.... tanto scaduto nella opinione pubblica; l'esempio non può venirmi più acconcio, perocchè nessun quadrupede spieghi una voce più sonora e più bella, ed al tempo istesso dimostri maggior vigoria nei trasporti della passione.
»Queste osservazioni che a prima giunta possono sembrare puerili non cessano di rappresentare altrettante verità indiscutibili. Epperò io leggo nelle istorie, i cantanti aver sempre ottenuto di preferenza i favori del bel sesso; nè Elena avrebbe sì di leggieri abbandonata[290] la casa di Menelao per seguire il mal capitato Trojano, se questi col suono della chitarra e con una canzonetta in re minore non l'avesse affascinata. E, senza ricorrere ai tempi favolosi, vi ricordi quel Davide Rizio, che venuto alla corte della sventurata Stuarda, a forza di cavatine giunse ad ottenerne i favori più intimi. Il troppo avventuroso cantore..... moriva assassinato; ma non mancarono nei secoli successivi, e forse anche ai tempi nostri non mancano altri Rizii, che incontrarono uguali fortune e men tragico fine.
»Le quali cose considerando da una parte, e vedendo dall'altra l'orrore, che molte fanciulle manifestano, alla idea di sposare un cantante; e ricordandomi che io mi trovo in un oscuro villaggio della Svizzera, sono costretto a sclamare: dove diavolo è venuta a cacciarsi l'aristocrazia! Io riderei, o fanciulle, della vostra vanità, se non mi assalisse in pari tempo la compassione del triste avvenire, che vi è riserbato. Se con tanto disprezzo rifiutate la mano di chi potrebbe farvi felici; quale sarà di grazia il mortale privilegiato a cui accorderete un tanto favore?
»Un banchiere?—Che nei momenti consacrati alle estasi voluttuose vi sussurrerà all'orecchio la regola del tre, e mentre crederete deliziarlo coi trasporti del vostro amore, penserà al rialzo o al ribasso dei fondi pubblici? (Indignazione).
»Un medico?—Che divenuto materialista a forza di studii anatomici e fisiologici, porterà sul talamo nuziale la gravità e la circospezione di chi si accinge ad una operazione chirurgica? (Ribrezzo).
»Un avvocato?—Che vi assorderà di prediche, di chiacchiere, di citazioni, di frammenti d'eloquenza nel momento in cui voi vi attenderete il linguaggio poetico dell'amore?
»Un poeta?—(Rumori diversi, ilarità). Dio ve ne guardi! I poeti sfogano il loro sentimento nelle elegie e nei sonetti: snervati dai lunghi delirii della imaginazione, non serbano alla moglie che tosse e sbadigli.
»A meno che non vogliate discendere nella classe[291] dei pizzicagnoli, dei droghieri, dei fornai, dei parrucchieri.....
»Ma i vostri desiderii non si curvano a sì bassa genìa. Il cuore di una fanciulla, che di poco abbia varcato i cinque lustri, è caldo di sentimento e di poesia. Esso rifugge dal lardo e dalle spezierie; ma gli è tutto olezzante di profumi, colorito di rose, vaporoso e splendente; tende a sollevarsi fra le nubi ed il sole.
»Oh! chi potrà realizzare i sogni dorati della vostra fantasia? Chi seconderà i desiderii prepotenti di un'anima, che dall'amore si ripromette sì forti gioie, sì inebbrianti voluttà?
»Il cantante..... il solo cantante può giungere a tanto. Egli, che essendo per legge fisica meglio di ogni altro disposto all'amore, è altresì pella sua posizione sociale in grado di assecondare tutte le esigenze, tutti i desiderii della più capricciosa fra le mogli.
»Amate i viaggi?—Un marito ordinario, per uno sforzo di compiacenza, vi conduce a Parigi od a Londra, accompagnandovi colla gravità d'un pedagogo, che il giovedì e la domenica meni a spasso l'allievo. Dopo quel viaggio, tornando al vostro paese, udrete la terribile condanna «di qui più non usciremo.» Un cantante all'incontro, al volger d'ogni anno, d'ogni stagione, mutando paese e clima, seco vi trae di mare in mare, di terra in terra, e vi gioconda di sempre variate sorprese. I vostri amori, languenti oggi sotto i geli del nord, si ravvivano domani e ritrovano l'antica energia riscaldati dal sole del tropico. Più animati si rinnovano gli amplessi ed i baci, oggi sotto un boschetto d'aranci, domani sotto i mirteti; oggi all'ombra dei tigli, domani fra le palme e l'olezzo degli aromi; oggi al canto degli usignuoli, domani fra l'urlo delle jene e le strida dei pappagalli; oggi sui muschiosi tappeti dell'Apennino, domani sulle ardenti sabbie del deserto.
»L'amore vive di illusioni. Perchè queste durino perenni anco nello stato coniugale, si richiede un tatto squisito, una raffinata perizia, di che pochi sono[292] dotati. Misero quel marito, che strappando le rose onde il talamo si adorna, squarciando con improvvide mani i veli, che ne adombrano i misteriosi recessi, prepara a sè medesimo ed alla propria compagna il disinganno e la sazietà! Fui per molti anni amico d'un egregio basso cantante, il quale ora nelle vicinanze di Ancona vive agiatissimo, godendo il frutto di onorate fatiche. Era non troppo bello della persona, ma elegante nei modi, d'indole modestissima; e, benchè uscito di bassa famiglia, modellandosi al contatto della buona società, e coltivando lo spirito con meditate letture, oltre al rendersi ammirato sulle scene come cantante, godeva in società tutte le simpatie che il mondo accorda agli uomini distinti. Ora avvenne, che cantando egli al teatro di Sinigaglia, la figliuola di un ricchissimo signore perdutamente se ne innamorò, e benchè non lo avesse mai veduto che in sulle scene sotto le spoglie del duca Alfonso di Ferrara, tanto si riscaldò in quell'amore, che giurò di ottenere il ricambio o morire disperata. Le occhiate, i sospiri, i sorrisi furono molti.—I due amanti si intesero a meraviglia.—Si cominciò col solito carteggio, co' soliti regalucci, colle solite promesse di fede inviolabile; finchè il padre della fanciulla, che era un fior di onest'uomo, accortosi della tresca, non si fece molto pregare a secondarla con valido matrimonio. Le nozze furono con insolita pompa celebrate.
»La città fu quella sera magnificamente illuminata, e l'orchestra del gran teatro sotto le finestre degli sposi novelli eseguì dodici pezzi di scelta musica.
»Frattanto che avviene negli intimi recessi delle stanze nuziali?
»Adagiata sulle coltrici profumate, leggiadra pegli adornamenti dell'arte e pei vezzi della natura, la giovinetta con impaziente desiderio attende l'ora della felicità suprema.....
»Ed ecco, le porte si spalancano; ed un uomo dal volto severo ad un tempo ed amoroso, dalle vesti splendide d'oro e di gemme, dall'incesso grave e dignitoso, si accosta alla giovinetta che trasalisce di sorpresa e di voluttà. Non è più lo stesso marito che[293] poche ore dianzi coll'obbligatorio soprabituzzo a coda di rondine e coll'indispensabile cappello a cilindro, la accompagnava alla chiesa: è il duca Alfonso di Ferrara, quale nella scena terza dell'atto primo apparisce a Lucrezia Borgia, meno la feroce ironia del sorriso e gli inumani desiderii di vendetta.
«Lo stratagemma riescì mirabilmente; quel travestimento bizzarro ridestò nella giovine sposa le ricordanze più care; ella balzò dalle piume, e gettossi con trasporto nelle braccia del duca. Le gioie dell'imeneo si alternarono per entrambi saporitissime, e sul talamo nuziale, che generalmente suol chiamarsi la tomba dell'amore, rinverdirono per essi le speranze e le illusioni di un avvenire felice. Nè quello fu l'ultimo travestimento onde il sagacissimo marito scosse le volubili fibre della sua donna; che anzi per molti anni continuando la lodevole costumanza, ogni sera, tornando dal teatro, a lei si presentava sotto nuovo costume. Enrico VIII, Carlo V, Filippo Visconti ed altri illustri fecero alla lor volta onorevole comparsa, ed ottennero le stesse carezze, l'istessa cortesia che al duca di Ferrara erano state prodigate. E quando la fortunatissima donna, desiderando più lieti amori, si mostrò noiata di quei severi personaggi, il brillantissimo Figaro colla chitarra al collo e il dottor Dulcamara colla sua boccetta di elisir la solleticarono di novelle sorprese. (Risa ironiche nei banchi dei mariti). Io era preparato a quelle vostre risa di scherno, o grossolani e volgari mariti. Voi non potete apprezzare al giusto valore gli ingegnosi ritrovati del cantante anconetano; voi, che forse nel giorno delle nozze osaste comparire innanzi alla sposa con un paio di mutande scucite, e una grossa flanella di cotone sulla zucca. (Indignazione). Oh! il berretto di cotone! Conosco molte dame rispettabili, che sdegnate e prese da ribrezzo in mirare questo accessorio della toilette maritale, all'indomani delle nozze furono spinte a chiedere il divorzio. (Applausi nelle prime file).
«Restami ora a dire—e sarà l'ultima parte, forse la più efficace di questo mio lungo sermone—restami[294] a dire, amabilissime figliuole, di quelle avvantaggiose combinazioni, per cui la moglie di un cantante può meglio di altra donna qualsiasi... coronare la felicità del suo compagno indivisibile.
»Ispiratemi, o caste suore dell'Elicona! Fate che io ritrovi una perifrasi pudica, onde esprimere il peccaminoso concetto!—Eppure avvi fanciulla ben educata—parlo di quelle, che ebbero la fortuna di entrare in collegio fino dalla più tenera età, e di collaborare con un centinaio di amiche innocenti alla risoluzione dei più simpatici problemi della natura—avvi fanciulla, che, qualche volta, non abbia vagheggiato l'imeneo siccome una condizione d'indipendenza sociale, e sospirato un marito, siccome una etichetta legittima per far passare la merce di contrabbando? Certo è che al vostro orecchio infantile, prima della parola matrimonio, suonò l'adulterio nei santi precetti del decalogo, e all'età di sette anni quella oscena parola fu proferita da voi senza rossore, fino al giorno in cui la direttrice, o la maestra, o il catichista del collegio, o qualcuna delle vostre amiche più intime, vi fecero comprendere con pietose reticenze il segreto di quel precetto divino. Le oneste fanciulle cominciano ordinariamente la loro educazione sentimentale su qualche pagina del Manuale di Filotea, ovvero del catechismo. Gran ventura pei mariti, che in grazia del decalogo, voi apprendiate a conoscere le illegalità prima degli obblighi conjugali! Io vi assolvo col labbro e col cuore, amabilissime figliuole! La colpa non è vostra, se nell'età delle illusioni e dei desiderii, prima dei vincoli, voi vagheggiaste le risorse illegittime del matrimonio! Un marito è per voi il primo uomo, che deve emanciparvi dalla soggezione dei parenti, e presentarvi a tutto il genere umano, guarentite da ogni pericolo.—(Sensazione nelle prime file). Io comprendo dalla vostra irrequietezza e dal vostro rossore, o intelligenti, non meno che avvenenti figliuole, che voi mi avete compreso perfettamente. Vi parlo da scapolo, da giovine spensierato; vi parlo come colui, che nell'ultimo disinganno delle vostre repulse, fino da oggi[295] a mezzogiorno rinunziava a qualunque aspirazione di vita coniugale. Certo, s'io serbassi ancora qualche speranza o desiderio legittimo—non sarei tanto stolto da prevenire le vostre anime, forse innocentissime, cogli adescamenti della colpa.... Conosco dei poeti.... dei romanzieri, degli autori di commedie, i quali, per avere nei loro scritti giovanili insegnata alle donne la strategia dei capricci amorosi, e raccomandata la infedeltà coniugale quasi un obbligo di galanteria, più tardi, per opera di una moglie intelligente, sentirono spuntare sulla testa il mal albero seminato.
»Posto dunque che l'istinto e l'educazione vi portino, o sensibili fanciulle, a diffidare della vostra fermezza, antiveggendo le difficoltà di una fede quasi ripugnante alle leggi stesse della natura—non vi pare egli ottimo consiglio, dovendo legarvi ad un uomo per tutta la vita, badare che esso non sia in tal posizione da esercitare su voi una sorveglianza perenne, e da chiudervi ogni adito a quelle divagazioni o variazioni, che tanto desideraste nei sogni dell'età prima?
»Accorte, direte voi, e previdenti sono le fanciulle, che volonterose si legano ad uomo un po' sordo, un po' miope, e mediocremente imbecille.—Badate: la sordità, e la miopia sono indizio di debilitazione generale nel sistema nervoso—e un marito, debilitato in anticipazione, non conviene per verun titolo a giovine donna. E sono altresì i sordi ed i miopi per loro natura ombrosi, diffidenti e tenaci; però non cessano dal sorvegliare, e irrequieti brontolano, e tormentano la loro compagna, prima ancora che essa abbia dato motivo a sospetto legittimo. D'altronde non è molto aggradevole il convivere con persone tanto compromesse nei sensi—e poichè il marito bisogna ad ogni costo subirlo per tutta la vita, sta bene che egli sia in grado di intrattenere la sua compagna aggradevolmente, quando altri non occupi il suo posto.—No: un miope ed un sordo non farebbero al caso vostro, mie belle figliuole—nè io voglio farvi il torto di credere che a voi manchi[296] quello spirito tanto comune alle mogli, di farla sugli occhi al più chiaroveggente dei mariti (applausi nelle prime file). E tanto meno vorrei affidarvi ad un imbecille—essendo oggimai riconosciuto che gli uomini più eminenti per ingegno, più versati nella diplomazia, nelle scienze, nelle lettere, nelle arti, prima che dalla patria renitente, ebbero dalla moglie una corona non richiesta, e per essa una celebrità non invidiata. È ben vero che alla moglie di un imbecille il mondo perdona facilmente qualche distrazione illegittima, quasi sempre involontaria... Si ride, e si compatisce.... «È tanto stupido quel marito!.... È tanto brillante quella donna!... Ella avrebbe torto di esser onesta!» Così parla il mondo, ed assolve. Ma più spesso nei circoli galanti ho udito dire a cert'uni: «Quella povera signora.... è ben infelice di aver un marito scienziato!... Tutto assorto ne' suoi studii, preoccupato de' suoi piani politici, delle sue scoperte, de' suoi lavori letterarii, colla soverchia attività della mente, egli si è inaridito il cuore. Una donna sana e robusta può ben rispettare un marito sfibrato dalla meditazione; ma è però necessità che ella cerchi d'altra parte qualche scossa più energica!.. Ella ha ragione di dire che nel marito adora lo spirito, ma nei cinque o sei dragoni che la corteggiano, rende omaggio alle forme più elette della materia.» (Entusiasmo nelle prime file—sospiri per parte delle donne vecchie). Credetelo, figliuole mie, una donna intelligente trova sempre un mezzo termine per coonestare in faccia alla società elevata tutti i capricci dello istinto.
»Importa innanzi tutto—ed è appunto di ciò che io voglio a preferenza intrattenervi, per l'utile vostro—che il marito non sappia mai, e che la società sappia il meno possibile, in modo che voi abbiate sempre dei validi argomenti a protestare contro l'evidenza dei fatti.
»Ed eccoci al passo dove io voleva condurvi. Quando io vi abbia dimostrato che il solo cantante, per la sua posizione sociale, per gli obblighi inerenti alla sua professione, e per le condiscendenze obbligatorie[297] imposte dall'arte, in date circostanze, non può nè vedere, nè udire, nè vietare, nè sorprendere, nè adirarsi, nè fare scandali, nè promuovere inchieste... allora voi dovrete convenire—e sarà l'ultimo e il più solenne trionfo della mia eloquenza—che il cantante, sia desso baritono o tenore, buffo o basso profondo, è senza alcun dubbio, il più comodo dei mariti. (Attenzione).
»Io voglio concedere—nè potrei oppormi alla evidenza dei fatti—io voglio concedere, che il progresso della civiltà abbia di molto avvantaggiata, a' giorni nostri, la condizione di quelle povere vittime del dispotismo mascolino, che si chiamano le mogli—perocchè alla grande categoria de' mariti comodi, quella pure si annette dei mariti tolleranti, compiacenti, o consenzienti, o contenti—le quali categorie potrebbonsi ancora suddividere in gradazioni variantissime ed infinite.
»Io non voglio farvi il torto, amabilissime figliuole, di calunniare la vostra ingenuità fino a sospettare che, nei vostri sogni di indipendenza conjugale, abbiate mai vagheggiato uno sposo tollerante o consenziente. Il desiderio istintivo del piacere non può escludere ogni senso di amor proprio in cuore di fanciulla ben conformata ed onestamente educata.
»Voi aspirate alla libertà, ma questa parrebbe a voi frutto insipido ed acre, qualora il Dio tiranno del vostro paradiso domestico non ve ne imponesse il divieto. Se una mela vi cascasse nel grembo, se una rosa si sfogliasse sul vostro capo, quel frutto, quel fiore non avrebbero pregio per voi.
»L'ostacolo di una siepe, il terrore del guardaboschi, la puntura d'uno spino—ecco gli allettamenti, gli stimoli, che abbelliscono il peccato. Voi altre donne somigliate a quegli inveterati cospiratori, i quali non possono vivere in libero paese, dove appunto la libertà toglie loro ogni pretesto di cospirazione. E d'altronde non bisogna dimenticare, come, nello stato, conjugale, una donna non debba mai rinunziare alla più nobile e dilettevole delle sue prerogative, quella di tormentare il marito e tiranneggiarlo a sua volta[298] colle smanie vere o simulate dalla gelosia.—Le quali smanie, oltre ad essere un mezzo efficacissimo per rompere la monotonia di una esistenza uniforme, possono anche divenire eccellente stratagemma a conquistare un braccialetto, una mantiglia, un abbonamento ed un palco in teatro, un nuovo equipaggio, un congedo illimitato pei bagni di acqua salsa, (Sensazione). Escludiamo dunque i mariti tolleranti e consenzienti e contenti—perocchè a ben esaminarli, essi non sono tanto comodi, quali vorrebbero apparire—e vediamo all'incontro di fare una buona scelta fra questi ultimi.
»Un impiegato! direte voi—un impiegato a stipendio fisso!.... Io rendo omaggio alla vostra perspicacia, al vostro istintivo buon senso, perocchè avete colto fra i migliori. Un impiegato, che tutti i giorni, tranne la domenica, esce di casa alle nove del mattino per non tornare che alle quattro od alle cinque pomeridiane, può fornire delle occasioni molto propizie ad una moglie intelligente ed attiva. Otto ore di libertà sulle ventiquattro della giornata! La prospettiva è abbastanza seducente, per una giovane donna, che desideri e sappia, alla sua volta, impiegarsi. Però non ho mai fatto le meraviglie in vedere molte fanciulle di condizione civile ed onestamente allevate, rifiutare le profferte di un commerciante abbastanza avventuroso, ovvero di un'artista che lavori in casa, per unirsi ad un modesto impiegato da tre o quattro lire al giorno, i cui probabili avanzamenti promettono ad epoca incerta un reddito di lire cinquemila. Ed è assai significante nella sua ingenuità, la frase ripetuta in tali casi dalle giovani fanciulle: «Mio marito colle funzioni pubbliche, ed io, in casa, co' miei lavori privati, guadagneremo di che vivere con decoro.» Infatti, veggonsi parecchie mogli di impiegati a tre lire, trascinare maestosamente il velluto e la seta sui baluardi, e competere colle grandi dame nel lusso e nella manìa dei divertimenti. Ciò prova, che i lavori privati di una saggia moglie, possono costituire una rendita non dispregevole ad un marito, che sia puntuale all'impiego, e non esca mai dall'uffizio ad ora[299] indebita.—Ma qui sta il guaio, figliuole mie amatissime.—Io non vi farò notare, come il mondo facilmente inchini a mormorare del lusso e della vita comoda di un funzionario ammogliato.—Nè accennerò alle esigenze dei capi di uffizio, tiranni della peggior specie, i quali vorrebbero far scontare alle moglie, tutti i riguardi di indulgenza, usati verso i loro subalterni, ponendo le misere donne fra le alternative della destituzione o della denunzia!.... No, sulla terra non avvi animale più lubrico e più schifoso di un capo di uffizio, e le grandi, improvvise calamità, che ogni giorno sopravvengono nelle famiglie degli impiegati, sono ad essi specialmente devolute.—Una donna, una moglie perspicace e prudente, sa che il marito deve rimanere all'uffizio fino alle quattro pomeridiane.—Ella prende le sue misure—regola il pendolo a tempo medio—manda a spasso la serva col piccino—predispone la scena onde tutto si passi col massimo ordine.... Queste precauzioni, rigorosamente osservate nei primi mesi, a poco a poco si allentano.... La buona riuscita genera la sicurezza, e da questa una improvvida negligenza.—Si cessa dal montare il pendolo, le sfere si arrestano ed il tempo corre veloce.—E dopo tutto, il marito impiegato, che non è un pendolo, un bel giorno infrange la disciplina.... e viene difilato alla propria abitazione, trova la porta chiusa.... scuote il campanello.... batte.... riesce ad aprire.... e non trova.... Meno male quando non trova la moglie!.... Ma tali casi sono i meno frequenti, avvenendo più spesso che la moglie si trovi in casa.... e troppo bene accompagnata!..... (Applausi).
»Tale è la catastrofe ordinaria di due conjugi pubblicamente e privatamente impiegati—ma questa catastrofe è piuttosto una necessità, che un pericolo della situazione.—Perocchè, quando una volta abbiate ammesso che l'impiegato il più rigido, il più zelante degli impiegati, l'impiegato modello, e l'impiegato bue, l'impiegato macchina, possano avere un lucido intervallo di insubordinazione, e sentire, qualche rara volta, nel corso della vita, i bisogni e gli[300] stimoli animali—ecco una povera moglie eternamente minacciata dal pericolo, ed anzi, più che le altre donne, esposta a quei disastri della vita conjugale, tanto più crudeli alla sensibile natura della donna, quanto meno calcolati e temuti.
»Oh! che dunque? Sclamate voi—in qual classe andremo a trovare il marito che ci guarentisca da ogni sorpresa disaggradevole? Se un impiegato può lasciare quando che sia l'uffizio, contro la volontà od anche per comando del suo capo, ognun vede che anche lo speziale, il medico, l'avvocato, l'ingegnere, il pittore, il commerciante, più indipendenti e più liberi nell'esercizio delle loro professioni, non forniscono alla donna veruna guarentigia di sicurezza domestica.
»La vostra osservazione non potrebb'essere più logica, o argute figliuole dei monti—ed io mi compiaccio di vedermi prevenuto, perocchè la vostra perspicacia mi dispensa da una lunga rassegna di arti e mestieri. E non vorrei che un maligno genio vi suggerisse il ripiego di appigliarvi ad un guerriero, ad un marinaio, o ad altri, che, per necessità di professione, sia costretto a lunghe assenze dal tetto coniugale; perocchè la lunga assenza del marito costituisce un pericolo assai grave, per le mogli che si rispettano, ed io non vorrei che la vostra onoratezza e la tranquillità vostra menomamente soffrissero. Non chiedetemi spiegazioni in argomento sì delicato.—Scrutate le ragioni più intime che vi muovono a desiderare lo stato coniugale; ripensate i vostri bei sogni del collegio, le speranze, i desiderii, i trasporti delle ardenti vigilie. Nelle preghiere del mattino e del vespero voi chiedeste un marito, come l'iniziatore di un'êra novella, nella quale si concretassero per voi tutte le astrazioni di mille esseri idoleggiati. Un esercito di Arturi, di Adolfi, di Ernesti—e ponete pure i nomi più sonanti del repertorio romantico—passava in rassegna nella vostra fantasia giovanile; ma sempre all'avanguardia marciava un Bartolomeo od un Pasquale in abito da nozze. Figliuole mie: il marito Bartolomeo non rappresenta l'ostacolo, sibbene[301] la salvaguardia. Guai tre volte s'egli prolungasse di oltre un mese la sua assenza dal tetto coniugale!
»Il marinaio che ha veleggiato in lontane regioni—il guerriero, che torna da lunga guerra—prima di riabbracciare le mogli, fanno i loro conti sull'almanacco... e qualche volta, per un calcolo puerile di date, sì feroci divengono, da ripudiare ciò che l'uomo ha di più caro, di più sacro in sulla terra—una prole, che aspira a legittimarsi. (Sensazione).
»Voi mi avete compreso, ed io comprendo alla mia volta in quale caos di perplessità e di timori si smarrisca la vostra coscienza. Voi nuotate fra le tenebre—è tempo che io vi indichi la luce, e vi sollevi nella barca di salvezza!.... Oh sì! venite fra le mie braccia.... (Movimento nelle prime file). Che dico?... No! non è a me, che voi dovete rivolgervi, o amabilissime e sensibilissime figliuole! La causa che io difendo non è la mia, ma quella di tutta una casta indegnamente oltraggiata dal pregiudizio! Però, se quanto vi ho esposto nella prima e seconda parte del mio sermone, sulla nobiltà dell'artista di canto, e sulle sue speciali attitudini alla vita coniugale, non basta ancora per vincere le vostre ritrosie; voi non potrete resistere alle seduzioni della mia eloquenza, quando io vi abbia rappresentata la moglie del cantante nel libero esercizio della sua indipendenza morale.... e positiva. (Attenzione).
»È tenore? è baritono?—Non importa il registro della voce.—Ciò che vi ha di interessante per voi gli è che vostro marito questa sera deve cantare in teatro.—I cartelli furono affissi—nulla è sopravvenuto nel corso della giornata, perchè l'impresario abbia a mutare lo spettacolo—la rappresentazione è accertata... immancabile.—Per maggior sicurezza, voi date di braccio al consorte per accompagnarlo sul campo de' suoi trionfi... Non vi basta?... Entrate con lui nel camerino, la aiutate a spogliarsi dell'abito borghese, gli aggiustate le maglie alla gamba, lo serrate ben bene nella armatura di ferro..... Non basta ancora?.... gli date la patina al viso, il sughero alle ciglia: gli accollate alle guancie una lanugine da[302] caprone, lo deformate di una orribile parrucca.—Frattanto, nell'orchestra gli istrumenti cominciano ad accordarsi..... i lumi spuntano alla ribalta, il direttore di scena dà il segnale dell'attacco..... Vostro marito cessa, per quattro ore, quanto dura la rappresentazione, di essere vostro marito..... Inesorabilmente, inappellabilmente egli appartiene alla massa del pubblico.... Comprendete voi, o fanciulle, ciò che vi ha di assoluto, di fatale, in cotesta condanna: appartenere al pubblico?.... (Sensazione). Il fuoco dei vostri sguardi, il vostro furbesco sorriso mi dispensano, o simpatiche ascoltatrici, dallo indicarvi come voi, divenute spose all'ideale più perfetto dei mariti, abbiate a profittare di queste quattro o cinque ore che incatenano al teatro l'eletto del vostro cuore.—Io conobbi a Milano una gentile ed avvenente signorina, la quale, essendo moglie ad un egregio tenore scritturato alla Scala, soleva uscire dal teatro, ove questi prendesse parte ad una rappresentazione; e affermando non poter assistere, per eccessiva irritabilità dei nervi e per soverchianza di affetto coniugale, ai pubblici cimenti dell'artista marito, trascorreva buona metà della notte nel proprio appartamento, in compagnia di uno o più dilettanti che meglio le gradivano. (Mormorio di approvazione).
»Ma oramai, troppo io credo aver detto su tale argomento—e voi troppo intendeste.
»Se più oltre procedessi, sarebbe a temersi che la mia perorazione venisse accolta da un mormorio sinistro.
»Io vi ho presentato un vero ideale; vi ho fornito, in certa guisa, il ritratto fisico e morale di un marito modello: ve ne ho delineati i contorni e sviscerate le parti più riposte e imperscrutabili; non sarebbe stoltezza la mia se insistessi nell'apprendervi le arti e gli stratagemmi per trarre da un tal marito il maggior profitto possibile?—Afferratelo! ecco ciò che preme.—Una volta che egli sia agguantato da voi, ne farete ciò che tutte le donne sanno fare tanto pulitamente e con tanta sapienza dei loro mariti.
»Ed ora, già presso a dipartirmi da voi, in questo[303] grave e difficile momento della separazione—un fiero dubbio, che somiglia ad un presentimento, mi assalisce, e mi turba fino a strozzarmi la voce...
»Avete voi un teatro, a Nyon? Ecco la domanda... (Mormorio lugubre e prolungato). Avete voi un teatro?... una sala qualunque dove si possa erigere un palco scenico e far rappresentare un'operetta qualunque? (Voci: No! no!)
»La è appunto la risposta che io mi aspettava. Voi non avete un teatro—da voi non si può in veruna maniera far rappresentare un opera in musica—la è dunque difficile cosa, quasi impossibile, che a Nyon approdino mai dei cantanti... (Sensazione, tumulto nella prima fila.—La voce dell'oratore è interrotta).
»Quale sarà dunque, o fanciulle sventurate, quale il vostro avvenire?... Faccia il Dio Amore che il mio vaticinio vada perduto—Il vostro avvenire....
»Così belle!... così giovani!... così fresche!... così bianche!... così morbide!... Divenir mogli di qualche capraro o fabbricatore di formaggi... di qualche ricco e brutale rivenditore di bottoni e di fibbie.... di qualche ripulitore di fucili o di orologi a cilindro—ovvero—ciò che sarebbe ancora più orribile—chiamarvi eternamente le vergini di Nyon!... (Oh! oh! grida, singulti).
»Signore, signorine: io ho lanciato il gran verbo dell'avvenire; ed ora non mi resta che ritirarmi, augurandovi tutto quel bene, che meritate e che io vi ho coi più vivaci colori rappresentato e dipinto.» (Applausi prolungati—l'oratore scende dalla tribuna, ed esce rapidamente dalla sala per sottrarsi ad ogni dimostrazione).
VIII.
All'indomani, prima ancora che l'alba spuntasse, io partiva infatti da Nyon, scortato fino all'uffizio delle Messaggerie dall'amico Francesco, il quale mi supplicava di rimanere, giurandomi che il mio discorso mi avrebbe procurato tante amanti quante[304] erano le fanciulle del paese. Io stetti fermo nel mio proposito—e presi posto nel coupè fra un vecchio fumista ed una Suora della Carità che dovevano recarsi a Lione.
Ma al momento in cui la Diligenza stava per partire, io accennai all'amico di avvicinarsi, e ponendogli in mano una lettera suggellata: qui dentro c'è il segreto della tua fortuna, gli dissi. Mi prometti che non aprirai questa lettera prima che un mese sia passato?...
—Te lo prometto... sebbene... a dir vero... trattandosi del mio avvenire... della mia fortuna...
Il postiglione sferzò i cavalli e la Diligenza si mosse.
Mi alzai da sedere e volsi indietro lo sguardo. Il povero Francesco era ancora là, impietrito, sulla porta delle Messaggerie e mi salutava colla mano, mentre coll'occhio guardava fissamente la lettera misteriosa.
Fu egli fedele alla promessa? Debbo io credere che egli abbia lasciato passare tutta una lunga mesata (e dico lunga, perchè la curiosità e l'impazienza correggono prodigiosamente la velocità delle ore) senza disuggellare il mio piego?...
Fatto è che un mese dopo, proprio un mese dopo, io riceveva da Nyon la lettera seguente:
«Mio nume e profeta,
»Ho finalmente aperto—oggi soltanto, te lo giuro—il plico fatale, che mi gettasti nella mano il giorno della tua partenza da Nyon.
»Ho letto la tua profezia—l'ho letta nel momento istesso in cui essa riceveva dai fatti la più completa, la più solenne, la più luminosa conferma.
»Questa mattina, il Consiglio comunale di Nyon ha votato una prima somma di L. 400,000 per la erezione di un teatro, ed io venni eletto e nominato, per acclamazione, direttore intellettuale e impresario per dieci anni degli spettacoli che qui si daranno.
»Tutto ciò è dovuto alla tua eloquenza;... alla profonda sensazione che qui ha lasciato il tuo discorso....
»All'indomani della tua partenza da Nyon, una delle dodici vergini fu estratta cadavere dalle onde... Nelle tasche di quel cadavere, come diceva il decroteur della piazza, fu rinvenuto un foglio sul quale era scritto: muoio perchè dispero di poter mai sposarmi ad un uomo di mio genio....
»Un'altra delle vergini tentò, pochi giorni dopo, strangolarsi con una corda da contrabasso, dopo aver scritto sul muro della sua camera da letto: vittima di un ideale impossibile....
»Sopprimo altri episodii lugubri, per non recarti troppo grave dolore.
»La tristezza, la desolazione regnò nel paese per due settimane. Le fanciulle non uscivano di casa.... I padri ed i tutori apparivano costernati, e si guatavano torvamente, come a rimproverarsi che l'uno non indovinasse l'idea dell'altro, e non prendesse l'iniziativa di esprimerla.
»Ma l'idea, la grande idea, seminata e maturata da tanti sospiri e lacrime di fanciulle—si è tradotta, come già ti dissi, in fatto compiuto—la città di Nyon avrà ben tosto un teatro.
»Questa notizia ha ravvivato la città.—Le ragazze sono ricomparse in sulla spianata presso il lago, coi loro abiti bianchi... E non puoi credere la festa che si danno al solo pensiero che fra dieci o dodici mesi, io condurrò a Nyon una compagnia di cantanti per inaugurare il nuovo teatro.
»Altro non ti dico per oggi, e mi riservo, a giovarmi de' tuoi consigli allorquando si tratterà di formare la compagnia.
Il tuo
Francesco. »
E a me non resta che far notare a miei lettori una cosa già da altri avvertita più volte—ed è: che dietro tutti gli avvenimenti grandi e minimi, che occorrono sotto la cappa del mondo, sieno lotte di imperii o risse di monelli, sieno trafori di montagne o[306] erezioni di campanili, sieno decreti di parlamenti o leggi di municipii, dietro tutti gli avvenimenti umani, ripeto, sta quella leva potentissima e iniziatrice del moto universale, alla quale i poeti danno il nome di amore—e che è, per noi altri materialisti, l'attrazione irresistibile dei sessi.
E siccome la donna fu ognora, ed è, e sarà in ogni tempo sovrana, maestra e direttrice dei godimenti sensuali che avvivano e spingono ad agire la razza umana; così in ogni operazione di individui o di masse congregate si scorgerà sempre, a chi ben consideri, la mano nervosa, elettrica, agitatrice della donna.
Dopo una considerazione così profonda, che alla più parte dei miei lettori non parrà nuova, chiuderò, col porgere ad essi la notizia che la piccola città di Nyon possiede al giorno d'oggi un bello ed elegantissimo teatro—dove ogni anno, nel mese di settembre, si dà un corso di rappresentazioni di opere in musica.—I cantanti, cui toccò la fortuna divenire scritturati per quella città, hanno quivi sposato—posso giurarvelo—delle belle e ricche figliuole. E non vi parlo del tenore Tartini, che a Nyon s'è preso in moglie una giovine ereditiera, la quale gli portò in dote un milione.
La marchesa non parve adontarsi del mio epigramma—crollò leggermente la testa, e volgendomi un sorriso di compassione:
»Ragazzo!—mi disse—tu non comprendi per nulla il cuore della donna!... Iddio ti guardi dal prender moglie! diverresti troppo infelice o troppo ridicolo!»
Io mi accorsi che quella risposta era l'esordio di una confessione generale.
Discostai la lucerna, eclissandola dietro l'enorme mazzo di camelie che stava sulla tavola—e la voce della attempata peccatrice parve sciogliersi più liberamente:
»Sarò sincera con te—ti dirò tutto, onde non abbi più nulla a domandarmi od a rimproverarmi in avvenire.... Il Signore ha perdonato alla donna per aver molto amato; e i preti spingono la loro indulgenza fino ad assolvere i peccati di poco amore, purchè il colpevole si confessi con sincerità.
»Le mie debolezze—o colpe, che ti piaccia chiamarle—furono molte. Io non accuso i miei conoscenti ed amici di averle esagerate. Perocchè se io non ebbi mai l'accortezza di nasconderle quando l'occhio maligno dalla società spiava tutti i passi, per non dire tutti i pensieri della mia giovinezza—a che varrebbe ora lo smentirle o l'attenuarle?....
»Il mondo però mi ha calunniata iniquamente, attribuendo[308] a volgare istinto di sensualità certe abberrazioni istantanee, le quali, per quanto variate e molteplici fossero, ebbero nondimeno una origine comune: il più puro, il più nobile, il più costante degli affetti!
»Tutta la mia storia potrebbe riepilogarsi in questo solo motto: ho peccato con molti per aver troppo amato un solo uomo.
»Ho impiegato la mia vita, come una antica sacerdotessa di Vesta, a custodire la sacra fiamma del primo amore. E ci sono riuscita!... Quand'anche la mia giovinezza, oramai spenta, avesse per incanto a rianimarsi e a prolungarsi rigogliosa fino alla consumazione dei secoli, io non amerei che lui.... non potrei amare che lui.... lui solo....
—Il fu marchese vostro marito?... domandai sorridendo.
—Oltraggerei la memoria di quel degno e rispettabile compagno della mia giovinezza—rispose gravemente la marchesa—se affermassi di averlo amato... d'amore. Mio marito fu il primo prodotto di quella sublime passione, che non avendo potuto esaurirsi nell'essere adorato, corse dietro per tanti anni ai fantasmi di una dolce reminiscenza....
»Perchè tu mi possa comprendere, è d'uopo che risalga al principio...
»Evochiamo l'angelo della rivelazione, il Prometeo della luce, il Dio agitatore di tutta la mia vita!...
»Crederesti?... nel profferire il nome di Adolfo, io risento una commozione sì viva, che mi sembra, come l'antica fata Morgana, uscire ringiovanita dalla vasca miracolosa.
»Egli dunque si chiamava Adolfo....
»Io lo vidi per la prima volta nel giardino della nostra villeggiatura di Medolago. Figurati una sera di maggio, fresca, olezzante e tranquilla come il mio cuore di sedici anni... Sì! compievo appunto i sedici anni la sera in cui mio cugino Adolfo mi fu presentato.
»Un bel giovane, di media statura, bruno di capelli—presso a poco i tuoi capelli, Eugenio; più crespi[309] più vigorosi, direi quasi fiammeggianti di giovinezza....
»Ma che giovano le descrizioni? La bellezza giovanile ha dei segreti che la parola non può rilevare, nè la tela riprodurre...
»Fra Adolfo e me corse un'occhiata fuggitiva—due correnti elettriche si stabilirono fra i nostri giovani cuori.—Adolfo arrossì—io tremai—ci ricambiammo i complimenti della presentazione con voce fioca e convulsa....
»Mia madre disse:—Eccoti, Ortensia, un egregio dilettante di flauto, che verrà, noi vogliamo sperarlo, a deliziare qualche volta il nostro soggiorno campestre!
»Sarò ben felice, rispose Adolfo senza guardarmi in volto, di fare un poco di musica con voi, amabile cugina... Tutti vi dichiarano prodigiosa al pianoforte... Suoneremo dei duetti!...
»Io risposi con un'occhiata affermativa e un inchino da collegiale... Poi, per nascondere la mia viva agitazione, mi allontanai da Adolfo e da mia madre, facendomi a percorrere tutta sola i viali del parco...
»Quella notte non potei prender sonno... La bruna capigliatura di Adolfo, il suo sguardo di fuoco, il bianco e profumato sorriso, la voce insinuante, magnetica—tutto si rifletteva, come una iride voluttuosa, nel vivo cristallo della mia vergine fantasia...
»Io lo vedeva... io gli parlava come ad un amico lungamente aspettato...
»Al biancheggiare del mattino, dopo i lunghi affannosi vaneggiamenti, le mie ciglia si chiusero al sonno—ma l'anima vegliava tuttavia, nelle dolci illusioni di una musica celeste.
»Erano le note di un flauto lontano—era il canto misterioso dell'amore—era la risposta di un'anima sorella, che poche ore innanzi si era identificata colla mia... Nel sonno le mie membra si cullavano dolcemente, secondando le voluttuose cadenze... Ebbrezza salutare dei sogni! Qualche volta non sei che un riflesso, una larva sbiadita dei gaudi trascorsi.... Per me, giovinetta inesperta della vita, fosti una rivelazione di ignote delizie!...
»Eugenio, cominci tu a comprendere per quale associazione di idee voluttuose e sublimi, il flauto abbia potuto esercitare tanto fascino su tutta la mia vita?...
»I miei rapporti con Adolfo—rapporti brevi pur troppo, ma esuberanti di ogni dolcezza—non furono che un duetto di flauto e pianoforte, deliziosamente prolungato nella vicenda di interruzioni e riprese gradevolissime.
»Quel duetto cominciò all'indomani della presentazione. Adolfo, come aveva promesso, mi portò una raccolta di composizioni musicali per flauto e pianoforte, che noi prendemmo a studiare in presenza di mia madre...
»I concerti divennero quotidiani; l'arte e la passione progredirono del pari—mia madre si compiaceva, e batteva le mani, e si entusiasmava del nostro accordo perfetto...
»Così trascorrevano i giorni, le settimane, i mesi. Nè mai fra Adolfo e me ci eravamo scambiati una parola, una lettera, una stretta di mano, che equivalesse ad una franca dichiarazione. Noi ci intendavamo colla scelta dei pezzi, cogli accenti della esecuzione, col capriccio delle varianti, coll'arbitrio dei crescendo e dei rallentando, colla foga e la significante rilassatezza dei tempi...
»Qualche rara volta—per accidente—la estremità del flauto aveva sfiorato leggermente la mia spalla—il mio gomito, nelle volate ascendenti sulla tastiera, toccava... e trasaliva al contatto dell'istromento... Queste eventualità del concerto erano un eccitamento fortunato, e da esse la musica ritraeva maggior nerbo. Le fibre irritate galvanizzavano il cembalo—la voce del flauto pareva gonfiarsi... E allora nasceva quella fusione di armonie, che provocava gli applausi di mia madre...
»Mia madre era sempre là, in mancanza di altri ammiratori. La sua presenza incoraggiava l'arte e sorvegliava il buon costume.... Sia pace all'anima di quella santa donna! Ma vi è un destino, un angelo, un demonio, un Dio—chiamalo come ti piace...:—io preferisco[311] di crederlo un Dio, perocchè ebbi molte prove di sua onnipotenza... orbene, questo Dio non permette che le anime fortemente innamorate si consumino nello sterile desiderio.—Il nostro duetto a flauto e pianoforte si era prolungato tre mesi... e la vicenda delle interruzioni e delle riprese aveva affrante le nostre forze. Adolfo dimagrava... Al finire dei concerti due solchi profondi gli scendevano dal cavo dell'occhio fino all'estremo delle guancie... Scomponendo lo strumento per rimetterlo nell'astuccio, mi guardava, e pareva dirmi: fino a quando?
»Era tempo che il Dio degli innamorati venisse in nostro soccorso...
»Il duetto ebbe finalmente una soluzione, rapida... concitata... intensa... E la scossa fu tale che io ne rimasi impressionata per tutta la vita...
»Quel giorno ripassavamo una fantasia di Rabboni sulla Straniera... Il flauto di Adolfo era più inquieto che mai... Più volte io aveva sentito la canna di ebano scivolare sotto le mie treccie—l'alito di Adolfo mi infuocava le guancie...
»Cominciava il cantabile: Meco tu vieni!.... Mia madre stava ad udirci appoggiata alla finestra che guardava il giardino...
»A un tratto ella si alza—passa dinanzi al cembalo in punta di piedi, e, accennando a noi di continuare la nostra musica, esce pian piano dalla sala.
»Mia madre—lo seppi più tardi—scendeva in giardino per sorprendere la cameriera, la quale era entrata col guattero nella serra dei limoni...
»Per la prima volta, dopo tre mesi di febbre amorosa, Adolfo ed io ci trovammo soli.... I preliminari erano già esauriti.... La musica aveva supplito eloquentemente alla parola... Fra noi erano stabiliti da un pezzo tutti gli accordi della passione, ripetuti e confermati in tutti i toni musicali...
»Non appena la porta si chiuse dietro i passi di mia madre, la sala fu sconvolta da improvviso cataclisma—Adolfo, il flauto, il pianoforte, il meco tu vieni... tutto fu travolto in un caos delizioso e terribile...
»Oh! se qualcuno fosse entrato in quel momento!... Fortunatamente il pianoforte si smosse, percorse la sala come una locomotiva a vapore... e andò a piantare la coda nel vano del caminetto.
»All'urto del mobile io mi riscossi... compresi il pericolo della situazione... mi svincolai dalle braccia di Adolfo—e balzai dalla tastiera, sulla quale inavvertentemente mi era seduta!... Noi fummo in tempo prima che mia madre rientrasse, di riparare all'immenso disordine...
»Quando la buona donna si affacciò alla porta della sala, Adolfo ripigliava il meco tu vieni!»
La marchesa chinò il volto mestamente, e si tacque. Poi, rialzando la fronte con un movimento un po' vivo, quasi volesse cacciare una dolorosa ricordanza:—Ebbene? riprese—cominci tu a comprendere qualche cosa?...
—Oh!... senza dubbio!... Io comprendo che, all'età di sedici anni e pochi mesi, voi eravate già iniziata ai più intimi misteri dell'amore... E non posso a meno di congratularmi con voi! Nessuno vorrà rimproverarvi di aver sprecato il vostro tempo!...
—A sedici anni la donna soccombe per inesperienza—la sua stessa onestà, il pudore, la timidezza tutte le doti più sante dell'anima concorrono a tradirla... Quando una fanciulla di sedici anni può resistere alle violenze di una prima passione, vuol dire ch'ella è già pervertita....
»In un delirio sublime ho sacrificato ad Adolfo la mia innocenza... Abbandonandomi all'amplesso fatale io diedi a quel primo, a quell'unico amante la maggior prova della mia virtù...
»Non descriverò le terribili angoscie che seguirono la breve estasi di paradiso.—Non voglio far pompa di sentimento. Io ti svolgo i segreti dell'anima mia, per ajutarti a comprendere un paradosso oltremodo dilicato—altro scopo non hanno le mie confessioni.
»Quindici giorni dopo la scena che ti ho narrato—il mio povero Adolfo moriva di terribile malattia...
La marchesa fece una breve pausa—e portò la mano agli occhi, per spremere una lacrima che tardava a spuntare.
»All'annunzio di quell'immensa sventura, corsi nella mia camera—mi gettai sul letto, piansi disperatamente, e giurai, che tutta la mia vita sarebbe un olocausto d'amore alla memoria di quell'uomo adorato...!
»Due anni passarono—anni di lutto, di vaneggiamenti segreti, di sconsolati desiderii... L'immagine di Adolfo non si partiva dal mio cuore... Nelle veglie e nei sogni egli mi era sempre presente... Io lo vedeva, lo sentiva rivivere, ascoltava la sua voce nei miei esercizi musicali, riproducendo le divine melodie, che un tempo erano il nostro colloquio d'amore... Tutta l'anima mia era piena di lui!
»Puoi immaginare, Eugenio, di qual'occhio io mirassi gli eleganti giovanotti che frequentavano le nostre sale; come io accogliessi le banali galanterie e i facili omaggi!
»In quel tempo il marchese D... mi fu presentato.
—Povero marchese! Nobile, eccellente creatura!—Vera pasta da marito.—Egli prese a corteggiarmi con assiduità;—vedendosi il meglio accolto di quanti mi ronzavano intorno con pretesa di conquista, egli fu primo ad illudersi.—Più tardi ebbi anch'io la sventura di dividere quella fatale illusione! In un momento di esaltazione magnetica, il mio labbro promise... E il marchese divenne il primo anello di una lunga catena di mistificazioni, delle quali entrambi fummo vittime.
»Egli suonava il flauto... come Adolfo.—In udire quei suoni, credetti che un nuovo amore si rivelasse all'anima mia—invece era un flauto che rinfocava un amore antico!
A questo punto la marchesa mi vibrò di sbieco una occhiata diffidente, come temesse di sorprendere un sorriso di ironia. L'espressione del mio volto parve rassicurarla, ond'ella ripigliò con coraggio:
»Qual disinganno per l'orgoglio e la fatuità degli uomini, se la donna fosse meno abile nel dissimulare le ragioni dei suoi trasporti! Fortunatamente gli uomini non possono leggerci nel cuore! e noi medesime prendiamo talvolta degli equivoci molto strani sul nostro proprio conto!
»Il marchese era un distinto dilettante di flauto... Ecco il segreto della effimera simpatia!
»Io lo accompagnava col pianoforte.... senza volgere il capo... I suoni mi beavano l'orecchio—lo strumento qualche volta mi sfiorava la pelle—un tremito mi scuoteva le fibre—tutti i miei sensi aspiravano la voluttà di un amplesso desiderato.
»Una sera, mentre il marchese preludiava sul flauto diversi temi di Bellini, mia madre mi condusse in un gabinetto attiguo alla sala—mi fece sedere sovra un divano, e accarezzandomi con insolita tenerezza, mi annunziò, che il marchese le aveva chiesto formalmente la mia mano. Dal volto, dalle parole di mia madre, dalla eloquenza ch'ella impiegava per prevenirmi favorevolmente, compresi che un mio rifiuto l'avrebbe grandemente rattristata.—Il marchese era un eccellente partito!
»Io non osava rispondere—la mia agitazione e le mie lagrime rivelavano abbastanza chiaro la mia avversione al matrimonio. Le esortazioni, i consigli, le preghiere di quell'ottima donna non avevano forza sul mio cuore.... L'anima mia era tutta assorta in Adolfo, nell'uomo, cui la mia fede era vincolata in un segreto patto d'amore. E mentre mia madre tentava sedurmi colle promesse di un avvenire beato, io vaneggiava colle illusioni, io colmava quell'eliso di delizie, collocando il mio Adolfo al posto del marchese—mi perdeva voluttuosamente in quella vita ideale, che egli solo—il mio Adolfo—avrebbe potuto realizzare.
»Io era assorta in quell'estasi divina, allorquando dalla prossima sala si partirono le note di una melodia inebbriante, che da gran tempo io non aveva più udita!—Quel suono diede l'ultima scossa alla mia sensibilità, mia madre e il marchese trionfarono[315] della povera affascinata—ed io dentro una nebbia profumata, deviai dal sentiero prefisso.
»Il marchese suonava l'aria del meco tu vieni—quell'aria, che era stata l'ultima espressione di amore e di piacere nelle braccia di Adolfo. Mia madre, interpretando a suo modo la mia commozione, insisteva per ottenere da me una formale risposta.... Il sì tremendo mi uscì dal labbro... Ella uscì precipitosa per recarlo al marchese... Fatalità della vita!... Io aveva promesso ad Adolfo: e il marchese raccolse la fatale promessa...
»Due mesi dopo io mi chiamava la marchesa D....
La vecchia dama fece una pausa, aspettando una obbjezione. Io volli compiacerla:
—Perdonate, marchesa: io trovo un punto di inverisomiglianza nel vostro racconto... Se il consenso non era, come voi dite, che una espansione involontaria dell'anima in delirio, come avvenne che non abbiate più tardi rivocata la vostra parola, anzichè sacrificare i vostri nobili e santissimi affetti, ingannando un dabben'uomo, che pure aveva tutto il diritto alla vostra schiettezza?
La marchesa parve alquanto sconcertata, ma riprese bentosto:
—Era tanto felice mia madre!... Era tanto innamorato quel povero marchese!.... Ed io era... timida tanto a quei tempi, e tanto devota a mia madre!... La tua frase non poteva essere più esatta quando dicesti, che io ho sacrificato i miei nobili affetti!... Non lo doveva io forse, trattandosi della sola creatura che io amava al mondo, della ottima madre mia?—In chiesa, dinanzi all'altare... quando il sacerdote mi volse la terribile domanda, alla quale io non poteva rispondere senza mentire, ti confesso che fui sul punto di levarmi, strappare dal capo il velo e la corona, e proclamare alla presenza di Dio e degli uomini che io non dovea.. non poteva amare che... Adolfo!—La presenza di mia madre, la paura dello scandalo, ed anche..—vedi se il mio cuore era buono!—il pensiero di addolorare e coprir di ridicolo un uomo che sinceramente mi amava, paralizzò quell'impeto[316] di passione, e il sì irrevocabile fu proferito!.... Eugenio, tu non puoi ideare quanto costi ad una misera donna il doversi prestare ai trasporti di uno sposo... giovane... ardente... impetuoso!... La mia virtù mi sostenne... Il matrimonio dava al marchese dei diritti, e mi imponeva dei doveri... io ebbi l'eroismo del sacrifizio—mi sottomisi!
»Che ti pare, Eugenio, della mia annegazione, del mio coraggio?...
—Vi trovo sublime!... continuate!...
E presi l'atteggiamento del credenzone stupefatto.
»Il mio amore per Adolfo era un segreto fra me e Dio... proseguì la imperturbabile donna—ma desso non mi fece dimenticare che fra me ed il marchese era seguito un atto pubblico e solenne—ed io promisi rispettarlo, e corrispondere all'affetto di mio marito con una fedeltà irriprovevole!...
»Sa Iddio se quel voto era sincero!... Giuro per quanto vi ha di più sacro sulla terra, per la memoria di Adolfo, per le ceneri della mia dilettissima madre, che, per circa due mesi, nessun uomo, fuori di mio marito, potò vantarsi di avermi toccata una mano...
—Caspita!.... due mesi di fedeltà!... Permettete, marchesa, che io vi esprima la mia ammirazione!...
—L'ironia è fuori di proposito, Eugenio! Noi ci avviciniamo all'episodio culminante, nel quale si racchiude la spiegazione di tutta la mia vita...
»Il marchese non ebbe che un solo rivale—il fantasma di Adolfo.—Qual colpa ebbi io mai, fragile creatura, se il destino mi pose al fianco un marito, il quale non cessò mai, finchè visse, di evocare in proprio danno una larva irresistibile? Io non ho mai ceduto alle insistenze dei miei adoratori, se non quando essi vennero a me colle sembianze di Adolfo—presentati, condotti, introdotti dal.... flauto di mio marito!—E dire che quel povero dabben uomo sceglieva sempre, per soffiare nel flauto, i momenti più pericolosi... alla sua sicurezza coniugale!
»Due mesi erano trascorsi dalle nostre nozze. Eravamo alla campagna, in un magnifico casino a poca distanza da Varese. Un amico di mio marito, il conte Smilza, venne a trovarci—mio marito lo pregò di rimanere con noi qualche giorno. A quell'epoca tutto il mondo fu scandolezzato della avventura.—La mia relazione col giovane conte fu, pei due mesi di autunno, il pascolo più ghiotto della malignità villeggiante... Tutte le apparenze m'accusavano. Qual altri fuori di me, avrebbe potuto sapere, che il solo, il vero colpevole di quella sciagurata avventura, era.... il flauto di mio marito?
»Il conte Smilza era ciò che nel mondo elegante suol chiamarsi un bel giovane—vale a dire: una figura simetrica e suscettibile di quella distinzione artifiziale, che i ricchi possono procacciarsi a buon prezzo dal sartore e dal parrucchiere!
»Io non comprendo come alcune donne possano innamorarsi per la semplice attrazione della bellezza fisica. Le doti personali del conte non avrebbero prodotto nell'animo mio veruna impressione, se non avessi riscontrato nel di lui volto qualche rapporto di somiglianza con un tipo adorato... Il conte Smilza aveva le sopraciglia, il naso, e i mostacchi di Adolfo!... Tanto bastò, perchè in vederlo la prima volta, io provassi una viva commozione. I miei occhi si fermarono a contemplarlo con simpatia... Sentii una leggiera vampa di rossore salirmi alle guancie—e il contino, illudendosi sulle cause del mio turbamento, si credette in obbligo di farmi la corte...
»Ferma ne' miei propositi di onestà, io mi studiava di evitarlo, di imporgli soggezione col mio freddo contegno—sopratutto io sfuggiva tutte le occasioni di trovarmi sola con lui. Lo scellerato poneva altrettanta costanza nel perseguitarmi! Per lui il progetto di conquista, in pochi giorni, era divenuto passione, amore irresistibile... Mio marito, il buon uomo!... favoriva tutti i piani strategici dell'ospite amico...
»Due settimane trascorsero senza gravi conseguenze... Qualche volta, per simpatia di ricordanze, i miei sguardi indugiavano troppo espressivi sulle[318] sembianze del conte. Egli ringalluzziva... prendeva coraggio—ma tosto la mia indifferenza e la mia austerità gli imponevano nuovo freno. Non aveva egli ragione di trovare inesplicabile la mia condotta?
»Le apparenze erano tali, ch'egli poteva credermi una civettuola capricciosa ed altera, il tipo di quelle donne di marmo, che si piacciono di veder liquefare gli amanti!
»Io aveva già provata la mia virtù negli intimi e solitari colloqui, ed ero uscita vittoriosa. Mi tenevo sicura di me stessa, forte a qualunque attacco. Da ultimo mi abbandonai improvvidamente al pericolo, non sospettando, che il poco formidabile adoratore dovesse avere quandochessia un alleato irresistibile... onnipotente—il flauto di mio marito...
»Sull'imbrunire di una tepida giornata, il conte mi offerse il suo braccio per accompagnarmi ad una passeggiata in giardino. Mi opposi dapprima, quasi presaga del pericolo—poi cedetti alle insistenze di mio marito, che promise raggiungerci.—Il marchese era predestinato!—Obbedii... Scendemmo in giardino... percorremmo un lungo viale... ci internammo in una specie di labirinto... alla fine, ci trovammo assisi sovra un banco di pietra circondato di mirti.—Sul nostro capo un padiglione di fiori—sotto il piede un tappeto di muschio e di timo selvaggio....
»Il conte non aveva proferito parola durante la passeggiata—e frattanto la mia mente fantastica si era smarrita nel prediletto sentiero delle rimembranze... Io dimenticava di aver al fianco un nemico, un cospiratore, il quale spiava il buon momento per aprirsi una breccia nella mia virtù!... Troppo tardi me ne sovvenni, quando, seduti nel misterioso boschetto, il conte prese la mia mano, la portò con violenza alle labbra, e gettandosi alle mie ginocchia...
»Egli tentò un assalto da vero maestro—senza proferire parola—con quella audacia, che è propria delle grandi passioni.
»Feci uno sforzo per respingerlo... per levarmi in piedi—ma in quel punto un suono fatale.... giunse al mio orecchio... mi turbò i sensi... mi paralizzò le[319] forze... ed io rimasi soggiogata dal fascino melodioso... Mio marito, da una finestra del casino, salutava il sorgere dalla luna cornuta, intuonando sul flauto l'aria del meco tu vieni!»
La marchesa interruppe il racconto con un sorriso un po' equivoco, quasi a lasciarmi dubitare ch'ella parlasse per celia. La ipocrisia ebbe un lampo di pudore, ed io seppi frenarmi, e contrapporle la dissimulazione più perfetta.
»Questa prima infedeltà coniugale—proseguì la marchesa—e colla parola riprese tutta la serietà di chi confida nella altrui dabbenaggine—questa prima infedeltà spiega tutte le altre, anzi le giustifica tutte.—Io non intendo narrarti i cento episodii di questo dramma, che durò ventidue anni, fino alla morte del marchese. Le sembianze di Adolfo e il flauto di mio marito non cessarono mai dal perseguitarmi. Gli uomini, sempre ingrati e crudeli colla donna che si abbandona, anche involontariamente, alle loro seduzioni, dopo aver profittato dei miei deliqui, mi carpirono nuovi favori colla minaccia dello scandalo. Quante volte io dovetti sacrificarmi alla pace di mio marito, al decoro della famiglia, ai pregiudizii del mondo!... Quante volte, rialzandomi da una fatale caduta, io mi trovai in potere di un despota appassionato, il quale usufruttando i miei terrori, non si vergognò di impormi il sacrifizio della mia virtù, a patto di mantenere il segreto! E credi tu, Eugenio, che io sia riuscita a salvarmi dalla pubblica maldicenza? La più parte de' miei fatui adoratori violò ignobilmente la promessa; io fui disonorata, infamata dalla calunnia, quale una Messalina! Manco male che le accuse vigliacche non giunsero all'orecchio di mio marito... Il buon uomo portò nella tomba la miglior opinione della mia onestà, come avviene ordinariamente a tutti i buoni mariti!
»Ed ora—esclamò sospirando la marchesa—la mia confessione è finita... Tu sai come io abbia molto[320] amato... e amato un sol uomo!... Vediamo se il tuo giudizio vuol essere inesorabile come quello del mondo!...»
—No! la vostra confessione non è finita, risposi dopo breve silenzio. Voi mi parlaste della vostra vita coniugale—e quand'anche io fossi tanto buono da ammettere il flauto di vostro marito come circostanza mitigante, vi resterebbero ancora non poche debolezze da giustificare—quelle che appartengono alla vedovanza. Il flauto magnetico avea già cessato di suonare, allorquando, or fanno pochi anni, in una sola giornata...
—Vedo.... vedo.... a che si riferiscono le nuove accuse, interruppe la marchesa con qualche imbarazzo.—Tu alludi alla battaglia di Magenta.... all'ingresso delle truppe alleate!... Io aveva dimenticato che quella istoria si è fatta di ragione pubblica, per l'indiscrezione di uno sciaguratissimo turcos, il quale osò pretendere... l'impossibile!
»Poichè mi ricordi quell'episodio, ti dirò che esso non ha nulla a fare colla mia vita, co' miei sentimenti, colle mie passioni di donna. A quell'epoca io aveva già cessato di appartenere ad un sesso...
»Dopo la morte di mio marito—cessati gli eccitamenti quotidiani del flauto—disingannata dalla società—insterilita da una sequela di sfortunate emergenze—nel mio cuore si spensero le ultime faville della sensibilità.—Perfino la imagine di Adolfo cominciò a presentarsi sbiadita nelle mie ricordanze!
»Una crisi terribile è questa nella esistenza della donna, quando in lei inaridiscono i più nobili affetti!... Molte sconsigliate, a questa epoca della vita, trabordano in ridicole civetterie; talune si danno al giuoco altre a tiranneggiare la gioventù, a tormentare la famiglia col pretesto di educare; moltissime si consacrano alla devozione, offrendo ai preti un logoro avanzo, e a Dio il rifiuto dei preti!
»Meglio ispirata, io mi infervorai di patriottismo, e presi parte alle agitazioni politiche del momento!
»Era giorno di festa per Milano!... I Tedeschi scappavano a rompicollo... entravano i Francesi, i Piemontesi,[321] i nostri!... Inebbriata di entusiasmo, apersi la mia casa ai liberatori, e il primo dei miei ospiti—uno zuavo, tutto ancor polveroso e schiumoso per le fatiche della marcia—non mi lasciò tempo da esprimergli la mia riconoscenza, e fece un assalto di sorpresa, che... per mia sbadataggine... gli riusciva a meraviglia. Che poteva io, debole donna, contro un espugnatore di Malakoff? Da qualche tempo non ero più abituata a simili assalti.... nè avrei osato sperare... cioè... temere, che per me sussistessero ancora di tali pericoli!
»Or vedi fatalità!—Un bersagliere piemontese... si accorse, od ebbe sospetto, della buona fortuna toccata allo zuavo, e il giorno istesso mi fece delle proposte, che la mia virtù non poteva a meno di respingere fieramente.—«Oh!... sta bene!... esclamò il bersagliere con accento desolato: tutto pei Francesi... e niente per noi... Quale disgrazia chiamarsi soldati italiani!...
»Quelle parole mi trafissero l'anima;—io compresi che il povero figliuolo si teneva umiliato dalle mie ripulse... Era offeso dalla preferenza accordata allo zuavo... Mi credette avversa al Piemonte... Era mio dovere disingannarlo—e lo feci con tutto il cuore.
»Una scena poco dissimile mi accadde più tardi con un povero soldato di linea, il quale parimenti si lagnava che i bersaglieri, in grazia della uniforme più elegante e bizzarra, venivano di preferenza festeggiati. Quel ragazzo mi fece pietà; volli consolarlo... E se io non mi fossi ribellata al quarto pretendente—un turcos dall'aspetto terribile—avrei forse evitato una rissa fra soldati, nella quale il mio patriottismo fu rivelato ed esposto agli ignobili commenti de' miei concittadini!... Non importa! Io perdono ai giornalisti la indegna interpretazione di quel fatto! Ho agito per patriottismo, e col massimo disinteresse... La mia coscienza è tranquilla!
»Or bene, Eugenio; posso io sperare che tu mi abbia compresa?...
—Sì: vi ho compresa perfettamente, risposi con qualche vivacità—forse meglio che voi non comprendiate voi stessa.
»Io non vi accuserò di ipocrisia... Qual'è la donna tanto abbrutita nel vizio, che, alla sua volta, non sappia creare un sublime sofisma, per coonestare la propria condotta?—Ciò è nella stessa natura del sesso—e voi, marchesa, oltre all'esser donna, appartenete ad una classe sociale, dove suol farsi uno inverecondo abuso di cotali sofismi!
»Io mi guarderò bene dal turbare la vostra coscienza con degli scrupoli inopportuni. Solo mi permetterò di farvi notare, come vi siate stranamente ingannata sulla origine dei vostri traviamenti...
»All'età di sedici anni, la prima volta che vi trovaste da sola a solo con un suonatore di flauto, voi soccombeste senza il menomo sforzo di resistenza... Credeste in quel giorno innamorarvi di un uomo, ed oggi ancora vi sembra di aver amato un uomo per tutta la vita. Ecco l'errore!... Voi vi innamoraste di un flauto, e non siete vissuta che per il flauto...
—Di mio marito?
—Perdonate, marchesa—io parlo del flauto in genere... E credo che la più parte delle donne prendano lo stesso errore...
La marchesa ascoltava senza dar segno di irritazione—da ultimo sorrise maliziosamente, e pareva sul punto di dichiararsi convinta... quando un suonatore girovago passò sotto le finestre, e si fece a soffiare nel flauto quattro note stonate.
La marchesa ritorse gli occhi, e lasciò cadere le braccia con significante abbandono—onde io, vedendo a che mirasse lo stratagemma, anzichè espormi a qualche imbarazzo, prevenni lo svenimento e uscii dalla sala.
—Come si amano quei due sposi!—mi diceva un giorno l'amico Maccabruni, additandomi una giovane coppia che transitava il ponte di congiunzione fra i bastioni e il giardino pubblico.
—Pare impossibile!—esclamai sbadatamente.
—Il marito è un bel giovane...
—Non lo nego—ma è tanto imbecille...
—Ragione di più perchè egli sia adorato da sua moglie...
—Via, Maccabruni! non far questa ingiuria al bel sesso.—Per la luna di miele—voglio concederlo—può bastare un marito giovane e robusto; ma più tardi—passate le effervescenze—esaurito il miele—se il neo-consorte non ci mette un poco di spirito e di poesia; la luna, nel decrescere, diviene cornuta.
I due sposini entrarono nel caffè, e noi, senz'altro parlarne, scendemmo a braccio fino al parco dei cervi ad ammirare e meditare il bellissimo effetto degli animali forniti di corna.
Cinque mesi dopo, si dava alla Scala la prima rappresentazione dell'Africana di Mayerbeer—e i nostri due sposini brillavano da un palchetto di prima fila, mentre io, coll'amico Maccabruni, mi trovava[324] in platea, serrato nelle costole da due individui, i quali, pel loro biglietto gratuito, fors'anche per qualche spicciolo intascato il mattino, battevano le mani a far sangue.
Malgrado i pregi della musica e il dimenarsi dei miei vicini, che parevano invasati, al terzo atto io cominciava a noiarmi, e il mio amico Maccabruni più di me.
Buon per noi che il fragore della istrumentazione e degli applausi ci permetteva di conversare a mezza voce, senza dar nell'orecchio a nostri prossimi.
Maccabruni mi invitò a girare lo sguardo verso il palco dei due sposi.—La donna era seduta, colla testa leggermente inclinata, e la sua mano, posta a visiera della bocca, lasciava indovinare un enorme sbadiglio.
—Ecco là qualcuno che si diverte come noi! dissi all'amico—la signora non sembra molto commossa dall'inno a San Domenico...
—Ma il marito, come tu vedi, fa le vendette di quello sbadiglio... Oh! Oh... si leva in piedi... si getta colla persona fuori del palco...
—Guarda... guarda lassù! quel signore diventa pazzo... Vedi come straluna gli occhi!...
—Presso a poco come sua moglie... con questa sola differenza che la moglie straluna anche la bocca...
Parlando, appena ci eravamo accorti che l'atto era finito, che i nostri vicini aveano cessato di battere le mani, epperò potevano udirci.
Ci udirono infatti—e l'un dessi, a voce alta e vibrata, ci rivolse la parola:
—Quel signore lassù non batte le mani a caso... Quel lassù se ne intende un pochetto... Non fa meraviglia ch'egli comprenda... che egli vada in estasi in udire il sublime spartito... Un professore come lui!...
—Ah! gli è dunque un professore di musica quel signore...? domanda un tale che siede nella panca dietro la nostra.
—Professore! Sicuramente! È ben vero che egli non ha bisogno di dar delle lezioni per vivere... o di suonare a pagamento nelle orchestre...
—Ah! un dilettante.... suonatore.... Sapreste dirmi, di grazia di quale istromento....?
—Istrumento...! Istrumento!... Se suona, gli è certo che deve suonare un istrumento...
—Di violino forse?...
—Ve lo dirò io, cosa suona quel signore—sorge a dire un giovanotto che non ha mai cessato di sorridere sotto i baffi durante quella conversazione—quel signore è un grande intelligente di musica, un grande contrappuntista, un vero genio dell'avvenire... ma quanto a suonare, egli non è riuscito a perfezionarsi che sovra un solo istromento... Un istromento non molto difficile, ma in compenso il più completo e forse anche il più esatto...
Ma il giovanotto non può compiere la frase... Il direttore dell'orchestra ha percosso la tolla, e guai a chi fiata al cominciare dei suoni!
Nel quarto atto, durante la marcia indiana ed il brindisi parimenti indiano, e al cospetto di tutta quella India, per la quale Selika, che è nata nel paese, ha mille ragioni di chiamarsi Africana; il fanatismo de' miei vicini, del signore di prima fila... e del pubblico che comincia ad andarsene... tocca il suo colmo...
Al duetto fra Vasco e Selika, la signora sembra riscuotersi—quella scena voluttuosa, dove la energia e la potenza di un vecchio genio sembra ravvivarsi per effetto di cantaridi, produce una viva sensazione nella giovane sposa... Ma io mi accorgo che gli occhi languidi della bella prendono una direzione affatto opposta al palco scenico, e le sue pupille sembrano addentrarsi in un palchetto, che le sta di fronte.
In verità non so darle torto. Il marito, sempre assorto nella musica dell'Africana, nel corso dei quattro atti non si è mai degnato di rivolgerle la parola.—Queste dimenticanze dei mariti rappresentano quasi sempre il bivio fatale, dove i cuori di due sposi prendono a divagare in un cammino affatto opposto.
Nell'intermezzo, che succede al quarto atto, io mi[326] levo in piedi per riprendere la conversazione interrotta; ma lo sconosciuto non aveva atteso la calata del sipario, per abbandonare il suo posto ed uscire dal teatro.
La platea si è molto diradata; gli spettatori possono allargarsi a loro agio sulle panche.
Frattanto, la mia bella signora non cessa di volgere tratto tratto delle occhiate significanti al palchetto di faccia; mentre il marito, agitando il suo binoccolo bianco, esprime il suo entusiasmo a due giornalisti sprofondati nelle sedie fisse.
Gli è quasi sempre nei teatri e nelle feste da ballo che hanno principio i romanzi appassionati, qualche volta un po' scandalosi, della società moderna. In altri tempi le grandi passioni si sviluppavano nei boschi (come i funghi), all'ombra dei castani, al margine del ruscello, ai miti raggi della luna—Erano imbecilli i nostri nonni!—Un poeta, amico mio, che ha voluto provarsi l' autunno scorso alle emozioni degli amori boscherecci, è tornato a Milano con una pezzuolina di cerotto sul naso, per la maledetta puntura di un calabrone.—Pel comodo degli innamorati, viva la città! grido io.—Qui non vi sono calabroni—e i mariti, per giunta, nelle città sono più paperi che altrove!
Ma io m'accorgo di aver già troppo irritata la curiosità de' miei lettori—e non dico delle mie lettrici, perchè non desidero che questo racconto venga letto dal così detto bel sesso.
Oggimai sono trascorsi dieci mesi da quella prima rappresentazione dell'Africana che mi ha posto sulle traccie di un geniale mistero—che mi ha invogliato a tener d'occhio i due giovani sposi, per iscoprire le loro prime divagazioni.
Da questo momento io sparisco dalla scena e rinunzio alla mia parte di attore, per limitarmi a quella di un semplice espositore di fatti.
Il marito si chiama Teobaldo.... La signora porta il nome abbastanza poetico di Clarina.—Dicono che il marito si invaghisse di lei e la pigliasse in moglie per simpatia di quel nome, che gli ricordava il suo istromento favorito, il clarinetto.
Teobaldo è maniaco per la musica, e ha potuto, nella sua condizione di milionario, consacrarsi perdutamente allo studio ed ai diletti di quest'arte, malgrado l'avverso organismo sortito dalla natura.
Ho detto perdutamente, e l'avverbio non può essere più acconcio. Studiando il pianoforte, il violino, il contrabasso, il bombardone, i timpani, e in generale tutti gli istromenti di indole gagliarda, il Teobaldo ha perduto il suo tempo. Basti sapere che egli non è mai riuscito ad apprendere per orecchio una sola cantilena delle tante opere da lui udite. L'aria della pira—incredibile a dirsi!—non è ancora entrata esattamente nel dominio delle sue reminiscenze, sebbene ei l'abbia eseguita più di mille volte... sull'organetto.
—Ma dunque—codesto Teobaldo—un istromento è pur riuscito a suonarlo!
—Vero! verissimo!... convien rendere questa giustizia al di lui talento. A forza di prove, di studi e di esercizii pazientissimi, Teobaldo oggigiorno è tale suonatore di organetto da poter competere cogli orbi più famosi.
Ma non a tutti è dato conoscere questi particolari;—l'organetto non fu visto da alcuno—i più intimi del signor Teobaldo, quelli stessi che più volte l'udirono suonare (ed è gente versata nell'arte), non hanno mai sospettato che il meraviglioso harmonium del nostro dilettante non sia altro che uno di quegli strumenti a manubrio, fabbricati a benefizio degli inabili ed a strazio del pubblico.
Teobaldo ha speso una somma ingente per far costruire il suo organetto. L'artefice, lautamente pagato, produsse un capolavoro ammirabile; tale, che[328] a udirlo in distanza, di leggieri lo si scambia per una eccellente fisarmonica della officina Tubi.
Nel palazzo di Teobaldo, quell'organetto occupa un salottino attiguo alla grande sala di ricevimento. Nelle serate di riunione, ogni qualvolta si fa musica al palazzo, alla fine dei concerti, gli amici, i professori, i dilettanti, le signore, tutti gli invitati fanno istanza a Teobaldo, perchè si compiaccia di coronare il trattenimento eseguendo un pezzo sull'harmonium.
Teobaldo sulle prime fa il ritroso... Ma gli invitati insistono con bel garbo—le signore si mettono in ginocchio—e alla fine Teobaldo acconsente a suonare, col patto di rendersi invisibile.—Poco dopo, dal gabinetto vicino escono gli accenti melodiosi, e, finito il suo pezzo, Teobaldo rientra nella grande sala a ricevere le congratulazioni e gli evviva.
Con questo abile stratagemma, Teobaldo è riuscito a passare per un distinto musicista, e ad ottenere il diploma di membro onorario di diverse società filarmoniche.—A Milano si voleva affidargli la presidenza della Società del Quartetto.
Non erano passati venti giorni dalla prima rappresentazione della Africana, quando la moglie di Teobaldo, la bella Clarina, profittando della assenza del marito, si chiuse nel suo gabinetto da toletta per scrivere una lettera.
Poniamoci dietro le spalle della signora (è una posizione che offre quasi sempre delle viste aggradevoli), e leggiamo ciò che ella scrive:
«Mio dolce amico!
«Tu hai commesso uno di quegli errori a cui difficilmente si può rimediare. Qualcuno aveva già parlato a Teobaldo in tuo favore, e mio marito si mostrava assai ben disposto a riceverti in casa; ma tu, colle tue imprudenze, hai guastato i miei piani. Come mai ti è venuto in mente di dire tanto male della Africana al club degli artisti? Teobaldo era presente, Teobaldo ha udito ogni cosa, e ti giuro che, dopo un[329] tal fatto, è assai difficile che egli si riconcili con te. Teobaldo è furioso... Figurati che egli non dorme più... che egli non mangia più... che egli mi ha completamente obliata per l'Africana. Ogni giorno mi viene a casa con dei nuovi signori, maestri, dilettanti, giornalisti... che so io?... il pianoforte è in ballo... Io non so più dove ricoverarmi per fuggire l'Africana.—Quando penso che tu solo, tu che avresti potuto tener luogo di tutti, per una imprudente chiacchierata... ti sei chiuso per sempre la strada che io ti aveva aperta!... Carlo!... Se è vero che tu mi ami... se è vero che brameresti rinnovare ogni giorno le gioie... ahi! troppe fugaci e incomplete... della nostra prima giovinezza... Carlo: io te ne supplico—desisti dal far guerra... all'Africana—riconciliati con lei—confessa pubblicamente i tuoi torti—non ti resta altro modo per tornare nelle buone grazie di mio marito... e per avvicinarti a colei, che ti ama e ti aspetta coll'anima ansante.
«C. B. T.»
Due giorni sono trascorsi.—A un ora dopo mezzanotte, presso un tavolino del caffè Merlo siede una comitiva di giovani eleganti, i quali stanno discutendo calorosamente sui maggiori o minori pregi dell'opera di Mayerbeer. Teobaldo, che non fa parte del circolo, udendo parlare del suo tema favorito, vorrebbe intromettersi alla discussione, ma in quel punto tutte le voci acclamano a un nuovo personaggio che entra nella sala, e a quello si dirigono tutti gli sguardi.
—Eccolo!... ben giunto!... non ci mancava che lui! gridano i contendenti.
Il nuovo personaggio è un bel giovane biondo che all'aspetto dimostra venticinque anni. Teobaldo, in vederlo, dà indietro alcuni passi.
—Miei buoni amici, comincia il giovane prendendo la posa di una vittima—percuotetemi, schiaffeggiatemi,[330] ammazzatemi chè io l'ho ben meritato! Datemi della bestia... del cretino... dite pure che Carlo Restani è la negazione dell'istinto musicale, la più svergognata creatura del secolo!
Tutti i volti esprimono la meraviglia, e attendono la conclusione di quell'enfatico esordio.
—Io ho bestemmiato—prosegue il giovane a voce alta—la più sublime emanazione del genio onnipotente di Dio. Io non ho compreso ciò che è comprensibile all'infimo idiota della terra—ho negato il sole, il gigante degli astri, cui salutano tripudianti tutti gli esseri animati e inanimati!—non ho gustato, alla prima rappresentazione, la musica dell'Africana!
Teobaldo che già si era mosso per uscire dal caffè, si avvicina di nuovo alla comitiva.
—Perchè mai, questa sera, io mi sono lasciato trascinare dal mio mal genio a rientrare alla Scala?... Ho dovuto arrossire, inorridire di me stesso... Ho provato una di quelle umiliazioni che atterrano un uomo, che obbligano ad eclissarsi per sempre da ogni consorzio... Ma no! io non voglio eclissarmi... preferisco, colla sincerità, colla franchezza del mio ravvedimento, espiare di qualche modo il mio peccato... Per mia penitenza, ho stabilito di intraprendere un viaggio artistico in tutte le città, in tutti borghi e i villaggi d'Italia, a proclamare, collo spartito alla mano, che giammai, dacchè si fa musica al mondo, non è stato scritto un capolavoro più sublime della Africana di Mayerbeer!
—Ah! meno male!... ecco un uomo che ha il coraggio di ritrattarsi!—esclamano alcune voci.
Teobaldo si avvicina al Restani, e, toccandosi con una mano l'ala del cilindro, gli dice col più amabile accento:
—Mi permetta, signore, di presentarle le mie più sincere congratulazioni!... Sere sono al club degli artisti, io mi era non poco scandolezzato in vedere che un giovinotto di talento un distinto musicista come lei, non partecipasse all'entusiasmo di quanti comprendono e sentono la grande arte!... Ella non può[331] figurarsi l'immenso piacere che io provo nel poterla contare fra i nostri.
Carlo Restani s'inchina leggermente a Teobaldo, e gli chiede:
—Vuol ella dirmi, signore, a chi ho la fortuna di parlare?
—Teobaldo Biettola, possidente... e maestro... cioè... professore.... o per meglio dire dilettante di harmonium, e membro onorario di diverse accademie filarmoniche...
—Chi non conosce di nome il signor Teobaldo Biettola? dice il Restani inchinandosi—professore d'harmonium... e meglio ancora mecenate splendidissimo degli artisti e promotore benemerito dei buoni studii musicali... Io mi tengo fortunato di poter distruggere, in uomo sì universalmente stimato pei suoi talenti musicali, la cattiva impressione...
—Basta!.... non serve.... Io già sapeva che anche lei si sarebbe convertito... Tutti gli uomini, come ella dice, universalmente stimati, debbono tosto o tardi convenire con noi.—Guardiamoci attorno: vede lei un maestro, un suonatore, un dotto qualunque che abbia composto una polka... un solo giornalista (non parlo dei giornalisti da dieci franchi, ma di quelli... come sarebbe a dire... da cento, da duecento)... insomma conosce lei qualcuno della grande sfera artistica e sociale, che non divida il nostro entusiasmo?
—La prego—signore—non mi umilii davantaggio—sono già troppo mortificato di dover confessare la mia sconfitta! La si figuri, signor Biettola, che domani io dovrò arrossire dinanzi ad una ragazzetta di otto anni, la quale non è ancora arrivata al suo quarto esercizio sul pianoforte! Una ragazzetta che alle prime rappresentazioni dell'Africana, è andata in estasi alla scena del vascello!
—Dunque!... Sentiamo un poco... (riprende Teobaldo accalorandosi).... io so tutta l'Africana a memoria... ma pure... amo sentire dagli altri... Quali sono i pezzi che più le sono piaciuti?
—Prima di tutto... la prima battuta del preludio...
—La prima? non ci ho badato... Domani a sera voglio farci attenzione...
—Poi, le cinque battute che seguono...
—Cinque battute!... ma dunque ella crede proprio che quelle cinque battute?...
—Io non le darei per le sedici...
—Diamine!... converrà che io le ascolti meglio.... Quanto a me, vado pazzo per la cavatina di Ines.... lalalà.... lilili... bibibì... zon! zon!.....
—E il coro dei vescovi... toutoù.... lalarà.... lorolò.... titatà..... lo so tutto a memoria... Che ne dice del settimino!.... oh il settimino!... fron... fronfron!... tititi... tititì... tilorouc!.... tititì... tilorouc... tilorouc....
—Lorouctì... lorouctì...
—Bravo... lei può darmi dei punti... Lei suona... voglio dire... lei canta... o piuttosto solfeggia come un angelo!
—Ha lei notato l'effetto di quel bemol, che viene a formare un accordo parziale di settima diminuente sulla tonalità generale di do diesis, sviluppando negli ultimi accordi le producenti di sol ce fa ut?...
—Fromfrom lalalà—fromfrom lalà!... Ma le sedici battute... Che ne dice delle sedici battute?... Pensare che vi sono degli imbecilli, i quali sostengono che tutto l'effetto consiste negli unissoni della quarta corda?... Avete provato a riportare quel pezzo sul pianoforte o sull'harmonium?
—Io ritengo che sull'harmonium le sedici battute hanno da risaltar meglio che sui violini... Peccato che io non sappia suonare l'harmonium! Quel pezzo, sull'harmonium, deve riuscire divino!
—Qualche giorno... ve lo farò sentire—disse Teobaldo prendendo la posa solenne di un musicista, che si ricorda esser membro onorario delle più illustri accademie d'Italia.
Carlo e Teobaldo quella sera divennero i migliori amici del mondo.
—Se non fosse l'ora già tarda, io vi inviterei a salire nel mio palazzo per udire come sappia accentare sul mio istromento quelle ammirabili battute.—Ma mia moglie dorme a poca distanza della sala... e mi dorrebbe ch'ella si svegliasse...
—Ciò sarebbe imprudente...
—Voi dite bene... sarebbe imprudente!
E i due giovani si separarono con una stretta di mano.
Una mattina, la bella moglie di Teobaldo stava seduta languidamente sovra un divano della gran sala, e i suoi sguardi correvano spesso al pendolo dorato della caminiera.
La porta si apre; Carlo Restani viene introdotto da Teobaldo, che si affretta a presentarlo alla moglie.
Costei china la testa con aria indifferente, e accenna al giovane di sedere sovra un fauteuil.
—È un nuovo convertito!... esclama Teobaldo con enfasi... Tu sai bene, Clarina... gli è quello istesso che al club degli artisti... Basta, il signor Carlo vuole che si dimentichi quella scena... e noi vi poniamo sopra un sasso... D'ora innanzi egli ha il diritto di mettersi a pari cogli uomini universalmente stimati... Con quell'orecchio!... Con quella memoria! Figurati, Clarina, ch'egli mi ha fatto capire certe cose... certi bemolli... certe chiavi... Una gran scienza la musica!... e quando la si è studiata per dieci anni... si capisce che bisogna tornare da capo!
Il Restani risponde a monosillabi—la signora affetta un'aria di noncuranza, che fa indispettire il marito.
—Mia moglie si intende poco di musica...—prosegue Teobaldo—di bemolli e di cose simili non vuol saperne... e quando io le suono le sedici battute, qualche volta si addormenta... Ma io credo che a lungo andare... la convertiremo... non è vero, signor Restani?
—Mi spiace, gentilissima signora, che la mia venuta in questa casa debba procacciarvi una molestia... io desiderava sentire sull'harmonium l'effetto delle sedici battute... ma se ciò ha da tornarvi sgradevole... noi rimetteremo ad altra occasione il diletto...
—No!... fate pure! fate pure!—risponde la signora—sono più che mai disposta alle vostre battute... Alla fine, sedici battute passano in un momento... Animo, Teobaldo!... Vediamo se gli è propriamente oggi che tu riesci a convertirmi!
Teobaldo non si fa molto pregare, e dopo la solita premessa che la sua timidità nervosa non gli permette di suonare in presenza di chicchessia, va a chiudersi nel gabinetto.
—Adorabile Clarina! esclama il Restani, gettandosi ai piedi della signora.
—Carlo!... Imprudente!.... aspetta almeno che egli muova il manubrio...!—dice la donna con voce sommessa.
—Non abbiamo che sedici battute...—e come tu ben dicevi poc'anzi—sedici battute.... passano presto!
—All'età di Mayerbeer sedici battute sono anche troppo... ma noi si può chiedere il bis!
A queste parole della signora l'organetto risponde coi primi accordi.
Tram tram tratamla—tram tram trattamla...
—Questa.. è musica vera... musica buona!...—sospira il giovane.
—Musica dei tempi nostri!
—Ti ricordi Clarina!
—Se mi ricordo!!!
—Qui c'è di tutto.... passato.... presente.... avvenire!...
—Mio paradiso!
—Angelo mio... bis! bis! bis!—grida la signora con enfasi—bravissimo... bravo!... Da capo Teobaldo!... Da capo tutto!
Ma Teobaldo non ha udito le acclamazioni entusiastiche di sua moglie, perchè profferite con voce troppo languida, e uscendo improvvisamente dal gabinetto, rimane quasi pietrificato in vedere che la sua Clarina ed il giovane dilettante dell'Africana seggono abbracciati sul medesimo divano.
—Poter del mondo!—prorompe Teobaldo—ho da vederne ancora.... degli effetti!
—Ne vedrai ben altri in avvenire!—risponde la signora Clarina, ricomponendosi colla massima disinvoltura—e quando non si vuol vederne... non si trascura la moglie per suonare altre musiche... e si fa il bis a suo tempo.
FINE.
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